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lunedì 6 dicembre 2021

Prosa. La Tessera del Professore

Un’altra mattina per cercare di far entrare qualcosa in quelle teste calde, sempre più vestite di nero.. un’altra giornata per avere una decina di giovinastri con il loro “Voi, professore” e il loro star sull’attenti con quel saluto a braccio teso verso quella dannata immagine, appena poco più su del Crocifisso. Per non parlare dei tanti e altri salamelecchi. Per non dire della cartina della Polonia con segnate le posizioni di quei stramaledetti Crucchi del Diavolo. Per non dire della radio sulla cattedra, da usarsi agli intervalli per ascoltare quel pallone gonfiato… No! Pensava prendendo il treno. Non è più tempo della Storia e del Pensiero! La Storia? Che è, se non il ricordo retorico dell’Impero romano? Poi, toglietemi la curiosità, quale Impero, quello d’Occidente o d’Oriente?... E il Pensiero? Perché, si pensa ancora?... A vedere gli ultimi eventi, no.. pensare sembrerebbe un sogno. Macché, pensare è vietato dalla Legge!

Povero professore! Lui sì che insegnava, mica come il Speme, l’insegnante di Scienza e Fisica, un osso duro del Regime, un buonannulla che manco sapeva l’Italiano e che si limitava a correggere le materie altrui quando certe cose cozzavano con certe altre della buonanima… E pensare che questi, appunto il famigerato Speme, aveva pure seguito un corso a pagamento del Podestà per imparare a insegnare correttamente in sintonia con il Partito. Giulio Cesare? Mai morto. Al suo posto morì un tale pigliato su dalla Via Appia; e lui? Mascherato da Ottaviano riuscì a vivere altri cinquant’anni e più. Odoacre? Macché, le solite storie dei sovietici.. costui non è mai esistito… Ragazzi, non fatevi fregare: Odoacre è un mito leninista contro lo Czar. E, allora, i mille e quattrocento e passa anni senza Italia e senza Impero? Congiura di qualche Ebreo!... Davvero strano pazzoide codesto Podestà! uno spiantato che un tempo aveva un’industria e che, a causa della vecchia guerra, perdette tutto.. un poveraccio senza un quattrino, soltanto da parte un misero centinaio di milioni di lire - guadagnate in qualche modo - e la voglia di guadagnare vendendo consigli su come si debba interfacciarsi con il nuovo corso della Patria. Per non parlare della sua vena poetica, con delle Poesie scritte più con versi di animali che da Poeta.. e tutte con la solita citazione greca “Eia Eia Alalà” che, senza scomodare il povero Gabriello dal suo laghetto d’oro, se mai avesse letto tali componimenti, perfino Marinetti avrebbe spaccato la testa all’autore e gliela avrebbe spaccata volentieri proprio con lo scheletro di un motore a scoppio!...

In ogni caso, stava iniziando una nuova mattina per insegnare qualcosa a delle teste quadre. Ma non tutto stava andando bene, anzi, tutto stava marcando abbastanza male. Il professore, infatti, con la vecchia dirigenza se l’era cavata con qualche richiamo all’ordine e alla disciplina, ma al vecchio preside - che era abbastanza dei socialisti! - non importava un granché, anzi, un bel niente, che costui non avesse il tesseramento del Partito; e così era sempre filato tutto liscio. Sì, a dire il vero qualche problema c’era stato, specialmente dopo che Sua Maestà firmò, per così dire, delle certe leggi. In effetti, in una classe del professore c’era un buon ragazzo, ebreo d’origini e di fede, uno di quelli più svegli e attenti, fors’anche il migliore. A un certo punto l’Ebreo non andava più bene e i primi ad avvalersi del diritto di tagliarlo fuori furono i compagni di classe.

«Puzzi proprio di sinagoga incendiata!».

«Finalmente a voi Giudei vi danno proprio una bella lezioncina».

«Il Tetesco ha ragione: le cose vanno a male per colpa di voi!».

«Non voglio più sedermi vicino a un usuraio della Giudea!».

«Il mio babbo me l’ha detto: vi prenderemo uno a uno e ve ne daremo tante.. ma tante.. che diventerete cristiani e italiani a suon di botte».

«Mi spiace, eri mio amico. La radio mi ha detto che voi Giudei siete miei nemici. Vattene o ti pesto per bene!».

«Ehi, Giudeo, ci vieni a casa mia a mangiare gli spaghetti all’olio di ricino?».

E quella volta lì, dinnanzi a tutta questa gran poesia di insulti gratuiti e di minacce, il professore amministrò così un oceano di note che manco le folle oceaniche ai discorsi di quell’altro potevano pareggiarne per numero. Ma fu sùbito richiamato e, alla fine, dovette scusarsi pubblicamente. Il ragazzo ebreo, nel frattempo, non si fece più vedere a scuola. 

«Che c’ha? L’hanno bruciato finalmente?» disse un compagno di classe durante una lezione del Speme.

«Ma almeno.. ‘sti Giudei dovrebbero prenderli tutti e bruciarli per bene» chiosò un altro.

«Ma è materiale contaminato… Bruciarlo non mi sembra il caso. Ci manca solo che ci appestano fumando come sigari mentre s’arrostiscono».

«Allora che si fa ai Giudei? Li si lascia liberi di spassarsela nei ghetti?».

«Ma no!» esclamò il Speme «Penso che si debbano prendere, fucilare e, una volta fucilati, bisognerebbe caricarne i fetidi corpi su degli autofurgoni e portarli a bruciare lontano, dove non inquinano. Per esempio, in Germania». 

«E l’autopsie chi gliele fa?» domandò uno spilungone che era il preferito del Speme.

«Perché? Vorreste scomodarvi a far loro l’autopsie?... Manco dobbiam vedere se hanno sofferto… Eppoi, sappiamo bene che li abbiamo ammazzati noi!» chiosò il gran luminare della Scienza e della Tecnica.

E così seguirono forti risate di gusto da parte dell’intera classe. Il Speme, di fatto, era diventato il più bello e il più bravo di tutti i professori. Ma medico al quale moriva la maggior parte dei suoi pazienti - e giustamente non si faceva l’autopsia - ora costui era lì a proibire a tutti di conoscere. Mica uno sfortunato come il nostro professore, che ora se la passava davvero.. ma proprio brutta.

Era, infatti, cambiata la dirigenza e il nuovo preside, che tanto desiderava essere prima o poi Podestà, il dottor Dragoni, così si chiamava, era un convintissimo sostenitore della nuova Politica e della Rivoluzione nera. Era riuscito di far rinchiudere in galera il suo predecessore e adesso voleva che le disposizioni del Regime venissero pienamente rispettate. Era anche uno di quelli che avevano tanti amici e che, senza merito alcuno, favorivano costoro a loro piacere; sicché presto in quel Liceo non tutti i professori furono di gran valore.

Ma il nostro professore mica aveva la tessera del Partito! e, mentre stava viaggiando sul treno, non ci pensava manco di farsela e averla. Aveva portato tante classi all’esame, tanti allievi erano finiti all’Università e lui sì che insegnava!... Ma non aveva la tessera del Partito e rischiava il posto.

Quando giunse a scuola, in sull’uscio, un bidello gli sbarrò la strada.

«Scusate, professore, c’avete la tessera?... No?... Allora non potete entrare» e detto questo gli chiuse le porte della scuola in faccia.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Lunedì VI Dicembre AD MMXXI.


Dipinto di Mario Sironi (1885-1961), Paesaggio urbano, Arte di Regime, "Arte" fascista, 1940-1941. Olio su Tavola. Pinacoteca di Brera, Milano.

domenica 30 maggio 2021

XXX Maggio. L'ultima Visione. Revisione de' I Frammenti della Visionaria

Si svegliò di colpo.. un sussulto fremebondo e inconsueto, proprio come se qualcuno la stesse scuotendo ferocemente per toglierle il sonno e farle paura. Fuori, il silenzio.. il Nulla. Non c’era nessuno. Soltanto la vacuità.. il perfido vuoto.

 

Gli sgherri.. le ronde.. le urla degli ubriachi.. i dadi gettati.. i passi di ferro.. le scommesse.. le bestemmie che le accompagnavano… Nulla, era tutto sparito.. era sparita anche la fioca luce della piccola finestrella, la pallida Luna che rispecchiava sul pavimento il suo scialbo argento.. erano sparite le stelle, quei puntini illuminati appena appena visibili, ogni tanto, da quel vecchio ripostiglio per miserabili esseri umani che vagamente potevansi beare di questi piccoli lumicini nella notte della noia. Erano svaniti i rintocchi furtivi.. i tintinni delle campane. Che ore erano?... Certamente la notte.. profonda notte… Quale? l’ultima. E dopo sarebbe stato il giorno, ovviamente.. sarebbe stato anch’esso l’ultimo… E dopo? E poi? E dopo ancora? Che cosa? La notte?... Una notte senza fine?... Una nuova alba con la sua rugiada di vita? Un’aurora intensa e senza fine? Un mattino molto lungo.. lunghissimo? Un pomeriggio eterno? Un Tramonto senza morte?...

 

In ogni caso, tutto era ormai sparito.. dissolto.. annientato, come in una malia indefinita di altrettanto indefinito incantatore. Del resto, esistono gli incantatori. Specialmente il loro re. È un incantatore molto oscuro anche se dicono che abbia in sé della luce.. molta luce, quanta serve per ingannare.

 

Ancora qualche scossone. Una spinta o due… Spingete, orsù, quelle povere membra! Non sarà la prima volta che vengono scosse! Spingete e fate che sembri tutto il galoppo di un palafreno selvaggio in mezzo alla battaglia!... Ancora qualche spinta, forza!


“Vattene! Lasciami.. lasciami!” gridava in un crescendo rabbioso di timore e di voce “Lasciami stare.. ti prego! Lasciami stare!”.

 

Intanto, ella cercava qualcosa alla cintola.. che cosa? un rosario, forse una croce.. ma non lo trovava. Dov’era quel rosario? Eppure, poche ore fa era lì.. e adesso?... Dissolto.. annientato.. sparito, come tutto. Ma non poteva essere svanito. A volte, infatti, balbettando delle preghiere a metà, si addormentava perfino tenendolo nella mano. Ora non c’era. Dove l’aveva messo? Dove gliela avevano messo? Chi gliela aveva portato via?... Chi gliela aveva portato via?... Chi le voleva così male?...

 

“Dove l’ho messo? Dove l’ho messo?” ripeteva trattenendo a stento le lagrime “Dove me l’hanno messo?... Dio mio, dove l’ho messo?”.

 

Non c’era più nemmeno la candela.. povera bimba! Le avevano portato via anche il suo lumicino. Tutto era tremendamente buio. E come se tutto questo non bastasse, si sentiva sudata e, come capita spesso a chi suda, ora che sembrava ben lungi dall’aver caldo, aveva i brividi.. fortissimi brividi. Forse era la febbre. Frattanto, persisteva il silenzio!... Eterno silenzio!... Tutta rannicchiata sul duro giaciglio, infatti, sentiva soltanto l’eco dei suoi palpiti.. erano davvero agitati, come battiti di piedi che corrono sulla pietra, come grandine che precipita sui veroni di marmo, come gli accordi di un liuto nei giardini nascosti di un castello.

