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sabato 23 luglio 2016

In Ode di una Tempesta del Deserto di una Sera di Festa

E solamente avrò io l’ermo, o sera,
io! romìto nel più lontàn fior dei Sogni,
quasi privo di Vita e di gioia,
dove il pianto sol caro mi è.

E solamente sarò io un’ombra terrea
della mèn scialba Luna, quando il dì
tramonterà funèreo nella Notte,
come un teschio nel suo sepolcro,
nella sua Morte.

E mentre - fuori - là, sàbato attende
le danze e le fanciulle, e i fiòr, gli sguardi
sotto la barcaròla di codesta
argentea Luna, e mentre
le vie ùrlano e rumorèggiano a festa,
tra i ventàgli dischiusi, e i brìndis lieti,
e liete màschere,
io condannato a non- vìvere, a non-
senso, io! qui orbando in gola una preghiera,
giacio allo scrittoio dei mie tormenti
e delle angosce dell’Ànima proba,
forse invidioso dei sorrisi altrui,
di quanti vèdon gaudi nell’andàr
dell’Esistenza… o forse vacuo e insano;
e qui, pensando, grido…
‘ve so che presto mi attende un abbraccio
di un vòrtice di pietra, ombra di un bacio
di tempestosa vetta di montagna.
Non è altro che il mio cuor! 
E niente cambierà, quando io farò
da lì ritorno.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Philip Richard Morris, Il Mietitore e i Fiori, Romanticismo vittoriano inglese, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Sabato XXIII Luglio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

La Ballata del Lupo di Montagna

V’era un lupo, ed ei a un monte lamentava
l’eterno suo Destino: Notte… vacua
Notte, vacuo vagàr di spettri in ghigni
beffardi, e vacui lumi della Luna,
reciso cranio sulla lancia del
fuggente vespro, lungo le faràndole
dei rivoltosi fùlmini del vento;
e in giù, la valle si coprì del suo
famèlico ululato. E fu!... e fu un ìncubo.
V’era un lupo, ed ei a un monte lamentava
l’invitta fame del suo oscuro manto,
tetro artiglio di Morte e di vergogna,
re delle vette intorno e dei torrenti,
laddove ei spaventava il gregge in sonno,
e il respiro dei pesci dei ruscelli,
ei! occhio di un mare che ovunque divora
gli scogli inquieti e le irrequiete arene,
e il non quieto ondeggiàr delle onde inferme,
famèlico ululato. E fu!... e fu un ìncubo.
V’era un lupo, ed ei a un monte lamentava
se stesso, ed era la mia Ànima assente
al giorno e alla quïète delle selve,
e al Sole splèndido, estivo… orbato
io come ghiaccio perenne di un vàlico,
per sempre condannato al regno dei
sepolcri dei miei Sogni, tombe ignude
di una Vita cadente nel nervoso
bàratro del non-senso, e del deserto
più solitario, esteso. E fu!... e fu un ìncubo. 
E quivi io aspetterò la più nuova alba,
un sorriso di Dio. 


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Joseph Adam, Il Valico segreto, Romanticismo vittoriano, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Sabato XXIII Luglio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

sabato 25 giugno 2016

Il Divenire nell'Occhio dell'Estate

E la sera ormai e sempre è più vicina,
e il dì con il suo lume si avvilisce:
velocemente il giorno lascerà
ogni sua ombra alla Notte orba e perenne,
poiché oggi è estate: è Vita, Morte… l’ora
in cui il Sole princìpia il suo Crepùscolo
in una lenta e ansia agonìa vorace
in sul venìr prepotente e furioso
del più pròssimo inverno.
E la sera orma e sempre è più vicina,
e il dì con il suo lume si avvilisce,
e la Natura co’ il suo eterno… oscuro
divenìr così inghiotte - e con le fàüci (sue) -
demonïàcamente il cielo, in un
urlo infinito per le nubi di oro,
di un ombreggiàr di Dio,
in una lenta e ansia agonìa vorace
in sul venìr prepotente e furioso
del più pròssimo inverno.
E la sera ormai e sempre è più vicina,
e il dì con il suo lume si avvilisce:
con l’arrivo di Estate anche la Luna
sublime è più duratura e ferale,
e lentamente ritarda nuova alba,
finché l’Estate stessa non sarà
che un cadàvere morto e imputridito,
poiché il sepolcro del giorno vacilla
in una lenta e ansia agonìa vorace
in sul venìr prepotente e furioso
del più pròssimo inverno;
e in questa fuga di note di Sole
domani sarà Autunno.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

