I. Ebe, da quanto inebrïante fiore
a me non versi nell’orlo del caldo
calice! E quanto manca il tuo languore,
discorrer dolce al venir dell’araldo
d’Autunno, allor che s’ammala la foglia
di oro diafano, mentre cade al baldo
richiamo della terra! E quanta doglia,
e com’è dura di tua assenza il mio
meriggio, quando di te fatal spoglia
agli Olimpi ritorna! Oh Ebe, forse
oblio
è questo, il tuo, delle mie vecchie
labbia,
donde - ignorata sovente - il reo espio
ordito Fato, come ombra su sabbia
lungo la sera! O forse è la tua rabbia
II. che proïbisce a te versarmi il
mosto
della prima vendemmia! Ah, come fui
empio con la giovine tua età, Agosto
ribollente all’Egeo, dove colui
cadde che volle volar con la cera,
il Destino disfidando e gli imi bui,
come volando al pensier la mia sera
sfido. Ma manca il tuo braccio, il tuo
seno,
il tuo sorriso, luce a una scogliera
infinita; e gli Dei ora servi, fieno
di auree gocce versando.. e sorridi,
né sanno essi che quel vino è veleno,
è un Sogno, la giovinezza che a lidi
lontani volge, donde li conquidi.
III. Oh Ebe! Che feci io al tuo corpo
di Dea,
ai tuoi fianchi nel peplo stretti e
avvinti,
quando di ber la tua man ben mi fea
il sacro invito? Che dissi agli estinti
fior dei tuoi capei, ambite gemme d’oro
in trecce avvolte, quando i tuoi
discinti
veli a me versavano in flebil coro
il sangue ebbro dei tralci in gliconei
che maturò nel lungo Termidoro?...
No, Ebe! Amata Ebe! Maledissi i miei
anni e bevvi altri liquori e altri
tralci,
come fossi il più folle tra gli Dei.
Ma ora che sento il sibilo di falci,
or che Settembre il pianto ai vecchi
salci
IV. toglie.. e vedo le prime foglie
smorte,
e le ramora farsi come ignude -
le Naiadi agli effluvi delle assorte
sponde - ora che discioglie Erato crude
parole, io a te ritorno onde sconvolto
chiedo pietà, anche se questa m’illude
ambita speme. No! Non è il tuo volto!
Chi sei tu? Quanto tempo ha ribattuto
le sue ale terrificanti? Chi ha tolto
gli Olimpi alle tue guance? Chi ha
perduto
i tuoi stral immortali da Afrodite
un giorno benedetti? E io al mio laùto
mestamente ti considero, oh mite
Ebe! né riconosco le appassite
V. tue forme, né questi occhi vitrei
specchio
del Sole che tramonta oltre le cupole
del firmamento, sul suo carro vecchio,
in un riverbero.. là, tra le nuvole
buie e cilestrine, a un moribondo
simile; né più infiammi le secche ugole
i calici riempiendo e il furibondo
orlo. Ma tu e io restiamo come spenti,
l’un all’altra tacendo… E tace il mondo,
tace l’Olimpo, covo di serpenti..
tu e io, figli del Parnaso e del
Destino;
e intanto soffiano.. e soffiano i venti
di una Tempesta senza nome, albino
sguardo di lampi estremi.. e il lëonino
VI. ventre di Notte comune ci chiama.
No, Ebe! Ora chiudo gli occhi, sono
solo,
come un ramo che invecchia e che non
brama
altro che riposare nell’assolo
d’Autunno! Sì.. ho päura, oh Dea! Ho
päura!
Perché ormai come un mesto usignuolo
dissolvermi attendo nel buio, alla Luna
cantando senza stelle… E tu lontana
e vecchia e spenta sei, né la Natura
le tue vendemmie infiora. Ma mi è vana
questa Vita distrutta ove mi giacio.
Pur ci avvince perenne possa arcana,
la possanza persistente di un laccio,
tra
me e te un fior, un Sogno, un ultimo
bacio.
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Scultura di Antonio Canova (1757-1822), Ebe, Neo-Classicismo italiano, 1800-1805. Scultura in Marmo bianco. Museo statale Ermitage, San Pietroburgo. |
Massimiliano
Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Giovedì II Settembre AD MMXXI.