 

Poi, tutto d’un tratto si piegò in quattro, come presa da un forte spasmo e, disperatamente mettendosi le mani sulle orecchie, iniziò a gridare: “Vattene via! Vattene via!... Lasciami!” e senza mai finire la preghiera continuava a dire singhiozzando “Padre nostro che sei nei cieli… Padre nostro che sei nei cieli… Padre nostro che sei nei cieli… Aiutami tu… Padre nostro che sei nei cieli…”. Dopo, piena di angoscia e disperazione, quasi incapace di finire di pregare, proruppe in pianto. Inoltre, cercava disperatamente una coperta… Non c’era. Voleva coprirsi tutta… per proteggersi. Per nascondersi. Per non farsi vedere.


“No! Non guardarmi! Non guardarmi! Vattene!”.

 

Continuavano i brividi, come se nella pelle si fosse riflessa a uno specchio una paura tremenda per una presenza indeterminata e occulta. Forse con lei c’era qualcuno.

 

“No!... Vattene! Non guardarmi!... Chi sei? Cosa vuoi?... Vattene!”.

 

Gli attimi passavano.. l’angoscia persisteva.. le lagrime scendevano copiose. Poi, senza che qualcosa suggerisse che la crisi fosse passata, ella balzò in piedi, come risoluta e, presa da qualche altro indefinito eccesso, cercò eroicamente qualcosa al suo fianco. Dov’era? Non c’era. Dov’era il fodero.. la spada?... Nulla. Non c’era più nulla.

 

Fu come un fulmine. Atterrata e attonita si buttò in ginocchio… Era davvero molto disperata.. e, con le mani coprendosi il volto quasi come per vergogna, soffriva immensamente nell’anima. Tremava.

 

“Non ho ucciso nessuno.. non ho fatto nulla di male… Non sono una strega! Non sono un’assassina! Non ho ammaliato nessuno!”.

 

… E la sua mente andò all’infanzia.. volò a un vecchio noce e a quel noce si ricordò che giuocava così piccola alle Fate con tutte le sue più care amiche.. si rimembrò che arrivavano i soliti monelli - i soliti Borgognoni, quelli lì, duri di cervice e di cuore - che questi stuzzicavano le fanciulle.. che a quel noce arrivavano dunque i fanciulli del suo paesello, che scappava con le sue amichette, mentre gli altri.. giù botte! A quel noce portava sempre le pecore.. sentiva voci strane tra le sue fronde.. vegliava e dormiva, vedeva e sognava. Erano le Fate?... Chi era?... Le Fate hanno forse le ali folgoranti di luce?... A quel noce si sedeva a pregare, vi incise una croce sul duro tronco.. a quel noce giuocava a confessare i suoi compagni, come un prete, - e forse per lei non era nemmeno un giuoco! - a quel noce vedeva riflessi i fumi dei villaggi bruciati, sentiva le grida dei sopravvissuti, “Salvate la Patria! Salvate la Patria!” e poi.. sùbito! galoppi furiosi di cavalli e cavalieri dalle gualdrappe azzurre e rosse e con leoni d’oro, risa, bestemmie.. le spade nei foderi grondanti sangue… A quel noce.. a quel noce.. udendo voci di veglie e di sogni.. a quel noce, ebbene, si fece strega?...

 

A un tratto si ricordò anche dei bellissimi tramonti che vedeva d’estate - fra poco sarebbe stata una nuova estate ed ella, no, non l’avrebbe più rivista! - tra i suoi campi d’oro. Che orizzonti belli e liberi! Invidiabili e innamoranti! Allora era il tempo in cui vedendoli correva tra le spighe.. correva.. correva inseguendo qualcosa, come un sognatore corre per arrivare alla sua notte e avere i suoi sogni... e correva e correva, cercando nel vento l’abbraccio di qualcuno che lei sola potea intravedere.. ed erano gli attimi in cui voleva andare oltre.. e oltre ancora.. e sempre più oltre.. dimenticarsi di tutto: dei divieti, delle convenienze, degli obblighi. Voleva essere ella stessa quegli orizzonti! Perdersi in loro e nel volto nascosto di Chi li volle plasmare. E in siffatto desiderio, sovente, si addormentava e veniva trovata assopita in mezzo al grano.. e riportata a casa e, ivi una volta arrivata, veniva rimproverata severamente.

 

“Pazza! Il grano è fatto per essere raccolto non per dormirci sopra!”. Le ricordava bene.. eccome se le ricordava! suo papà diceva sempre le solite parole. Ma.. se invece il grano fosse fatto per dormirci sopra e non per essere raccolto?... E se fosse fatto per far seguire ai fanciulli i loro sogni? E se esistesse per indirizzare i cuori a oltrepassare l’orizzonte, e un altro.. e un altro ancora? E se fosse un giuoco di bimba?...

 

“Va là che tu sei una pazzerella.. una malnata… Andrà a finir male.. molto male.. sta’ pur certa! E ora va’ a dormire senza cena.. così impari”.

 

E il giorno dopo, in sua vece, si ritrovava nel suo lettuccio un poverello.. un vagabondo, mentre ella se ne stava distesa sporca di fuliggine sulla cenere del caminetto. Che disperazione! Che monelleria! E il padre giù dal prete a confessare i peccati della figliuola.. e quegli - che l’ascoltava e molto più assennato - giù a perdonare le lamentele di questo papà. Che male c’è nel dormire nella cenere?...

 

La cenere… Orrore!... Presto o tardi tutto finirà in cenere!... Già.. la cenere!... Quei bellissimi campi di grano dove si addormentava venivano presto raccolti e le sue paglie.. ebbene, erano soltanto buone per il fuoco. Tutto quel mare dorato.. fu cenere… gli orizzonti si inebriavano di siffatta cenere.. lo erano anch’essi. Tutto si dissolveva e non era più. E poi da questa dissoluzione misteriosa altrettanto misteriosamente ecco altro grano.. altri sognatori.. altre fiamme e altra cenere.

 

Del resto anche questa cenere serve.. ma resta semplicemente cenere. Nulla di più. Frammenti minuscoli e insignificanti di sassolini e di legnetti neri, carbonizzati, da lasciare ai margini di qualche rigagnolo.. forse ancora un po’ fumanti. Appunto, nulla di più.. una miseria infinitamente triste e orrenda.

 

“Che cosa ho fatto di male, mio Dio?” continuava a singhiozzare “Non ho ucciso nessuno… Non sono una strega!”.

 

Forse, in quell’attimo, sarebbe stato meglio per lei se non avesse mai vegliato e sognato, se non avesse mai ascoltato l’inascoltabile mistero di voci celestiali - erano vere? Erano menzogna? - se fosse rimasta nel seno della casa paterna, se come tutte le sue care amiche avesse imparato il segreto della danza e della giovinezza, se avesse fatto all’amore con un semplice giovinotto, un contadino.. se lo avesse sposato per dargli la forza lavoro di tantissimi figli… Del resto, era bella.. molto bella.. sì, forse qualche callo alle mani e ai piedi, capelli tra il castagno e il corvino - strano, per il mal pelo d’una strega! - potea attrarre, sì. Ma se fosse stato tutto questo, che senso avrebbe avuta la sua piccola vita?... No, non sarebbe stato meglio nulla di tutto questo. Era una strega.. bene.. era una dannata.. non importa. Ma almeno la sua vita aveva un senso.

 

Intanto, si ricordava ancora del noce. Oh che bel noce e che tristissima storia!

 

Un giorno, forse anche ora, un lagnaiuolo ha tagliato quel noce, lo ha portato nella sua piccola capanna e ci ha ricavato tantissimi fasci e, per guadagnare un po’ da vivere, è andato in città e lo ha venduto per poco a un mercante di passaggio. Quest’ultimo, con il suo somarello, è arrivato in quell’altro posto, ben conosciuto, e ha venduto quella legna a una soldataglia che ne aveva bisogno per bivaccare; e quei soldati, saputo del bisogno di quel legno per ben altro, lo hanno ceduto a dei pretonzoli da quattro soldi e a un vescovo bifolco per una manciata di altri miseri danari.. forse una trentina.. e quegli altri - i preti e il vescovo bifolco! - ci hanno fatto una bella pira, con tanto di palo.. e adesso la vogliono accendere per bruciare la strega… Non è nemmeno la prima volta. E questa strega, una fanciulla di appena diciannove anni, viene portata a quel palo.. discinta, con una tunica bianca, viene legata dal boia e, mentre implora il nome di Cristo, nel mezzo dei più atroci dolori si scioglie e diventa cenere.. quella cenere buona solo a stare in un caminetto.. buona a stare nei campi di grano dopo il raccolto.. quella cenere cui basta un debole soffio di vento per portarla nell’orizzonte.. oltre l’orizzonte.. sempre più oltre.

 

Ora, non le importa proprio più niente: dei suoi assassini che ha perdonato, della Patria che non ha capita la lezione, dei campi di grano e del noce. La sua Anima si bea del fuoco infinito e glorioso dell’Amore e ha scoperto che nulla fu un Sogno e che fu tutto vero, dassenno, tutto vero.. il suo corpo, invece, al par dell’animuccia, è eterno, in tante parti, in tanti fiori.. in tanta vita e in tante culle. Ha girato il mondo, è andato ovunque. Altri, invece, al contrario di lei, sono perennemente chiusi in un sepolcro di marmo, dove vengono solleticati da un gomitolo di vermi. Bella fine, per loro! È così, del resto, che il Cielo fa ridere i suoi dannati!

Quadro di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867), (Santa) Giovanna d'Arco all'Incoronazione di Carlo VII di Valois, Neo-Classicismo, Romanticismo, Accademismo francese, 1854.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Venerdì XXVIII Maggio AD MMXXI.

venerdì 28 maggio 2021

XXX Maggio. Frammenti della Visionaria

Si svegliò di colpo.. come se qualcuno la stesse scuotendo ferocemente per toglierle il sonno e farle paura. Fuori, il silenzio.. il Nulla. Non c’era nessuno.


“Vattene! Lasciami.. lasciami!” gridava in un crescendo rabbioso di timore e di voce.

 

Intanto cercava qualcosa alla cintola.. un rosario, ma non lo trovava. Dov’era quel rosario? Poche ore fa era lì.. a volte si addormentava perfino tenendolo nella mano. Non c’era. Dove l’aveva messo? Chi gliela aveva portato via?...

 

“Dove l’ho messo? Dove l’ho messo?” ripeteva trattenendo a stento le lagrime.

 

Non c’era più nemmeno la candela.. tutto era tremendamente buio. E come se tutto questo non bastasse, si sentiva sudata e aveva i brividi.. fortissimi brividi. Silenzio!... Tutta rannicchiata sul duro giaciglio, infatti, sentiva soltanto l’eco dei suoi palpiti.. erano davvero agitati, come battiti di piedi che corrono sulla pietra.

 

Poi, tutto d’un tratto si piegò in quattro e disperatamente mettendosi le mani sulle orecchie iniziò a gridare: “Vattene via! Vattene via!... Lasciami!” e senza mai finire la preghiera continuava a dire singhiozzando “Padre nostro che sei nei cieli… Padre nostro che sei nei cieli… Padre nostro che sei nei cieli”. Dopo proruppe in pianto. Cercava disperatamente una coperta… Non c’era. Voleva coprirsi tutta…


“No! Non guardarmi! Non guardarmi! Vattene”.