William Adolphe Bouguereau, Ritratto di Fanciulla, Romanticismo francese, XIX Secolo



In Dì di Sabato XXV Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

lunedì 6 giugno 2016

Idillio-ballata di un Giorno di Pianto di Pioggia di Giugno

Ed è un dì di fulmìnee piogge di un
rosso rubìn di Sole de’ il mio giugno,
quando all’alba mi sveglio e l’inatteso
orizzonte e l’attesa aurora e i tesi
rami di un tiglio inesorati uccìdono -
essi gemendo le onde del ciel cupo -
i Sogni miei notturni, e qui mi invìtano
a vìvere infiniti àttimi ignoti,
e Vita incògnita e l’urlo del vento
del non mai conosciuto mio Destino;
ed è un dì di fulmìnee piogge di un
Sogno che muore.

Ed è un dì di fulmìnee piogge di un
scialbo meriggio che va a tramontare,
ei tintinnando con le acque sue gèlide,
prima che il Sole dell’Estate abbrùci
i capèi d’oro delle risàïe,
là, quando mi sarà afoso anche il Sonno,
tra i sudari viventi della Notte,
e ben dovrò io sognare nel sudore
della Luna di fuoco e di una stella
antelucàna e immòbile tra i nembi,
e quando l’alba mi ucciderà sempre
le mie sognate speni e i desidèri;
ed è un dì di fulmìnee piogge di un
Sogno che morirà.

Ed è un dì di fulmìnee piogge di un
plùmbeo cielo di argento e di cera ebùrnëa,        
e di un Giugno che è sìmile a novembre,
crisantemo pe’ il cènere dei primi
fiori che invano attèsero l’Estate
su’ i prati e negli stagni più lontani,
come io illuso ne attesi le serene
sere, che ora qui illagrimate vàgano
a piàngere e a lamentare la pàllida
comune Sorte, dove la Natura
è rivale dei Sogni, eterno scorno,
ne’ il cinguettìo che io sento, qui, di un pàssero
che caduto dal nido e di volàr
ignaro, e oltre il muretto de’ i suoi sìmili,
ha per Destìn morìr di fame e strazio,
ei agitando il suo rostro per ghermìr
tra l’àëre le brìciole di Morte;
ed è un dì di fulmìnee piogge di un
Sogno che fu.

Ed è un dì di fulmìnee piogge di un
accordo di Tempesta che ho nel cuore,
e di eccitate ombre di furibondo
sentìr, e concitati albeggi oscuri
tra le mie rune e pe’ i monti d’intorno,
e contristata noia, e tradito e bruto
Sentimento di gioie perdute e illuse,
perché ogni Sogno mi fu Illusïòne, e…
e ogni attesa un naufragio senza scogli,
né ìsole e cimbe, io, annegato nel màr
di un vìvere furente che non so
comprèndere, né so portàr avanti;
ed è un dì di fulmìnee piogge di un
richiamo a Iddio.

