II. La
Caverna delle Norne
E la valle è tremenda che dà all’Alpi,
tetra nel vitreo terrore d’un pianto,
e sul far della sera un monte grida,
dove il giorno tramonta e non s’avanza:
il regno delle Norne, primigènie
figliuole di Erda, e tessitrici
dei velami segreti del Destino.
Ùror, Skùld e Verdàndi vèston gli albi
pepli del Fato, e indagano col canto
ciò che nei Vivi di mistèr s’annida;
e vanno… e vanno, e si tèngon per danza,
oscura e dura e immatura Progènie,
e della Sorte son le genitrici,
han bello il volto, ma il cuor han meschino.
E la valle è tremenda che dà all’Alpi,
mentre sul Reno ondeggia la Dea bella,
tessendo scherzi alle Figlie delle onde,
le placide Sirene degli scogli;
dov’ella il crine cinge di ninfee, e
solleticato sente il sèn dall’àlighe,
e la gioja della sua Vita; e ove sella
le acque danzanti, e sulle chiome bionde
dei salci intorno accoglie i bei germogli,
ella, la più fatale delle Dee,
la più ridente tra gli Dei immortali.
E la valle è tremenda che dà all’Alpi;
e all’ombra di Ygdrasìl sovviene il Fato,
il scialbo telo d’un Dio inesorato.
Ùror, Skùld e Verdàndi giàccion meste
sotto le fronde della sacra pianta,
le cui frasche tremanti urlano al cielo,
tra l’argento che è effuso dalla Luna,
Mostri ancestrali delle terre oscure.
E Notte è sempre, e orrende le Nature,
ed esse hanno alle mani un’empia runa,
ordita nelle nevi. Oh eterno è il gelo!
E questa pietra flebilmente canta,
e affanni invòca, e carestie e Tempeste.
Ùror, Skùld e Verdàndi giàccion meste,
avvolte nei velami della Notte,
figlie di Erda, lo Spettro, e brute streghe;
e qui, sotto Ygdrasìl, han l’arcoläio,
tomba funerea di guerrieri e amanti,
onde tràggon le ragne del Destino.
Hanno divelto nel legno le grotte,
e vivono nascoste, e fan congreghe,
col vischio e il vento, e il salice e il roväio;
e hanno gli occhi fatti di adamanti,
e il torvo collo piegato e supino.
Son giovinette ululanti e deformi,
sguardi di lupi, e voci come i corni.
Mostri ancestrali delle terre oscure,
tutto esse sanno: la Vita e la Morte,
e il vile e il prode, e il tempo degli Dei,
e il Divenire eterno del Vivente,
e la possa temuta del Dio Loge[1],
e tessono coi ragni le lor tele.
Sui lor pepli discèndon l’ambra e il miele
della sacra Ygdrasìl; e han tetre toghe,
e all’Infinito han rivolta la Mente,
e non conòscon gioje né imenei,
Posse occulte e feroci della Sorte.
Ed Erda ora le chiama e appàr tra loro
per ordìr il Fato a quel crine che è d’oro.
«Figlie!» ella sclama: «Ho dato agli Dei un’altra
Dea la più bella, la giovine, e balda,
Figlia del mio Volere, e fior divino,
Freya, gioventù del Cielo, Freya l’Amore,
Potenza prima del nostro Universo.
Ella ha un’ora di Vita, e ride al Reno,
e ignuda sfide fa scherzosamente
alle Ninfe fluviali e alle viöle.
Tanto appàr dolce, e celestiale e scaltra,
e nella Vita già si crede salda.
Tessete, oh voi, tessete il suo Destino!
Or decidete l’ora del suo cuore,
quando del suo Dèstin il mondo asperso
sarà e nel pianto, e quando il seno
morirà della Dea! Oh Figlie mie: lente…
lente ordìtele i giorni e il quieto Sole!».
E lor, le Norne, obbediscono al Genio
della Madre che tièn l’immenso Regno;
poiché anche le celesti e posse prime
per Erda, per Erda, lo Spettro, hanno fine!
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Venerdì VI Novembre AD MMXV
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