 

Gli attimi passavano.. l’angoscia persisteva.. le lagrime scendevano copiose. Poi, senza che qualcosa suggerisse che la crisi fosse passata, ella balzò in piedi, come risoluta e, presa da qualche altro indefinito eccesso, cercò eroicamente qualcosa al suo fianco. Non c’era. Dov’era il fodero.. la spada?... Nulla.

 

Si buttò in ginocchio.. disperata.. con le mani coprendosi il volto quasi come per vergogna.

 

“Non ho ucciso nessuno.. non ho fatto nulla di male… Non sono una strega!”.

 

… E la sua mente andò a un noce e a quel noce si ricordò che giuocava da piccola alle Fate con le sue amiche, che arrivavano i soliti monelli - i soliti Borgognoni - che questi stuzzicavano le fanciulle.. che a quel noce arrivavano i fanciulli del suo paesello, che scappava con le sue amichette, mentre gli altri.. giù botte! A quel noce portava sempre le pecore.. sentiva voci strane tra le sue fronde… Erano le Fate?... Chi era?... A quel noce si sedeva a pregare, incise una croce sul suo tronco.. a quel noce giuocava a confessare i suoi compagni - e forse per lei non era nemmeno un giuoco! - a quel noce vedeva riflessi i fumi dei villaggi bruciati, sentiva le grida dei sopravvissuti… A quel noce.. a quel noce.. si fece strega?...

 

A un tratto si ricordò anche dei tramonti che vedeva d’estate tra i suoi campi d’oro. Che orizzonti belli e liberi! Allora era il tempo in cui vedendoli correva tra le spighe, cercando nel vento l’abbraccio di qualcuno che lei sola intravedeva ed erano gli attimi in cui voleva andare oltre.. e oltre ancora.. e sempre più oltre.. dimenticarsi di tutto: dei divieti, delle convenienze, degli obblighi. Voleva essere ella stessa quegli orizzonti! E nel suo desiderio spesso si addormentava e veniva trovata assopita in mezzo al grano.. e riportata a casa, dove veniva rimproverata.

 

“Il grano è fatto per essere raccolto non per dormirci sopra!”. Le ricordava bene.. suo papà diceva sempre le solite parole. Ma.. se invece il grano fosse fatto per dormirci sopra e non per essere raccolto?...

 

“Va là che tu sei una pazzerella.. una malnata… Andrà a finir male.. sta’ pur certa! E ora va’ a dormire senza cena.. così impari”.

 

E il giorno dopo, in sua vece, si ritrovava nel suo lettuccio un poverello.. un vagabondo, mentre ella se ne stava distesa sporca di fuliggine sulla cenere del caminetto.

 

La cenere… Orrore!... Presto o tardi tutto finirà in cenere!... Già.. la cenere!

 

“Che cosa ho fatto di male, mio Dio?” continuava a singhiozzare “Non ho ucciso nessuno… Non sono una strega!”.

 

E si ricordava ancora del noce.

 

Ora un lagnaiuolo ha tagliato quel noce, lo ha portato nella sua piccola capanna e ci ha ricavato tantissimi fasci e, per guadagnare un po’ da vivere, è andato in città e lo ha venduto per poco a un mercante di passaggio. Quest’ultimo è arrivato in quell’altro posto e ha venduto quella legna a una soldataglia che ne aveva bisogno per bivaccare; e quei soldati, saputo del bisogno di quel legno per altro, lo hanno ceduto a dei pretonzoli da quattro soldi per una manciata di altri miseri danari.. e quegli altri - i preti! - ci hanno fatto una bella pira, con tanto di palo.. e adesso la vogliono accendere per bruciare la strega… E questa strega, una fanciulla di diciannove anni, viene portata a quel palo, viene legata e, mentre implora il nome di Cristo, nel mezzo dei più atroci dolori si scioglie e diventa cenere.. quella cenere buona solo a stare in un caminetto.. quella cenere cui basta un debole soffio di vento per portarla nell’orizzonte.. oltre l’orizzonte.. sempre più oltre.

 

Ora, non le importa proprio più niente. La sua Anima si bea del fuoco infinito e glorioso dell’Amore.. il suo corpo è eterno, in tante parti, in tanti fiori.. in tanta vita e in tante culle. Altri, invece, sono perennemente chiusi in un sepolcro di marmo, solleticati da un gomitolo di vermi. È così che il Cielo fa ridere i suoi dannati!

Quadro di Howard Pyle (1853-1911), Illustrazione, Giovanna d'Arco in Prigione, Tardo-Romanticismo, Realismo, Simbolismo statunitense, 1911.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Venerdì XXVIII Maggio AD MMXXI.

sabato 27 marzo 2021

Nero

Nero!.. vedeva sempre tutto nero. Nero!... Qualsiasi cosa sarebbe stata un disastro.. un pasticcio.. la peggior polenta di grano saraceno! Repubblica, Monarchia, Papa.. al diavolo! Sarebbe stato un annientamento totale. L’Italia, il Piemonte.. la Francia, l’Austria? Al diavolo anche loro. Di nero vestiva anche. Perfino il bastone da passeggio era nero. Cosicché le persone che lo conoscevano lo chiamavano Nero.

Di nero aveva anche la pelle.. insomma, non proprio di nero, s’intende, ma avendo fatte delle battaglie in terre lontane per non so quale cosa, era abbronzato.. non come un ottentotto, ma - beh, diciamo - come un berbero, tanto che nei paesi circostanti lo soprannominavano Mametto. Di nero aveva un passato poco chiaro dove secondo alcuni sarebbe stato seminarista dai Gesuiti i quali, come si sa, vestono nero. Di nero, del resto, amava la tonaca dei preti, quando non officiavano o quando celebravano i funerali. Che belli i funerali! Specialmente se c’erano drappi neri.

Una volta, a Pasqua, si diceva che il sagrestano - un po’ avvinazzato - non si ricordasse più dove avesse messo gli abiti d’oro; e quell’altro, dunque, cosa dice?.. “Beh, può anche celebrare la Pasqua vestito di nero!”. Anche il vin santo, secondo lui, doveva essere nero.

Cosa preferiva del giorno? Ovvio, la notte.. la nera notte.. o nelle belle stagioni le nuvole nere dei temporali. Perfin le tende del suo studio erano nere.. nere erano le tovaglie.. neri i fazzoletti… Anche il suo cane era nero.. tutto nero. Di nero aveva i capelli, le ciglia.. gli occhi.

Il signor Chinetti aveva il nero pure nel cognome ché si sa che nella china il colore più usato è il nero; ed era un avvocato.. uno di quelli che legge e legge, scruta e scruta e parla latinorum senza capire un’acca delle cause che gli portavano. Alla fine, non voleva fare l’avvocato.. desiderava riflettere e, riflettendo, le sue conclusioni erano che tutto è..? che tutto è nero.

Tra l’altro, nel suo paese, del signor Chinetti non sapeva niente nessuno.. o quasi, sicché quando veniva a cercarlo qualche forestiero, a quest’ultimo le comari e gli uomini in piazza rispondevano:

Chinetti? E chi à l’è cusquì?”.

Ah.. l’è al Negar!... Povar fiö!”.

Perché, alla fine, Nero era davvero un povero figliuolo, un uomo cui non si vide mai un sorriso e al quale piaceva più la sua ombra nera.. nera che se stesso. Anche dal sole si riparava con un ombrello nero, quando usciva, tutto vestito di nero.

Ormai non più giovane, si fece tosto rasar la barba e i baffi non appena questi da neri divennero un po’ grigio-bianchi. Infatti, non gli piaceva nient’altro che il nero. Perfino il legno del suo pianoforte era nero. La carne gli piaceva quand’era ben abbruciacchiata.. perché era nera.

Di donne non ne voleva sapere! Nella sua vita passata gli dissero di sposare qualche fanciulla d’Africa.. ma lui? Niente.. niente di niente! Non per qualche avversione a certe stirpi; ma perché anche in Africa c’è sempre qualcosa che è più chiaro del nero.

 

Una mattina era nel suo studio a guardare certe sue carte del diavolo (e il diavolo in molte raffigurazioni è nero!), piene di scritte belle nere, quando qualcuno, chiamandolo da giù, gli urlò: “È successo! È successo!... Venite!”.

Sùbito Nero posò la penna vicino al calamaio, si tolse gli occhiali - ahimè, poco neri! - andò alla finestra e l’aperse. No.. c’era il sole. Non andava bene. Senza dir nulla si mise un attimo la destra sulla fronte, come un pellerossa su una montagna, vicino i segnali neri di fumo altrettanto nero, poi si ritirò, frugò vicino al suo tavolo di lavoro, ne prese un ombrello (nero), lo aprì e tornò alla finestra.

“Quando?” domandò con calma e mezzo accigliato all’uomo che era sotto e che frenava a stento le risate.

“Poco fa! Venite!”.

“Ma siete già andati per il prete?”.

“Sì.. ma l’han trovato indisposto”.

“Indisposto un corno!” sbraitò il signor Chinetti, tutto nero “Doveva essere lì.. già presente, fin da sùbito. Questo non è comportamento da cristiani”.

“Oh.. beh, perché? Voi siete cristiano?” gli ribatté l’altro che certo già s’immaginava di avere presto al collo le mani nere del suo amico.

“Più di voi altri, di certo!” ansimò Chinetti, ma con una certa calma. Poi aggiunse “Ma l’hanno già messo.. là.. come si chiama.. mi dimentico perfino le parole… Fossero nere anche le parole!... Insomma, l’hanno già messo nell’affare di legno?”.

“Sì.. sì.. e par che dorma beato!” rispose l’altro che nel frattempo, trattenendo le sghignazzate, si diceva tra sé “Costui è davvero un gran babbione!”.

“Olà.. ma ditemi. Secondo voi avranno i soldi?... Verrà a costare e so che non stanno molto bene”.

“Ah.. se è per questo chiederanno qualcosa alla signoria vostra!”.

“Un corno!... Un corno!” urlò Nero che poi si ricompose “Beh.. vediamo! Li avevo avvisati… No, non sono avaro… darei loro volentieri qualche lire, è che.. è che”.

“Che cosa?”.

“Gli è che i soldi non son neri!”.

Quell’altro sotto scoppiò a ridere mentre pensava tra sé: “Oibò, è successo.. e ora questo idiota pensa ai soldi che non son neri!”.

“Che mai ridete?” lo sgridò Chinetti “Mi state forse tirando qualche brutto scherzo?... Mi state infinocchiando?... Ah! Capisco.. capisco, voi altri! Sempre a farsi beffe di me. Non è così?... Quindi immagino che non sia ancora successo!”.

“Ma no.. è successo.. e sbrigatevi, ve ne prego. È che ridevo che voi in questo momento pensate alle lire, che non son nere”.

“E dopo quel che è successo non dovreste nemmeno ridere” ansimò Nero che poi disse “Dite che verrò presto!” e si ritirò in casa, chiudendo l’ombrello.

 

Innervosito come non mai, aprì mille cassetti neri e ne trasse fuori parecchie lire (ah, che orrore, poco nere!), aperse un armadio nero e ne cavò fuori il suo cilindro, ovviamente sempre nero; poi prese il suo bastone da passeggio, che abbiamo detto che era.. nero… Infine, scese le scale, andò sulla strada e riaprì il suo ombrello.