Ed è un dì di fulmìnee piogge di un
bàttito di ora in su’ di un orologio
che d’in su’ un campanìl sevèro scorre:
estate e inverno, e primavera e autunno,
e quel che esiste muore e si trasforma,
da’ il cadàvere al verme e dalle larve
a’ i fiori di una culla per la Vita,
e il divenìr di queste mie stagioni
non fa altro che invecchiàr questa ansiosa Ànima,
e i miei anèliti pàllidi e infecondi.
Ma resta ùnico, ahimè! il Sogno mio e il mio
volèr di Amore, e i miei singhiozzi amari,
e i miei singulti, e le mie vane posse. E…
e mentre in Sogni giacio, io odo gridàr
con la pioggia le fùnebri campane,
che qui accompàgnano il tristo corteo
della salma di un vecchio sognatore;
ed è un dì di fulmìnee piogge di un
piànger lontano a Iddio.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Ivàn Endogurov, Pioggia, Tardo-Romanticismo russo, Fine del Secolo XIX



In Dì di Lunedì VI Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

sabato 31 ottobre 2015

La Ballata della Leggenda dello Spettro di Hengist

Piove sugli elmi il pianto di Hèngist, prode
stirpe dei bardi, sangue dei Sassoni,
Furia possente delle Norne oscure,
Re d’Inghilterra, Sovrano del Fato,
Luna di Morte, occhio delle Valchirie;
e la foresta nelle acque sue annega,
eternamente uno stillàr di gèmiti.
Ferma, oh Normanno, il passo estremo! È Hèngist
che vèndica i suoi figli, spettro orrendo
che lento… lento cammina… ei! cammina,
e vagolando ei porta in ossea mano
l’ùltimo cappio dell’ùltimo spiro,
e a te lo mostra, ei minaccioso e tetro,
con un ghigno di irriso Inferno. È l’ora
in cui devi tremàr tu all’ombra effusa
di queste querce antiche e questi sàlici,
dove i Sassoni si aggìrano irosi,
Spìriti eterei del Destìn tuo estremo.
Piove sugli elmi il pianto di Hèngist, prode
stirpe dei bardi, sangue dei Sassoni.
Chiama tu, dunque, Hèngist questo vento
che tra le frasche intendi e che il mantello
bruno ti cinge, e il folle palafreno!
Chiama tu! Hèngist questa Luna pàllida
che ti avvelena co’ il suo argento scialbo,
e che allùmina il vischio intorno e i fràssini,
dove Hèngist è la nòttola che canta!
Chiama tu, dunque, Hèngist i banditi
che tra le tènebre ivi si prepàrano
a sgozzàrti feroci e àvidi di oro!
Hèngist or la tua tomba, qui, insepolta,
e l’occhio tuo che un dì nutrirà i corvi,
e i tuoi pùtridi vermi e il teschio tuo!
Piove sugli elmi il pianto di Hèngist, prode
stirpe dei bardi, sangue dei Sassoni.
Lento… lento cammina questa spettro,
brilla di Morte, e il capestro suo dòndola,
e tintinna di pianto sovrumano,
ei custodendo al fianco il corno avìto
della funesta caccia ai vivi e ai morti,
capro che al fischio del vento lamenta
co’ il tìmido dolèr di un agnellino.
Ferma, oh Normanno! È giunta l’ora estrema
del tuo Destino, oh tu, che un dì bevesti,
il vin mescendo - tu! - al sangue di Hàstings,
dove hai tu follemente trucidate
le imbelli sue Valchirie e le sue Norne,
e le sue saghe selvagge del Nord,
tu seppellendo lì queste sue ràdici…
lì, in una Notte eterna che di sé è dimèntica,
e che da un lito sassone vendetta
grida e proclama! Tu, oh fiero Normanno!  
Hèngist trasogna i banchetti e le danze,
le tetre torri dei vecchi castelli,
i palafreni trottanti alle nebbie,
le invitte scuri di Hòrsa, il condottiero,
Sogni perduti in Notte sempiterna.
Piove sugli elmi il pianto di Hèngist, prode
stirpe dei bardi, sangue dei Sassoni.
Ed ei qui irride il cenno tuo francese,
e con lo sguardo che splende di peste
lento… lento ti uccide, strangolàndoti
di sì imberbe päùra, e di tormento;
e allor tu muori. E la Notte è perenne!
Piove sugli elmi il pianto di Hèngist, prode
stirpe dei bardi, sangue dei Sassoni,
Furia possente delle Norne oscure,
Re d’Inghilterra, Sovrano del Fato,
Luna di Morte, occhio delle Valchirie;
e la foresta nelle acque sue annega,
eternamente uno stillàr di gèmiti,
eternamente la Morte che è tua!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, con Ispirazione tratta da Leggende medioevali e poi romantiche del Popolo inglese

In Memoria di G. A. Macfarren, Compositore operistico inglese del secolo decimo nono




In Dì Mercoledì XVII Febbraio AD MMXVI

giovedì 22 ottobre 2015

Al Melezzo

Oh Melezzo che scorri all’Alpe amata e ai miei vàlichi,
‘ve un dì a un villaggio io mi nutrii d’Eterno,
e di assai palpitate attese, e carichi ivi sono
di fresco vento i frondosi all’inverno e all’autunno
i pini e i tigli; oh Melezzo, al cui suono
riacquisto istanti perduti di Vita, dove il sogno
come un Unno mi persèguita immane, oh
ruscelletto lontano al Ghiridòne abbracciato;
oh mio Melezzo, di che rimane se non
un ricordo ghiacciato: e d’una rosa e d’un fiore,
se non un’ombra all’Anima mia affissa
dei tuoi rovi e i tuoi cespi, se non cuore ora perduto
della mia Estate, porto ultimo e cieco
della mia giovinezza che è svanita e compianta, e
se non l’eco dell’onde tue arenate alle vette,
e i tuoi bàratri tetri, giù, alle valli irrequiete?
E la mia Rose tristemente affranta all’insonne
veglia mi doni, oh bieco rivo! E schiette son l’ombre
di queste tombe di ricordi remoti e mietuti;
e te lontano, non vi son più sogni che s’infuriano,
né vi son donne. E sulle cime alte, e orbe, e ombrose,
oh Melezzo, ahimè! Muore la mia Rose!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Giovedì XXII Ottobre AD MMXV  

martedì 20 ottobre 2015

Bèviti! E bacia il mio Sogno!

Oh Rose, oh Rose, infinita ombra del Nord, fanciulla, a’
betulle e al Ghiridone ascolti forse - tu? - il mio sogno,
e i miei febbricitanti sospir. Le ansie! E
ricordo: il solitario e là ombreggiato sentiero,
scendendo dalla piccola collina, e andando altrove,
verso Dìssimo forse. E muto ero io
tra le chine lontane e meste. Ove tu eri con me.
Oh Rose, perché… perché ora mi vergogno in miei sonni,
dove il mio cuore si lamenta? E piange!
È forse Amore un’onta d’un fanciullo che è inerme
per cui provàr vergogna v’abbisogna?
E questo sogno vaga… e va sul nero crepuscolo…
e sogna… e sogna come in tomba il verme. E
poss’io chiederti di baciarne? E il mio
visionario sentìr tramonterà in quel bacio
che tu allòr chinerai a un’ombra morente e sconsolata.
Oh Rose! Può esalare ove qui giaccio un freddo sogno
l’estrèm sospìr suo e l’Anima infamata; e tu… avrai
così raccolto con le rosse labbra e le tue gote
un respiro di Vita e di ricordo, e un sovvenìr
d’un istante defunto. Ed è la Notte che regna, oh Rose!
E il mistico baciàr piove al mattino
sulla tua bocca la fredda rugiada del mio Destino;
e per me sarà egli un sogno che muore d’accanto
per farmi accòglier da altri sogni insonni,
come uno scoglio l’onde del suo mare.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XIX, Martedì XX Ottobre AD MMXV  

domenica 18 ottobre 2015

La Visionaria

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

E la fanciulla passeggiava. Nero
era il suo crine, poiché avea dormito
tra il cenere funereo del camino,
mentre nel letto un misero dormiva.

Lo accolse nella Notte e lo accudiva,
ed egli era soltanto un pargolino.
E ora ella andava… e andava, e all’Infinito
muoveva il passo a un ignoto sentiero.

«Dove vai, fanciulla, bella e ridente?»