Che fare, adesso?... Andare lui stesso dal prete, vista la gravità della situazione e intimargli con le brutte di fare il proprio dovere?... Andare nella casa del misfatto, a mani vuote?... E chissà che tristezza infinita vederlo tra quelle assi di legno dove pare che dorma!... Ma possibile!? Hanno fatto davvero così veloce? L’han già lavato e messo là dentro?... Ah! che fretta hanno avuto di stringerlo tra quelle assi! Si fa alla svelta!... E lui, arcigno.. scrutatore del futuro.. pessimista come nessuno al mondo, lo aveva ben detto di fare attenzione e che purtroppo tutto questo sarebbe avvenuto.

Così pensando arrivò alla casa del misfatto.

 

Che via vai di gente! Donne e uomini vestiti di tutti i colori, fuorché di nero! Poveracci!... E il nipote alla porta, terribilmente commosso, al quale qualcheduno offriva pure un cordiale!...

“Dov’è? Dove lo avete messo?” chiese al giovanotto il signor Chinetti.

“Ah, zio.. è sopra.. è sopra!... Andateci vi prego.. non fate il testardo!” gli rispose il nipote.

Nero entrò, chiuse l’ombrello e lo appoggiò alla parete, davanti al vigile sguardo di una sguattera da due soldi.. e nemmeno lei vestiva di nero.

Salì le scale, entrò in una porta aperta, scostò una tenda e.. lo vide… Alfine lo vide! In una bellissima culla stava coperto di bianco un bel bambino, nato da poco. Vivo? Oh sì.. era vivo.. e sembrava così ben in salute che vi sarebbe rimasto.. e per molto.. e molto ancora. Nel momento in cui Nero lo fissava, egli aprì gli occhi. Che bei occhi azzurri! E che bei capelli.. pochi, ma di un colore tra il biondo e il castano! E che belle guanciotte!... Si fissarono per molto.

“È vostro nipote!” gli disse avvicinandoglisi una donna di giovane età, probabilmente la madre, ancora mezza discinta “Ben sappiamo cosa ne pensate della vita.. ma è vostro nipote!”.

“Tenete.. sono per voi.. sono per lui!” disse Nero dandole delicatamente in mano le lire che aveva portato con sé.

“Vi ringrazio, zio!” rispose la donna.

“No.. no! Vi ringrazio io!” ribatté Nero che, sùbito ricomposto, riabbassò le tende, volse le spalle alla culla e uscì. Scese le scale.

Stava per uscire dalla porta di casa quando la voce della sguattera lo incalzò.
“Scusatemi, dimenticate l’ombrello!”.

 

Nero si girò, la guardò.. le fece un sorriso, si ricompose e le disse: “Ah, sì! L’ombrello!... Beh, non mi serve.. tenetelo lì dov’è.. usatelo.. bruciatelo… Fate come volete!... Non vedete?... Oggi c’è il sole!”.

Quadro di Francisco José de Goya y Lucientes (1746-1828), Saturno divora i suoi Figli, Pre-Romanticismo, Romanticismo spagnolo, 1819-1823.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Sabato XXVII Marzo AD MMXXI.