Venìr scorgeva un lontàn falconiero,
e un Principe a cavallo. E era smarrito
il volto suo all’ombra di un vecchio pino:
guardò più volte. Nulla! E il dì svaniva.

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

E all’orizzonte fuggivano i sogni:
e ella vedeva la Vita e il suo Nulla,
piànger udiva i neonati infelici.

Ma… ma v’era una donna alle pendìci
d’un tenue colle: «Guarda come culla!».
E un Mostro qui era il vento: «E a che vergogni?».

«Sono l’ombra d’un falco che lamenta!».

Niente! Svanìvan sogni:
e ella guardava i questuänti intorno,
poveri in cerca del pane del giorno.

«Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
dove vai solitaria e bella e bionda?
Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
perché la treccia è nera a questa sponda?».

«Ier ho dormito nel camino oscuro
per dare il letto a un bimbo vagabondo.
Ier ho dormito nel camino oscuro
il cenere annerì il mio crine biondo».

«Non era il bimbo quei di questa donna?
Vedi! Lo porta lontano e al sicuro.
Non era il bimbo quei di questa donna?
Ha paüra dell’Orco, il monte oscuro».

«Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
Forse la madre ha fame. Venga: ho i pani.
Perché fugge e va via? Il mio tetto è il loro.
No… no! Non farli andàr tanto lontani!».

«Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Hai visto la miseria della guerra?
Fanciulla hai un cuore buono. Tu ami i poveri!
Sii la speranza di questa tua terra».

Ed ella discorreva… e discorreva,
e con chi non si sa, né ella ‘l mirava,
tra un trasognato istante e un’aspra veglia,
forse al suo cuore, o forse alla Natura.
E lontano… lontano ella volgeva,
e fuori del villaggio se ne andava.
Era felice e - saltellando - sveglia,
una fanciulla visionaria e pura.
E quando fu la sera tornò indietro,
verso il tugurio. Cenava nel tetro
legno del lare; e disse sotto un perno:
«Padre, padre… lo sai? Che oggi ho parlato con l’Eterno?».

Fanciulla, oh mia fanciulla, oh mia fanciulla,
ascolta e taci!.... Ascolta il cuore mio:
quest’Eterno che ti chiama non è che Iddio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XVIII Ottobre AD MMXV

martedì 6 ottobre 2015

La Ballata dell'Ondina del Reno

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
tra le nebbie del Reno i vapori,
Ondina la fanciulla del re delle onde,
la bella ninfa, e il dolce cuore suo,
quando canta con l’arpa delle Norne
sotto lo strale della scialba Luna.

Perché volete sapere di lei?
Chiunque la ha scrutata è presto morto.
Perché volete sapere di lei?
Ella dòmina il vento e ogni Destino.
Orsù! Chiedètelo al mio pescatore,
è uno spettro che vaga nella Notte,
è stato ucciso da uno sguardo amabile
di questa Dea che lievemente arpeggia.
Chiedètelo al mio pescatore morto,
se mai incontrate la sua Anima oscura.

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
ci dicono che è bella e che è bionda,
Ondina argentea dell’oro delle acque,
la selvatica ombra che racconta i suoi
spasimi antichi, nelle orrende Furie
dei tremuli naufragi della sera.

Tacete, ignari, di questo mistero!
La sua bellezza dischiude la tomba.
Tacete, ignari, di questo mistero!
È meglio non udire le sue nenie.
Domandàtelo al figlio del prìncipe,
è uno scheletro bruto sulle sponde,
lo hanno affogato le Ondine ribelli,
mentre rideva la vostra fanciulla.
Domandàtelo al figlio del prìncipe,
quando inciampate nelle sue ossa orrende.

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
del canto che dischiude il suo labbro,
Ondina cara alle nubi del vespro
e agli irrequieti sogni dei barcaiuoli,
estasi folle del senso notturno
di chi viaggia confidando nel buio.