mercoledì 4 settembre 2019

L'Automa

Nella più santa vacuità della spoglia Cattedrale, tra l'oscuro che inghiottiva le sontuose navate, fino a salire prepotentemente alle volte, e tra l'odore acre dei ceri accesi dai pii devoti, donde le preghiere alluminavano un poco le tenebrose mura, ora, giacché era mezzogiorno, si presentavano dei timidi raggi di Sole, i quali trapassavano incorporei e metafisici i bei rosoni, disegnando qua e là sul vecchio pavimento delle piccole strisce di fioco lume che, a sua volta, si andavano così a sommare a quelle che le candele emanavano. Ovviamente la Messa e le salmodie erano appena finite e, chi da una parte, chi da un'altra, fedeli e sacerdoti se ne tornavano alle loro dimore, povere e umili per taluni, ricche e opulente per altri; e mentre si presentava questo incedere e allontanarsi di gente, si potevano osservare i rosari che se ne stavano ancora tenuti ben stretti nelle mani di qualche seminarista e di molte vecchiette. Soltanto una nobildonna, probabilmente una marchesa o una duchessa, prima di decidersi di uscire, se ne stette a lungo inginocchiata con la sua servitù dinnanzi all'altare dove, più di cinquant'anni prima, re Enrico aveva sposato la De' Medici. Infatti, il singolare, pomposo ed elegante personaggio stava chiedendo alla Vergine e al Signore la Grazia di concedere alla figlia, obbligata dal padre ad andare in sposa a un duca di Parigi, la bellezza di una vita felice da moglie e, lo volesse Iddio, da madre. Probabilmente la nobile signora credeva che anche l'altare fosse propizio a delle nozze serene; giacché si assisteva in questo periodo a un insieme di contraddizioni: da una parte i Filosofi si facevano proseliti della Ragione e, nel miglior dei casi, di una Religione filtrata da elementi razionali; dall'altra, le persone erano combattute tra la superstizione, la Fede e il nuovo corso della Storia con il trionfo dei Lumi, della Scienza e del Progresso. 
Resta il fatto che la nostra nobildonna se ne stette a lungo davanti al suo luogo prediletto e, più di una volta, a momenti si prostrava per recitare meglio una preghiera, e dopo questa un'altra, e dopo l'altra, ancora una... tanto che a un certo punto un suo servo, abbastanza vegliardo, si mise palesemente a sbuffare.
"Silenzio!.... E voi che avete, Jean?" chiese la donna con voce assorta in qualche creduta contemplazione "Pregate anche voi.... Mi fareste un gran diletto se pur voi chiedeste quel che dimando anch'io!"; e detto questo, si voltò impercettibilmente e con un'occhiata obbligò il servitore a inginocchiarsi di fianco a lei.
"Poi però me lo date voi il bastone per rialzarmi!" ansimò tra sé il malcapitato che, per tutta la durata della preghiera della padrona, non fece altro che recitare in silenzio più di una litania di insulti e di bestemmie contro i padroni, i nobili e le signore troppo devote a Iddio. Alla fine, però, quando i raggi del Sole entravano sempre più forti e impetuosi dal vetro variopinto dei rosoni, la bizzarra compagnia - padrona e servitori - se ne andò. Poco dopo, se qualcheduno fosse rimasto vicino al portone principale, avrebbe sentito una carrozza e lo scalpitio di alcuni cavalli. 
Eppure, nella Cattedrale, v'erano altri individui, ben poco ligi e devoti, e sicuramente, con in testa ben altre idee da quelle religiose. Infatti, dinnanzi al grandioso orologio, opera di un Genio della meccanica, tranquillamente con il tricorno a nascondere in parte le parrucche, se ne stavano un giovine e un suo collaboratore, quest'ultimo anziano. Costoro stavano osservando attentamente il marchingegno, lo stavano quasi studiando pur senza osare toccarlo: ne contemplavano il moto degli automi, i suoni, il calendario; il primo con le lagrime agli occhi dalla commozione e preso da chissà quali sogni, il secondo con l'ammirazione di chi, stupido e insipiente per volere e demeriti di altri, osserva un Mistero di cui non sa spiegarsi nulla, il perché, il come... la funzione... di chi sa che quello che ha davanti è soltanto una cosa bella, niente di più. 
"Orsù, François! Prima o poi costruirete anche voi qualcosa del genere.... Non abbattetevi" disse il vecchietto a bassa voce, quasi conscio di essere in un luogo sacro "Per me basta osservarlo ancora una volta, e il giuoco è fatto!".
"Amico, voi non capite!" esclamò l'altro a voce più alta "Quello che voglio fare io ha per nome Impossibile. Vi ho forse già raccontata la storia di Pigmalione?".
"Quegli che scolpì una fanciulla nel marmo e volle farsi in quattro per darle Vita?....".
"Sì, proprio quella!".
"Ebbene, signore?".
"Ebbene! sono a buon punto, ho a disposizione molti istrumenti, tantissimi congegni meccanici che in pochi sono quelli che se li possono immaginare; e ho tutto quello che m'è d'uopo: lunette, la camera buia che voi mi avete comprato dal quel pittore da quattro soldi, ferro, chiodi.... Nulla mi manca! Eppure quando mi metto a plasmare l'automa con la speranza che questi possa muoversi, parlare, dialogare, imparare e conoscere, sùbito mi assale un'angoscia profonda ché, alla fine, mi accorgo che sto soltanto costruendo una statua di ferro e legno, niente di più. Allora i miei Sogni, la mia sete di scoprire e di inventare, di far vedere alla folla incredula un essere umano né più né meno diverso da noi, ma fabbricato dalla Scienza, crollano senza pietà. Più di una volta - e voi lo sapete - ho distrutto tutto e ho ricominciato da capo".
"Ve l'ho già detto, padrone: per me vi state dimenticando qualche principio, qualche segreta legge di Natura, o come diavolo voi la chiamate, non so, il magnetismo oppure quell'elettricità che tanto a voi scienziati sta piacendo non appena iscoppia un lampo. A volte siete matti davvero, senza offesa".
"No, mio caro... no! Volete sapere la verità?.... Ebbene, ve la dico. La verità è che nessuno e niente può vivere senza cuore e cervello, anche se sono molti i miei colleghi che dicono il contrario e che sperano che la Scienza possa fare realmente cose incredibili. Ho consultato perfino degli alchimisti: ottimi conoscitori della Materia, ma mi consigliano di desistere. Uff... del resto, quelli sono ancora legati alla vecchia ricerca scientifica, quella che vuolsi fondata su Iddio o sul Mistero.... Mio vecchio Georges! V'è tuttora poca Scienza in giro; e le cattedrali sono ancora più importanti delle Accademie!".
Seguirono attimi di silenzio, dove i due personaggi si misero nuovamente a contemplare con attenzione il bellissimo e maestoso orologio; né si stavano facendo qualche questione di coscienza sul fatto che, chi più chi meno, si stavano presentando come presunti creatori di Vita all'interno di una cattedrale. Poi d'un tratto, a un cenno del giovine, il quale disse di avere un appuntamento, si mossero e uscirono.
Ora, permettetemi, cari lettori, di dirvi che il giovinotto era tale François de C., frequentatore di molti dei salotti illuministi di Lione. Di quasi venticinque anni, ottimo conoscitore di lingue - vecchie e vive - e di Paesi, aveva perfino frequentato l'Accademia in Prussia e, a Parigi, aveva stretto amicizia con Jacques de La Mettrie, il singolare autore dell'Uomo Macchina. Ma se si volesse dire che il nostro personaggio, per indole, fosse nessun altro che un superbo inventore, capace di bestemmiare consapevolmente o no in una cattedrale, si direbbe una menzogna; giacché fino ai diciassetti anni, costui fu uno dei fanciulli più devoti e rispettosi di tutta la Borgogna... un vero paladino della Fede. Di buona famiglia, in parte nobile di toga e in parte borghese, non appena ebbe avuta un'educazione rigorosa, prima dal padre che faceva il maestro, poi dalla madre, la quale era un'ossessionata di antichità e di vicende storiche, andò a imparare molte altre cose dal prete del suo paesino, il quale gli insegnò perfettamente il Latino e il Greco antico. Ora, quest'ultimo, benché fosse realmente vocato a Iddio, non era affatto uno di quei parroci che osteggiava a ogni costo le novità del Secolo; ed è per questo motivo che si informava di ogni cosa, dalla Filosofia alla Scienza meccanica. Nonostante non ne condividesse molti princìpi, egli leggeva in segreto le opere di Galilei e di Newton; e a volte era portato a fare dei ragionamenti abbastanza interessanti che, spesso, li riportava al suo giovine allievo, il quale iniziò a interessarsi seriamente della Scienza. In realtà, per prima cosa, lesse le Meditazioni di Descartes, poi si interessò anche di altri, benché non avesse molta simpatia per i materialisti. 
Purtuttavia, un giorno, ci fu il tracollo. Mentre il parroco gli stava riguardando una traduzione da Omero, un drappello di soldati bussò alla sua porta; e prima ancora che lui fosse sceso ad aprire, quegli altri entrarono con la forza. François, essendo ancora giovine e temendo qualche cosa di brutto, si nascose sotto il letto a baldacchino, pronto a intervenire soltanto in pericolo di Morte per qualcheduno. Di fatto la storia era questa: un uomo, probabilmente una spia intrufolatasi nel salotto cui il sacerdote spesso partecipava, aveva segnalato alla Curia che il religioso leggeva opere moralmente pericolose e che intratteneva relazioni altrettanto oscene. I gendarmi, infatti, gli perquisirono la dimora e, senza nemmeno dover controllare sotto il letto, - per la fortuna del nostro giovinotto! - trovarono molti di quei tomi non graditi alla Chiesa e al Re. Il parroco fu immediatamente portato via e, dopo alcuni mesi di interrogatorio, anche dinnanzi al Cardinale, fu recluso in più prigioni e, infine, nella Bastiglia da dove, dopo quasi cinquant'anni di prigionia, uscì oramai vecchio e decrepito appena dopo l'assalto del 14 luglio, giusto in tempo per tenere sermoni contro i rivoluzionari e per finire sulla ghigliottina.
In ogni caso, il nuovo prete del paese era sicuramente più severo dell'altro, e indubbiamente era contrario alla scienza e alle doti di quell'alievo che dovette ereditare. Però voleva un gran bene a costui, tanto da volerlo a tutti i costi indirizzare alla vita ecclesiastica. Fu il secondo e più profondo dei tracolli. 
Infatti, François si era innamorato di una fanciulla, cosa che non piaceva a quanti lo desideravano presbitero. Il parroco, purtroppo, per risolvere questo che per lui era un inghippo, si affidò a persone disonorevoli e disonorate che, fingendo di scrivere a nome del giovine, attraverso menzogne e altri sotterfugi da bruti, indussero perfino la giovinetta al suicidio. I colpevoli furono individuati, presi e arrestati; ma il prete, che durante le fasi in cui entrò la Giustizia non disse nulla e se ne stette in disparte, in qualche modo poi si assunse la responsabilità dinnanzi a François. Fu allora che quest'ultimo si allontanò furiosamente dalla Fede, dalla Religione e dagli ambienti ecclesiastici; e iniziò a frequentare ora degli scienziati, ora degli alchimisti. Nel giro di pochi anni, diventò egli stesso un materialista e, a detta di alcuni, un libertino. Purtuttavia, anche quando avesse frequentato delle orge come si diceva, teneva sempre impressa nel suo cuore l'immagine del suo unico Amore, della sua fanciulla amata... della povera disgraziata che, in crisi di nervi, non seppe desistere dall'affogarsi nella Saona. Contro ogni dettame della Dottrina, in effetti, più volte si concesse di sognare a occhi aperti di riesumarne il corpo e di ridarle vita in qualche modo; e più volte chiese consiglio ai suoi amici alchimisti i quali, ancora un po' troppo cristiani, gli rispondevano "Lasciate in pace i morti!", mentre gli scienziati gli dicevano chiaramente che chi è morto resta morto, e che questa è una legge insormontabile. 
Ma, dopo il periodo di studio in Prussia, e dopo l'incontro a Parigi con La Mettrie, a François venne in mente la sua idea più malsana. Non poteva riavere la sua fanciulla? Chi era morto doveva restare tale? Bene! Allora perché non avrebbe potuto darsi anima e corpo per creare, lui! nuovo Pigmalione... lui! semplice uomo deluso da Iddio, un qualcosa che gli avrebbe ricordato le ore felici del suo Amore?.... La Mettrie, che conobbe queste intenzioni, in parte era perplesso, in parte si mostrava favorevole e più di una volta incitò l'amico a mettersi al lavoro, non perché gli fossero a cuore i sogni del poveraccio, ma perché già immaginava quale gloria avrebbe potuto godere egli stesso nell'improbabile caso che l'impresa cui l'altro si accingeva fosse riuscita.
"Orsù, François!" disse più di una volta "Volete cingervi alla vostra eroica gesta?.... Vi auguro di poter ottenere ciò che volete e di far a pezzi l'idea d'Iddio. Anche l'Uomo può creare... può creare macchine, perché egli stesso è una macchina. Una volta che capisce come funziona, e noi siamo sul punto di capirlo, il dado è tratto!". Ma, dicendo così, non si accorgeva che l'amico, in realtà, aveva nel cuore qualcos'altro... qualcosa di non illuminista... un puro e semplice desiderio di Amore... uno slancio quasi segreto, impercettibile e incosciente alla Spiritualità e al mondo divino che i materialisti e i libertini volevano distruggere.
Ora che sappiamo un po' della Vita del nostro personaggio, possiamo proseguire con il nostro racconto, e vederlo, di pomeriggio, in una specie di cella di convento assai melanconica e drappeggiata di nero. Qui, mentre un drappello di sgherri e due monaci agostiniani lo aspettavano fuori con ansia e impazienza, egli si era messo a confortare una miseranda orfanella, condannata a morte con l'accusa di aver commesso un furto nella bottega di un orologiaio, di cui il padrone sarebbe poi morto di crepacuore. L'esecuzione era prevista per l'alba e a François importava presentarsi ai suoi assassini in qualità di un parente alla lontana, di un cugino di terzo grado che, saputa la vicenda, accorre dalla vittima per averne indietro il cadavere. Ma a lui, cioè al nostro personaggio, non importava affatto la pietà e la compassione di quel gesto, né gli interessava che il corpo della misera avesse potuto riposare in terra consacrata; bensì era interessato ad averne la testa, in parte così simile a quella della sua amata perduta, affinché egli l'avesse potuta consegnare a un suo confidente per farne un calco, e da quest'ultimo, per l'appunto, egli sperava trarne il volto del suo automa femminino. 
L'incontro con la condannata non fu per niente felice, nemmanco per lui, che era diggià abituato alla miseria umana e agli eccessi di quella Giustizia che, sovente, colpiva a dismisura le povere Anime. La fanciulla, infatti, aveva gli occhi lucidi per via di un lungo pianto, era smorta, prostrata a terra e impallidita. Alle sue ginocchia aveva un breviario in pessimo stato che nemmeno aveva aperto tant'era analfabeta da potervi leggere le preghiere e le suppliche. I suoi vestiti era sozzi e assai in disordine, e qua e là sul volto e sulle braccia v'erano segni di polvere e di terra, nonché di alcune percosse. Inoltre era smagrita e dalle sue espressioni trapelava un non so che di pura follia e di terrore. Del resto, François non ottenne sùbito delle risposte alle sue parole e stette a lungo con l'impressione di starsene a parlare con ciò che era già un sepolcro muto e terribilmente silenzioso; né in cuor suo la fanciulla credette o dubitò alle sue parole, le quali non le promettevano chissà che cosa: la salvezza dalla scure e dalla prigionia, ma semplicemente di poter marcire in una bara anziché finire in pasto ai vermi e alle larve nell'ignuda terra di una fossa comune. Ma a un tratto ella gli domandò "Credete voi che io mi possa salvare?".
"No, madamigella.... La sentenza è scritta ed è fissata. Nulla può far cambiare intenzioni al giudice e al boia".
"Ma non parlavo di questo.... Voi pensate che lassù potrò salvarmi?".
"Lassù dove?" sbottò inquieto François prevedendo di mezzo qualche fola da Religione.
"In Cielo!.... Pensate che il buon Iddio mi salverà?".
"No... non lo penso... perché Quegli di cui voi accennate semplicemente è un vostro fantasima".
"Dubitate voi quindi che Iddio viva?".
"Certamente...." cercò di risponderle il giovinotto.
"Allora voi siete dassenno infelice... più infelice di me!".
"Invece vi sbagliate: sono felice... e molto. Vedete, voi vivete male e nel terrore i vostri ultimi attimi di Vita non solo per paura del dolore e della Morte, ma anche perché temete il severo e rigoroso giudizio di un Giudice ancor più spietato di quelli che voi avete assaporato in questa esistenza... un Giudice che per poco vi può condannare alla dannazione eterna, all'essere infelice per sempre, anche solo per colpa di una facezia. Io, invece, riconosco che quest'Iddio di cui parlate non v'è, né in cielo, né in terra, né da nessuna altra parte se non nella fantasia e nei deliri degli uomini che, stolidi come sono, hanno d'uopo di inventarsi un metro di giudizio per condannarsi da soli all'infelicità. Anzi, credo che noi mortali non siamo altro che macchine... macchine che parlano, che pensano, che fanno... ma sempre macchine, non diverse da un argano, o da un orologio, oppure da qualsiasi altra creazione dell'intelletto degli scienziati. Vedete, questo mi rende felice: sapere che sono una macchina, che posso avere i difetti di una pompa, che ho bisogno di altre macchine per funzionare e che alla fine, mi spegnerò: qualcosa nei miei ingranaggi non potrà più funzionare o verrà guastato sicché tutto finirà. Io non vi sarò più, e non potrò pensare, vivere, sognare, riflettere, terrorizzarmi.... Sarò un nulla; e di me non rimarrà altro che il ricordo che i miei prossimi hanno potuto avere e conservare di me. Madamigella, la Vita non è altro che uno starnuto molesto che vi fa bruciare il naso e gli occhi per qualche istante. Una volta che è finito, tutto riposa nella pace del niente".
"François, voi vi sbagliate!" esclamò la fanciulla mirandolo con acutezza e profondità dritto negli occhi, e con una voce da far raggelare chiunque "L'Uomo non è una macchina! L'Uomo non è una macchina!"; e detto questo restò in silenzio, si mise a osservare un punto nel vuoto, né rispose né parlò più alle parole del suo interlocutore il quale, alla fine, se ne andò via profondamente turbato e irrequieto, con il cuore che gli voleva suggerire di desistere a ogni suo progetto. Ma, alla fine, razionale com'egli era, si disse tra sé "Bah! Cose da femmine!".
L'esecuzione ebbe luogo all'alba. L'orfanella fu trascinata via da due gendarmi che la attenagliarono per bene e altrettanto la strattonarono; poi fu portata in uno spiazzo, sotto una scala, dove per terra stavano un ceppo enorme e della paglia. Tra uno stuolo di monaci salmodianti alla Misericordia d'Iddio, il boia prese brutalmente per il collo la poveretta, la fece inginocchiare al tronco e le mise sopra la testa. Senza nemmeno accorgersi di uccidere un altro essere umano, e con assoluta freddezza, gliela tagliò; donde il sangue spruzzò e colò dal ceppo fino alla paglia. La testa fu allora consegnata a un servo che, postala in un sacco, se ne andò; mentre il corpo fu messo in una bara di zinco in attesa che colui che lo aveva chiesto, si fosse fatto vivo per una misera ma pur degna sepoltura.
Nel primo pomeriggio dello stesso giorno, che di per sé fu triste e melanconico non solo per gli eventi descritti e narrati ma anche per la piova e l'oscurità che avvolgeva tutto nel maltempo e nell'impeto di un Temporale che andava e veniva, François si presentò nella bottega di un suo conoscitore, il quale di mestiere faceva appunto il fabbro e l'artigiano in generale, e che, di nascosto, era una specie di alchimista, o di stregone, come lo chiamavano i più, i ben pensanti che delle sue arti avevano qualche sentore o piccola conoscenza; sì, perché solitamente anche allora era così, cioè che i primi a criticare, a indicare e a condannare qualcheduno erano quelli che più lo frequentavano, forse ricevendone dei piccoli vantaggi. Ma al di là di questi moralismi che il lettore moderno avrà sicuramente in noia o comunque non vi riconoscerà facilmente, v'è da dire che il nostro giovine scienziato aveva interpellato quell'altro affinché costui gli avesse procurato il calco dalla testa mozzata dell'orfanella, cosa che di fatto, non senza disgusto e orrore, aveva poi fatto. In effetti, al momento dell'entrata di François in bottega, il fabbro aveva il grembiule macchiato di sangue e mostrava un volto assai turbato se non pure infastidito e terrorizzato, in quanto l'opera su cui lavorò per molte ore gli aveva messo a dura prova e lo stomaco e la pietà di essere umano. Ma egli restava comunque un uomo duro... un bruto, uno di quelli che alla fine si arrendono all'evidenza che il fine giustifica i mezzi; e per lui lo scopo dell'amico scienziato era molto nobile e affascinante, tanto da poter giustificare e legittimare un'azione altrimenti riprovevole e ripugnante. 
Del resto, come ebbe sùbito a dire al suo interlocutore, non gli mancò una specie di spavento perché - così narrò tra il perplesso e il terrorizzato, come un uomo che avesse avuto qualche brutto incubo - mentre stava plasmando il calco e stava maneggiando la misera testa, gli parve che gli occhi di questa si fossero aperti per un breve istante, mostrandogli delle pupille troppo vive per essere quelle di un cadavere, e ancora piene di lagrime... insomma, un volto... un'espressione di candore, di paura e di innocenza così troppo esagerati per essere di una ladra condannata e giustiziata senza pietà e misericordia. Inoltre, quasi rinfacciandolo, affermò poi di essere rimasto inquietato dalla bocca, lievemente aperta per un dolore alla fine inavvertito e fulmineo, come se nel momento in cui la scure scendeva a compiere la giustizia prestabilita, la povera fanciulla avesse tentato di gridare con un urlo sovrumano smorzato fin da principio.
"Voi siete ancora molto superstizioso, ve l'ho sempre detto e ve lo ripeto nuovamente: siete tuttora pieno di superstizione!" gli esclamò François quasi rispondendo a delle domande di giustificazione "Vi assicuro che, così come ho sentito in merito alle esecuzioni capitali fatte in quel modo, la Morte giunge istantanea e subitanea, senza che il disgraziato potesse riuscire a coglierne il minimo dolore; e se la bocca di questa miserabile è un po' aperta, è tutta una questione di nervi... nervi questi che riescono ad agire anche quando il corpo, cioè la macchina, è morto... spento. V'è anzi dell'affascinante in tutto questo: da morto, e da quel nulla che sarei da morto, finché il corpo resistesse al marciume e alla putrefazione, potrei gemere, o sussurrare qualcosa, senza che io ovviamente fossi lì... giacché non sarei più. Vedete, con la Scienza si scopre tutto; e quello che oggi è ignoto, dimani sarà chiaro e palese a tutti", poi, detto questo, guardò e, prendendolo, fissò il calco che il fabbro gli aveva procurato "Comunque è un ottimo lavoro, vi siete molto impegnato in quest'opera assai macabra e disgustosa; e mi avete facilitato di gran lunga le cose".
"Ma, François, siete ancora sicuro di voler proseguire nel vostro intento?".
"Certamente... che lo sono; se non lo fossi non sarei qui e non vi avrei assoldato per questa brutta impresa. Vedrete che anche voi ne avrete i gran meriti, quando si scoprirà la creatura del mio ingegno. Solo che a volte anch'io mi scoraggio, mi viene febbrilmente in mente, con un delirio da piccola e sprovveduta femminuccia, che nessun uomo può creare altro che oggetti inanimati od opere d'Arte; e che per questo, forse, mi sto sostituendo a quel Vegliardo di cui, purtroppo, ho sentito parlare così spesso e così tanto dai preti da averne una nausea immensa. Voi, amico mio, del resto conoscete, a differenza d'altri, che altro mi spinge in questa impresa di creazione; cioè, sapete che io mi sto sforzando a essere il nuovo e vero Pigmalione, colui che avrà creato la sua Musa... la sua donna perfetta e ideale, assetata di conoscenza e bella. Spero soltanto di riuscire in questa impresa.... Se fosse altrimenti, nulla avrebbe più valore per me, nemmeno la Scienza; e rinnegato da quest'ultima e deluso dall'inesistente Iddio, e dai suoi Alti Cieli, che mi rimarrebbe se non di rinunziare totalmente a questa Vita?".
"Ma voi, François, credete dassenno che per animare un automa, sia esso uomo o donna, siano necessari soltanto un po' di magnetismo, qualche oscuro principio elettrico e uno di quei calcolatori che un secolo fa Pascal ha inventato?".
"Non so dirvelo.... Purtroppo non so davvero dirvelo! Ma avete dimenticato di citarmi anche quei liquidi, che saranno il suo sangue e che voi, gentilmente, mi avete diggià donato" sentenziò alla fine il nostro personaggio che, ancora per molto, anche per pagare il suo conoscitore, stette nella bottega a parlare e a discutere. 
Senza entrare nel merito dei procedimenti, degli istrumenti usati e dei marchingegni e della tecnica, tutte cose utile all'opera, giacché, cari lettori, qui di Scienza si sa poco, né si vuole offrire a qualcheduno lo spunto per ripetere gli errori commessi dal giovinotto, dovete sapere che dopo mesi e mesi di arduo lavoro e di immensa fatica, François poté portare a termine la sua creazione, la quale in un primo momento se ne stette per giorni e per settimane immobile su un tavolo in una stanza per gli esperimenti e le invenzioni; e poi, d'improvviso, per effetto dei liquidi che circolavano ormai nei suoi ingranaggi, nonché per merito del magnetismo e di qualche ignoto principio elettrico, prese effettivamente vita, destando così un'immensa felicità nel cuore melanconico e scontento dello scienziato. Purtroppo, come v'era da immaginarselo, all'inizio, benché non piangesse né urlasse, quell'automa si comportava di fatto come una bambina appena nata, tanto non sapeva nulla, cosa che nei primi istanti preoccupò molto il suo creatore, conscio allora di essere riuscito a creare la Vita, ma in modo imperfetto. Poscia, invece, forse in merito della camera oscura collegata agli occhi della creatura e del calcolatore di Pascal che era in lei, oppure, grazie a qualche miracolo stabilito da Iddio per far sì che il giovinotto si fosse avveduto, l'automa iniziò a imparare velocemente il linguaggio, la matematica, la cortesia... imparò a camminare, a sedersi, a rialzarsi, all'inizio non senza goffaggine, ma alla fine in modo così tanto e tutto perfetto da sembrare dassenno una fanciulla in carne e ossa, una specie di femmina da salotto. Nel frattempo, conscio di varie promesse e di giuramenti, nonché a malincuore, François scriveva a Parigi, all'amico La Mettrie, per rendere informato quest'ultimo dell'invenzione e dei progressi.... A malincuore, sì, perché il giovinotto era riuscito a dar Vita alla sua Musa, a riportare indietro la sua giovine fiamma; e, per quanto folle e singolare possa apparire la cosa, era anche segretamente innamorato della sua invenzione. 