Di qua fuggite, prima che sia tardi!
O moriremo tutti al suo bel trillo.
Di qua fuggite, prima che sia tardi!
Sol io ho il potère di intènderne il canto.
Ma se la Ninfa mi vede con voi
mi annegherà nel vortice di un ballo,
e muterò in uno spettro blasfemo,
muto e insepolto e non avrò riposo.
Ma se la Ninfa mi vede con voi,
mi attoscherà con il suo crine inquieto.

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
il letto delle rive del Reno,
Ondina sacra agli Dei degli stagni
che è la figlia di un sogno sofferente
nel visionario tramonto del cielo,
dove la Luna emerge dal Nulla del monte.

Voi disfidate la Sorte iraconda,
non vi son che sepolcri che ci inghiòttono.
Voi disfidate la Sorte iraconda,
sentite il trillo: è la Morte che incombe!
Raccontiamo di Ondina nel suo ninfale:
siamo spettri nella tomba delle tenebre!  


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì VI Ottobre AD MMXV

La Ballata del Sogno di Ottobre

Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!
E valica egli le cime dei monti, e…
e delle selve dove un dì ei gridava.
Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh! E
sogna agli eterni e incogniti orizzonti, oh
cuore di Anima ignava! E
sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!

Perché sognàr mi dico quand’ei è vano, e
mentre la brina e fredda e scialba scende, e… e
sognàr remoti sensi, e il mio lontano
avvenire? E il mio cuore attende, e attende
istanti più felici; e allòr lo prende
un sentìr di tristezza mai finita. Eh!
Che? Per vent’anni fuggì la sua Vita? E…
e dunque geme, e grida, e si vergogna.

Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!
E lambisce le montane e vecchie fonti, e…
e i suoi alpini sentièr che valicava.
Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh! E
sogna vagàr per gli irrequieti ponti, oh
cuore di Anima ignava! E
sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì VI Ottobre AD MMXV

martedì 12 maggio 2015

La Ballata dell'ultimo Addio

A un tetro sguardo delle nubi oscure
che tra le frasche la Luna argentava,
presso un cupo castello s’inquietava
un’ombra che lagnò d’aspre sventure.

Una finestra rifletteva un fosco
lume, e il verone alle molli candele
si giaceva, e infiammava il cupo bosco
e il pruno al pioppo spergiuro e infedele;
e l’espèo ciel spandeva un fior di miele
alle lontane vette, e l’ombra urlante
dalle pietre fuggiva, e spasimante
canzoni bieche ne gridava e dure.

Presso un cupo castello s’inquietava
un cavalier che lagnò aspre sventure.

Al venir dell’aurora una fanciulla
discinta lo seguiva, e scalza e mesta.
Braccia gli avvinse al collo e a una betulla
singhiozzando ‘l baciava; e la foresta
le piogge ne gemea d’una Tempesta,
ed ei sorrise, ed ella al labbro ‘l pose
l’indice e disse: «Taci!», ed ei le rose
delle gemme - ei! - baciava albine. E pure,

presso un cupo castel che s’inquietava
e al cavalier che lagnò aspre sventure,

nel silenzio albeggiante e in questo nulla
ella lagnava, e ‘l zittiva, ed ei a questa
mano di donna or piegava, e la culla
dell’Amor si scorreva, e l’alte gesta
ei le cantava, dond’ella funesta
udìa forse un presagio di tormento,
ed ei ‘l placava, ed ella al fresco vento
dell’alba si commosse; e le radure
gemevano, e la Luna or tramontava.

Presso un cupo castello s’inquietava
un’ombra che lagnò d’aspre sventure.

Il cavalier, allor, di tante cure
al veniente mattin si tormentava,
e costei al volto estatico mirava,
ed ella sospirò tra l’ombre impure;

ed ei la prese ai fianchi, ed ella in punte
tra i sterpi alzava i piedi, e il volto al petto
dov’era il cuor gentil del suo diletto
follemente posò, e le man congiunte

s’accarezzàvan reciprocamente,
ed ella udiva i palpiti, ed ei ardiva
berle il sospiro del labbro sveniente,
ed ella rise, ed ei beò, ed ella ambiva
i battiti baciargli; e si tradiva
un respir di paüra, e l’onde intrise
di pianto ei ne crollava, e un dito mise
al suo labbro, e costei ‘l baciava e, funte

l’ore del duol co’ sopraggiunte speni,
ambedue si miravan nell’aspetto,
e scendevano inquiete al lor cospetto
le piogge dalle nubi in ciel disgiunte,

e a lei solleticò un tremore i seni,
e le mancàvan la forza e il detto.