Purtuttavia, quest'ultima, a discapito dei più profondi e reconditi Sogni, cresceva molto in conoscenze, in nozioni e in ragionamenti, ma ben poco in sensazioni e in Sentimenti, tanto che se, da una parte imparava velocemente, al solo sguardo, interi spartiti di concerti e di sinfonie, l'arte di dipingere, e faceva i calcoli più ardui e difficili in meno di un secondo, dall'altra parte continuava a ignorare tutto ciò che di sentimentale e di patetico v'è nel cuore degli esseri umani. Su questo aspetto, purtroppo, ella era fredda e gelida come il ferro e il legno che la componevano; e, sapendo fin da sùbito, di essere un automa e di essere stata creata da un uomo, nei suoi ragionamenti più segreti si sentiva comunque superiore all'essere umano. Aveva del resto una specie di forte coscienza di sé, e andava matta quando poteva far foggia della sua conoscenza dinnanzi al suo creatore o a un pubblico di curiosi. Di tutto questo, però, mentre in parte ne andava entusiasta, dall'altra François aveva noia, ribrezzo e quasi gelosia, ché si sarebbe aspettato un automa un po' più galante e umano. 
Una sera, o meglio, nell'occasione di una delle prime volte in cui egli volle o cercò di insegnare qualcosa alla sua Musa, il giovine scienziato la accompagnò nella stanza da letto a lei destinata e, additandole il baldacchino, le disse di provare a dormire, e dormendo, di provare a sognare e, poi, all'alba, di ricordarsi i Sogni. Le intimò dolcemente di mettersi giù, di distendersi... di chiudere gli occhi e di dormire. Ella gli rispose che gli avrebbe ubbidito e che avrebbe provato a far esperienza di questo sonno. Ma quando François si allontanò e la lasciò da sola, costei sì si mise distesa nel letto e chiuse gli occhi ma, essendo una macchina, non dormì affatto; anzi, restò sveglia e ben desta per tutta la notte. Il mattino dopo, quando il suo creatore la andò a svegliare e le chiese se avesse avuto dei sogni, ella rispose tranquillamente "Sentivo delle carrozze che passavano lungo la via: molte dal rumore mi sembravano sontuose, altre più umili e leggere. Inoltre, da come mi avete già detto riguardo il giorno, anche di Notte ogni mezz'ora suonano dei campanili, tant'è che quando ho sentito suonare tre rintocchi, e presumo quindi che fossero le tre del mattino, ho sentito una litigata lungo la via, probabilmente due ubriachi che si contendevano il conto da pagare. Per me è stato istrano; quei due un po' ridevano, un po' gridavano e si minacciavano. Ho riconosciuto insulti e bestemmie. Ah, signore... dimenticavo! Verso i quattro rintocchi qualcheduno era qui, vicino alla nostra dimora, oppure dentro; ché ho sentite più volte delle scale, e dei colpi alla porta. Perdonatemi, avrei voluto andare io stessa a vedere e ad aprire, ma....".
"Madamigella, cara mia... questi non sono Sogni! Può bastare così per oggi.... Voi non avete dormito!".
"Ma non ho avuta la voglia" continuò a dire l'automa incurante delle osservazioni del suo creatore "Non è colpa mia se voi mi avete creato così pigra!"; ma lo disse con voce normale, quasi fredda, senza il minimo tono di battuta, di celia o di ischerzo, cosa questa che, insieme alla descrizione della Notte, abbatterono molto il nostro giovinotto. 
Inoltre, per aumentare lo smarrimento del disgraziato, avvenne che poco dopo qualcheduno, in effetti, bussò di nuovo alla porta, tra l'altro abbastanza violentemente e con premura. François andò ad aprire e si trovò davanti due gendarmi, uno dei quali iniziò a dire: "Perdonateci, Monsieur, ma è da questa mattina che vi stiamo cercando" e notando la cera preoccupata del padrone di casa aggiunse "No, no... non è niente di grave per voi... anche se sappiamo benissimo che voi state qui a fare cose non sempre gradite ai più.... Volevamo diggià disturbarvi all'alba, ma probabilmente il vostro sonno andava soddisfatto ancora un po'. Ebbene, quello che comunque vorremmo sapere è se voi, questa mattina, aveste per caso udito del chiasso... un diverbio prepotente e violento e se, uditolo, foste andato a una finestra o a un balcone a guardare".
"No!" tagliò corto lo scienziato "Dormivo così profondamente che non ho udito nulla. Perché mi chiedete questo?".
"Semplice, Monsieur" rispose il gendarme che non aveva ancora parlato "Uno dei contendenti è stato ucciso con una pugnalata in mezzo al cuore. Ma il problema sta nel fatto che il suo presunto assassino, ovvero l'uomo con cui stava altercando, sostiene che si sia ammazzato da solo, tant'era ubriaco. Così ubriaco da ammazzarsi e da far sparire il coltellaccio prima di spirare. Cose da pazzi, no?.... Ora....".
"Non è stato un suicidio, miei signori!" esclamò d'un tratto l'automa, apparendo in mezzo a quegli individui e accennando a un inchino galante.
"Ah, ma voi non siete solo, Monsieur!" esclamò a questo punto un gendarme, tra il serio e la celia.
"Perdonatemi..." disse l'automa, cui lo scienziato sussurrò lievemente due parole facendo un sorriso a tutti "Madamigella Catherine... per servirvi!".
"Ebbene, madamigella, come fate a dire che non fu suicidio?" domandarono quasi in coro entrambi i gendarmi.
"Giacché questa mattina mi sono bruscamente svegliata e ho ascoltato il diverbio. Uno dei due litiganti minacciò di Morte l'altro; dopo nemmeno due minuti, ho sentito un urlo terribile, e sùbito un uomo che correva a gambe levate".
"E voi, madamigella, non avete verificato?" obiettò un gendarme.
"No... avevo tanta paura... è da poco che sono... che sono qui.... Sapete, molti uomini sono davvero malvagi e....".
"Va bene così!" esclamò un militare "Allora siamo di fronte al caso di un pazzo: l'assassino, infatti, questa mattina si è presentato da noi e ci ha detto che il suo amico, con il quale aveva litigato, si era suicidato perché sbronzo fradicio, e ci ha condotto dal cadavere. Ovviamente come possiamo credergli! Non gli credevamo all'inizio, e adesso vi abbiamo la conferma. Vi ringrazio, madamigella... madamigella?".
"Catherine".
"Catherine!.... Anche mia sorella si chiama come voi!" sentenziò amichevolmente uno dei due gendarmi, i quali stavano per andarsene quando Françoise domandò: "E se il pazzo avesse ragione? Se il suo amico si fosse ucciso davvero?.... Del resto Catherine non ha osservato nulla e anche le sue sono supposizioni".
"E voi, Monsieur, siete dassenno così ingenuo da pensare che un matto da osteria si tiri una pugnalata da solo per andare all'altro mondo?.... E specialmente, se io per esempio mi dovessi ammazzare con il mio pugnale, non rimarrebbe forse la mia mano incollata all'elsa?.... Invece, nel caso nostro, l'acciaro è sparito... scomparso, e il cadavere è in una posizione tale per cui può essere semplicemente stato ucciso. Capite?".
"Sì... credo di sì!" ammise François alla fine. Però il nostro scienziato fu dassenno molto turbato e disse alla sua creatura di fare attenzione a non accusare qualcheduno attenendosi semplicemente a quello che si è sentito, o a quello che ci si immagina. Il fatto è che per davvero l'ubriaco si era ucciso con le sue mani, tant'erano i suoi debiti da non poterli più pagare senza incappare in cose peggiori della Morte violenta istessa; che il suo amico, con cui aveva litigato prima di prendere l'insana decisione, era scappato a gambe levate per chiedere aiuto a qualcheduno; e che uno di quelli che volevano a tutti i costi i danari della vittima, vistolo con un bel pugnale confitto nel cuore, glielo estrasse e glielo portò via nel silenzio oscuro che precede l'alba. Alla fine, il presunto assassino fu giudicato colpevole e ingiustamente decapitato dopo nemmeno una settimana, notizia che, ancora roso dai dubbi, fece andare in collera il nostro scienziato. 
Per il resto, come si è detto, la sua creatura era dassenno un prodigio: vedeva per la prima volta e di sfuggita un quadro vedutista o un ritratto che sùbito sapeva riprodurlo per conto proprio; sentiva senza molta attenzione e partecipazione un difficile e arduo concerto di Haydn, che immediatamente sapeva suonarlo perfettamente al clavicembalo; e così per tante altre cose, tra cui l'Enciclopedia di Diderot, che in meno di una settimana, giunse a conoscerla a memoria. Partecipò anche a qualche salotto illuminista dove, oltre a destare maraviglia per la sua origine fin da sùbito dichiarata, faceva scalpore per la sua capacità di ragionamento e di calcolo. Ma erano sempre incontri tenuti in segreto, dove i membri, tutti scienziati o framassoni, si guardavano bene dal fare uscire argomenti, ospiti, curiosità; e per i nostri due personaggi, cioè per François e per il suo automa, fu certo un bene, altrimenti, se non fosse stato così, sarebbero finiti sotto accusa in un tribunale, laico o religioso ai tempi non faceva molta differenza. Basti pensare che una volta, un framassone, per farsi quattro risate sotto i baffi, fermò un distinto sacerdote e gli domandò che cosa avesse potuto pensare di un automa in tutto e per tutto simile a un essere umano, ovviamente qualora ve ne fosse stato uno. Il prete lo guardò perplesso, conoscendolo tra l'altro per quello che non era, cioè per un buon cristiano, e dopo un attimo di esitazione gli disse "Certamente penserei che si trattasse né poco né più del Diavolo in persona, e scatenerei contro di esso l'intera Inquisizione". Del resto, in quell'epoca, in Francia, molte cose erano ancora come in Spagna ai tempi di Re Filippo II, e per finire seriamente nei guai, bastava aver letto, o peggio, aver scritto un libro finito all'Indice dei Libri Proibiti per opera del Santo Uffizio. In quasi tutti i casi, il libro in questione veniva sequestrato e bruciato sulla pubblica piazza dinnanzi all'incauto lettore o scrittore, poi severamente multato e incarcerato; in qualche altro caso, al rogo ci finiva anche il poveretto.
Nonostante pensasse sovente che la sua invenzione fosse imperfetta e molto disumana, una volta, di sera, François osò portar fuori l'automa in giro per Lione, insegnandole il nome delle vie, dei palazzi e dei viali; ma mentre la teneva a braccetto e notava che in lei era sì tutto conoscenza ma nulla maraviglia, stupore e gioia, più di una volta si accorse di avere gli occhi e le guance umide di pianto, giacché nel cuore nutriva sempre più molta delusione. Per questo, vergognandosi profondamente di se stesso, tentò di sbarazzarsi della sua creatura, facendola perdere per le strade della città. Infatti, a un certo punto della loro passeggiata, si congedò da lei dicendole che doveva urgentemente andare a trovare un vecchio amico, uno che non voleva altre persone se non lui; e che comunque ella avrebbe ritrovata la via di casa. Fu una sera veramente orrenda e patetica. Infatti, l'automa andò tranquillamente in giro senza paura e si mise attentamente a osservare tutto. Ma non un'emozione filtrava in questa bizzarra invenzione di un folle; né un misero Sentimento veniva percepito; ma solamente immagini, parole, urla... grida. Con gli occhi e con il cuore - inesistente - di quanti assistono alle più crudeli tragende senza battere ciglio e senza farsi coinvolgere, ella osservò in così poco tempo tutta la miseria e la bassezza del genere umano, con le sue rabbie, le sue passioni, le sue stoltezze.... Eppure non comprese nulla di quella linfa spirituale e metafisica che compone l'Umanità: emozioni, sensazioni, Sentimenti, speranza, noia e via dicendo. Per l'appunto vide soltanto immagini. 
Il peggio però fu quando, tornata a casa, ella trovò il suo creatore che, con le mani appoggiate a un tavolo e con il busto piegato sullo shienale di una sedia, stava piangendo.
"Monsieur, che cosa vi succede? Non state forse bene?" domandò per convenienza, ma non per partecipazione a qualcosa e per compassione.
"Nulla!".
"A voi, Monsieur, turba qualcosa.... Mi sono forse comportata ancora male?".
"No!".
"Allora che cosa avete?".
"Lo volete dunque sapere?.... Intanto a voi non importa e non potete comprendere, Catherine.... C'è che vi amo, ma non posso amarvi; né posso essere amato da voi".
"Cosa vuol dire che voi mi amate? Cosa vuol dire "amo"?" gli chiese meccanicamente Catherine.