Presso un cupo castello s’inquietava
un cavalier che lagnò aspre sventure.

Frattanto l’orizzonte si brillava,
e la Notte scendeva, e l’alba svelse,
e nell’abbraccio il messer seguitava
a calmar la fanciulla; e l’ombre eccelse
dei valichi lontani contemplava,
ed ella il guardo posava a quest’else
d’arida Morte; e costui si scioglieva
dall’amplesso soäve, e si piangeva…

e stava per scostar quand’ella colse
la sua destra fuggente, e in soffio ‘l prese,
ed ei allor si voltò: e un guardo li avvolse
perdutamente estremo, e un urlo intese,
e gridò il Fato, e furioso si dolse (in)
timidi sguardi! E la Notte or si arrese,
di lui l’occhio contro il suo, e contro il mondo,
fulmine invitto d’Amore iracondo.

Angeli d’occhi parlavano intensi,
e le pupille baciàvansi, e il liuto
risuonato dal vento in suoni densi
cantava una romanza; e il suo perduto
cavalier ne spargeva i baci, incensi
d’Amore sacro a un capello svenuto
della madama che piangeva intanto,
molle ricordo dell’udito canto.

Egli tornava alla dama perduta,
e l’occhio la incontrava, e nel sottile
strale dell’alba schioccava febbrile
un ultimo baciar, la spene muta.

Tendeva il corpo suo al seno suo, al manto
della veste sua falba, e lo guardava
ella che pianse, e al collo suo affranto
le braccia ancor gli avvinse, e lo chiamava,
e le mani piccine gli posava
alle guance, e ‘l baciava, ed era stretta
di costui nell’abbraccio, e la saëtta
del bacio si schioccava ormai voluta:
ed ei le morse il labbro, ed ella il mento,
i denti sulle labbra, e i mordicchianti
sguardi, i respiri confusi nel vento,
cuor contro i cuori dolci e spasimanti,
e i respinti spergiuri, e le promesse,
l’aspettative all’Ignoto dimesse.
Nel bacio si passò l’ora temuta!

Egli tornava alla dama perduta,
e l’alba s’avanzava orba e febbrile.

Allora tra le nebbie si svaniva
come un’ombra d’un spettro il cavaliere,
e nell’Ignoto costei lo seguiva
oltre le smorte del cielo le cere,
e le pupille or piangevano fiere.
Alla guerra partiva il Trovatore,
un bacio solo, una Notte d’Amore,
‘la tra le fronde s’udiva svenuta.

E venne l’ora da sempre temuta,
l’ultima sera d’un sogno d’aprile;
ed ei n’errava, ed ella a un bosco vile
pianse, lagnava, e morì… alma perduta!

Perì per le doglianze dell’Amore,
al suol distesa qual foglia cadente,
e spirando sentiva la canzone
dell’arpa trobadorica nel vento.

Ma eternamente nel sogno ghermiva
un bacio sempiterno, e l’annegava
la foresta irridente, e la divina
Natura; e ancora lenta s’allontana
nella Morte feroce la madama,
e urla, grida e s’infuria al ciel infausto,
d’osso il crine disotto argenteo nastro,
e il grido suo l’orizzonte ne intende.

‘La spirando sentiva la canzone
dell’arpa trobadorica nel vento.
Perì per le doglianze dell’Amore,
al suol si giace qual foglia cadente.

Folle, o tu che cammin, vagabondando d’Amore,
ell’è tua muta tomba, misero Trovatore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XII Maggio AD MMXV