"Che ho immensamente un grande rispetto per voi, che mi piacete e che vorrei vivere tutta la mia vita con voi".
"Ma non è quello che già stiamo facendo?".
"No, Catherine! Voi state apprendendo cose da me... state conoscendo.... Ma al di là della conoscenza....".
"Ditemi" l'interruppe l'automa: "è forse per Amore che questa sera, tornando da voi, ho visto un giovinotto che inginocchiato implorava qualcosa, forse perdono, a una dama? è per Amore che ho visto un tale che suonava sì dolcemente il violino a un balcone?... è per Amore che ho visto un uomo picchiare una donna?".
"Lasciate perdere, Catherine... voi non capite!" tagliò François.
"Ditemi ancora: è per Amore che ho visto un fanciulletto versare delle lagrime su una signora morta, probabilmente sua madre... seduta a uno stipite di una porta e vestita di stracci come lui?".
"Sì, Catherine... sì! Tranne che le botte, giacché sono il frutto dell'odio, del disprezzo e dell'infelicità, tutto quello che avete visto è Amore!".
"Allora l'Amore fa piangere l'Uomo, o lo fa abbassare... inginocchiare.... Sembra una follia. E anche voi avete questa follia?".
A quest'ultima domanda François avrebbe voluto scagliarsi volentieri contro la sua creatura e farla a pezzi una volta per tutte; ma i tocchi che qualcheduno fece alla porta, lo portarono a desistere. Segretamente e di nascosto, infatti, da Parigi era arrivato non altri che l'amico La Mettrie, il quale per tutta la Notte ebbe l'occasione di osservare l'automa e di complimentarsi per le sue ottime qualità. Jacques, però, aveva in mente molte altre cose e, non accorgendosi dell'infelicità del suo giovinotto e della freddezza della creatura, suggerì al primo di fare entrare e presentare la seconda alla società. Egli era quella tempra d'uomo che sa ammaliare e convincere chiunque abbia davanti; ma le sue intenzioni, di fatto, non erano per niente buone.
Basti pensare che dopo due giorni, nonostante le rimostranze di François, il primo ingresso ufficiale di Catherine in società avvenne in una specie di bisca privata dove, al giuoco delle carte, l'automa seppe vincere una somma esorbitante continuando a vincere per ogni mano. In questa occasione, tra l'altro, il marchese de Formans si sentì così offeso e snaturato che accusò violentemente di truffa la malcapitata creatura la quale, per convincere gli altri della sua innocenza, dovette dimostrare di essere semplicemente abile con la logica e con i calcoli.
"Avete appena giuocato con un automa, caro il mio de Formans!" esclamò alla fine della serata La Mettrie battendo alle spalle del marchese "E pensate quanto danaro potreste mettere su' se vi doveste alleare! Chi vi battereste? Chi battereste un automa?".
"Mi state prendendo per stolido, Jacques? Perché io questa sera ammazzo qualcheduno se non si finisce con le celie e le beffe alla mia persona!" seguitò brusco il nobiluomo.
"No, Monsieur! Non vi sto prendendo in giro.... E il suo creatore, il Genio che ha plasmato questa macchina-togli-soldi è lì, seduto vicino a lei.... Non sono forse una bella copia?.... Egli, ed è buffo, la ama; ma ella manco sa cos'è l'Amore... è solo una macchina, del resto come me e come voi... ma una macchina dico che vi farà diventare più ricco del Re in persona" poi aggiunse sottovoce "Se accettaste, potremmo dividerci il guadagno: io, voi e lui, cioè lo scienziato pazzo.... Non preoccupatevi di lui, ci parlo io!".
Il marchese, benché perplesso e ancora offeso in tutta la sua persona, ci ragionò sopra per un istante solo e poi accettò. Benché François non fosse per niente convinto, alla fine dovette sottomettersi all'amico parigino. Nei giorni a seguire, in tutte le dimore signorili in cui si giuocava a carte, uscirono degli inviti come "Venite a sfidare e a sconfiggere Catherine, l'imbattibile giuocatrice". Ebbene, l'evento fu fissato e si svolse portando al trionfo l'automa. Ma François non fu per niente contento e lasciò al marchese la parte del guadagno che invece avrebbe dovuto trattenere. Non solo riteneva immorale e terribile quella brutta prova, ma fu anche turbato da una cosa che successe durante una mano: un giovine ussaro, diggià spennato per bene, preso dalla foga del giuoco e dalla sete di vendetta, tolse l'anello di fidanzamento alla sua innamorata, la quale inizialmente impallidì soltanto, e lo impegnò sul banco; una volta che lo perse e che l'automa si ostinò a tenerselo, iscoppiò una furibonda litigata tra l'azzardato giuocatore e la sua fiamma, tanto che il primo alla fine rimase di sasso, deluso, amareggiato e, tra l'altro, osteggiato da tutti.
"Ditemi, Catherine!" domandò allora Françoise "Reputate dassenno giusto trattenere un bene così grande per un giovinotto infelice e avventato che, avvelenato dall'azzardo, vi ha impegnato così tanto?.... Non merita forse clemenza?".
"François, voi vi preoccupate per niente! Il giuoco ha le sue regole, e impegnando quell'anello, l'ussaro le ha accettate!" rispose Catherine.
"Ma non credete che le regole si possano anche non far rispettare, talvolta?".
"No... una Vita senza regole non può funzionare!" tagliò corto La Mettrie.
"Ovviamente le regole della meccanica" aggiunse Catherine.
"Giustamente, madamigella: causa, effetto... qualche marchingegno".
François avrebbe voluto rompere la testa a tutti e due, anzi, a tutti e tre, perché anche il marchese de Formans, secondo lui, meritava un gran castigo da parte sua; così come egli avrebbe desiderato ridare l'anello all'ussaro infelice o comunque cercare di confortarlo, perfino di mettere una buona parola con la sua fiamma. Ma fu fermato... fu arrestato dallo sguardo ipnotico di Jacques, dalle vittorie troppo eclatanti della sua creatura, dagli schiamazzi e dalla maraviglia del pubblico. Eppure di lì a poco tutto gli sarebbe crollato addosso.
Non passarono, infatti, che due sere, quando oramai fattosi muto e irrequieto, François dovette affrontare il suo automa che, vedendolo seduto a un tavolo quasi immobile e con un'aria sgradevole del viso, e prendendo coscienza del fatto che non le rivolgeva più la parola da ore e ore, gli disse "François, cosa avete contro di me?". Poiché non ebbe risposta, ella aggiunse "Perché non vi degnate di rispondermi?".
"Perché voi non esistete" rispose secco lo scienziato.
"E come? Tutto d'un tratto io per voi, che ero tutto... sì, tutto d'un tratto sparisco e non sono più. Che cosa dite mai, François?".
"La verità. Voi non esistete, non siete nulla... siete soltanto un oggetto animato da un milione di ingranaggi, che sa parlare... che sa tante cose, ma non sa vivere... né esistere, né essere donna. Siete una statua di ferro che cammina... niente di più. Una statua, capite? Nient'altro che una statua, dove in voi tutto è ferro, è gelo... vergogna e orrore".
"Se ora pensate questo di me, perché non mi avete distrutta o denunziata a qualche inquisitore, o abbandonata?".
"Perché non ho coraggio, Cather..." la stava per chiamare per nome quando sbottò "E al Diavolo! Perché chiamarvi per nome quando non siete nessuno... non siete niente! Potreste essere chiunque oppure ogni cosa: che vi chiami Catherine, o donna, oppure uomo, o ancora bestia, cavallo, cane, per voi e per me fa lo stesso".
"Allora perché mi deste un nome?" domandò l'automa.
"Perché pensavo che voi ne foste degna e che ne sareste stata degna... che dandovi un nome femminile voi sareste stata dassenno donna, né avreste assunto semplicemente la vostra femminilità né la avreste finta. Ma voi non siete nulla... siete soltanto una statua plasmata male da me".
"Monsieur, è dassenno brutto dire queste cose a una persona... voi offendete e...".
"E... un corno!" urlò François "Come osate voi, ora, perché vi sentite accusata e aborrita dal vostro infame e spregevole Demiurgo - ché io stesso debbo essere tale per aver creata tanta bassezza -, come osate, ripeto... a sentirvi offesa perché vi ho detto la verità, cioè che non siete nulla e non siete nessuno?.... Cosa avete fatto per meritarvi l'appellativo di essere umano? Dite, su'! Avete fatto condannare un uomo innocente a Morte, avete arricchito due manigoldi osceni... avete accettato l'inaccettabile e vi siete dimostrata tanto ferrea nel cuore quanto lo siete nella carne".
"Ma se di me pensate questo perché non mi avete abbandonata?".
"Ho tentato... ho tentato, stupida e stolida creatura.... Quella sera, che vi ho detto che sarei andato a trovare a un inquieto amico mio.... E voi avete ritrovata la via di casa e....".
"E ho visto i cuori degli uomini!" esclamò l'automa interrompendo il suo interlocutore.
"Già... e cosa avete visto? Immagini... nient'altro che immagini conservate male nella vostra mente... nient'altro che fantasimi di uomini che picchiano le mogli, di disperati che fanno la serenata, di persone che si implorano vicendevolmente per i loro malanni... pitocchi che piangono la morte di altri pitocchi.... Voi... voi! avete visto questo, ma non sapete nulla di quanto avete visto e non potrete mai saperlo!".
"Le vostre accuse sono brute, Monsieur.... E tutto per quell'anello!".
"Al Diavolo l'anello, voi, il marchese e Jacques! Mi avete rovinato la Vita, i miei Sogni... le mie speranze. Mi avete gettato in un mondo di macchine, di ingranaggi senza cuore, di orologi e calcolatori viventi.... Oh, l'anello! Comunque una bella dimostrazione del vostro senso di umana pietà!".
"Ma, François, ho semplicemente fatto ciò che dovevo fare".
"Ciò che non dovevate fare.... Sì, perchè a voi altri sfugge che il dovere non è una questione di matematica, o di calcolo; ma di buon gusto e di moralità.... Voi agite...".
"Al di là del Bene e del Male" affermò Catherine "Me lo ha detto Jacques, da maravigliato!".
"No...!" gridò ancora François "Voi agite da criminale!".
"Che dite mai?.... Vincere delle mani a carte è dunque essere criminali? Non erano tutti conti, baroni e marchesi quelli che vi partecipavano?.... E poi così m'avete creata: per fare cose".
"No! vi sbagliate: io vi creai per amare".
"Naturalmente per amare voi, non è vero, François?".
"Sì, perché era quello che sognavo, che volevo e che meritavo in questa Vita dannata".
"Quindi anche se fossi piena di sensazioni e di Sentimenti voi fareste le stesse rimostranze, qualora non vi amassi? Perché amarvi, dunque, m'era e m'è d'obbligo! Quindi mi avreste creata per essere sottomessa, e per essere schiava, non è vero?" e dopo un immenso e lungo silenzio ripeté: "Non è vero?".
"Lasciate perdere, dannata macchina!.... L'unica cosa è che non vorrei più rivedervi!.... Ditemi voi come!" urlò François.
"Voi mi avete creata in catene... voi... e nessun altro mi ha fatta così come sono ora... voi mi avete fatta senza cuore... voi mi avete edificata per essere un contenitore vivente di conoscenze... voi non siete stato in grado di insegnarmi ad amare...." accusò Catherine che aggiunse: "Per questo voi mi dovrete uccidere... e uccidere per bene... farmi dissolvere, farmi sparire".
"Silenzio!" gridò François.
"No... no! Crudele...! io parlo!.... Dovete fare proprio quello che vi ho detto: assassinarmi e non crearmi mai più, lasciarmi nella Notte del nulla e dimenticarmi nel vostro Sogno di Amore".
"Non posso!.... Non posso!" sussurrò lo scienziato sempre più alterato e irrequieto.
"Lo dovete fare!.... Se voi pensate che la mia non sia Vita, che io abbia sbagliato calpestando le Leggi più sacre... se pensate che io non sia capace di amare, allora uccidetemi.... Uccidendomi, liberereste voi stesso dal peso di avermi in casa o di sapermi vivente e vagante da qualche parte, facendo fortuna nei modi che voi chiamate osceni.... Uccidendomi, liberereste me stessa dal vostro giogo, dal fatto che non sono nulla... non sono una donna, non sono un essere vivente.... E tutto ritornerà come doveva essere!.... Vi prego! Uccidetemi!".
François, pieno di collera, si alzò, andò davanti al suo automa, gli toccò il collo e vi aprì una piccola scatola, dalla quale strappò a viva forza degli ingranaggi. Catherine, in quello stesso momento, lo abbracciò forte e facendogli vedere due bellissimi occhi che tristi lagrimavano quasi per miracolo, cedendo lievemente con le gambe lo baciò. Poscia, mentre ella crollava sempre più a terra, prima di spegnersi del tutto e di finire in mille pezzi di ferro e di legno, afferrò di scatto un pugnale dal tavolo e lo conficcò nel petto dello scienziato. Caddero a terra entrambi: l'una si frantumò, l'altro urlando e ansimando a stento si distese sopra il suo stesso sangue. In quello stesso istante arrivava ed entrava La Mettrie che, vedendo la scena e l'amico sanguinante, gli andò incontro e gli si inginocchiò ai fianchi.
"Jacques!" lo chiamò a fatica lo scienziato "Jacques! L'Uomo non è una macchina!"... e spirò.

Gabriel Gilbert, Ophelia, Tardo-Romanticismo inglese, Seconda Metà del Secolo XIX


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, tra i Dì di Domenica I e Mercoledì IV del Mese di Settembre AD MMXIX.