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mercoledì 10 ottobre 2018

Un Assassinio

Il Signor Carlo era un uomo di mezza età, reduce in qualche modo dall'ultima guerra contro l'Austria, sì... quella che portò all'unificazione e alla proclamazione solenne del Regno. Non che avesse rischiato grosso, insomma.... Del resto, in merito a un po' di danaro derivato da una sua piccola attività nel commercio, egli prestò un comodo servizio presso un vecchio comandante, uno di quelli - pienamente Piemontese e fiero di esserlo - che osservavano le battaglie dalle tende o da qualche riparata altura. Niente da temere! Eppure, nel corso della guerra, Carlo aveva racimolato una bella somma di debiti... debiti di giuoco, intendiamoci bene, di quelli che si fanno con la peggior specie di uomini; e in merito a questa gravissima prodigalità, una volta tornato dai campi di battaglia, dovette fronteggiare la crisi della sua attività. E della sua vita!
La moglie, una donna abbastanza sveglia e informata del mondo tanto da non credergli, comprese fin da subito che quelle somme prese da lui dal patrimonio di famiglia e date ora a questo sergente, ora a quel carabiniere, ora questo, ora a quello non erano affatto dovute alle normali spese militari.... "Normali spese militari?" chiedeva tra sé sbigottita osservando scetticamente il marito. "Ma da quando un soldato paga per andare in guerra?!". No! Il suo caro Carlo stava mentendo, le teneva nascosto qualcosa e, probabilmente, la stava perfino burlando. In fin dei conti, diciamocela, ella era di umili origini, mica come lui che, al contrario, vantava un piccolo titolo nobiliare e una zia ricca... macché, ricchissima. Chi lo avrebbe saputo? Forse egli pensava che, essendo stata una bovara sur di qualche vetta della valle, ella potesse benissimo cascarci... crederci e, ovviamente, sborsare.
"Tu... tu, non mi fai queste cose!" brontolò la moglie dopo cena "Tu non me la racconti mica giusta, sai?.... Che? Credi che io sia una mentecatta?".
"Ma insomma, cara... sono cose che vanno pagate!" rispose lui, asciutto... asciutto, con qualche gocciola di sudore accennata sulla fronte, e con un certo rossore in volto.
"Quali cose?!.... Adesso si paga per correre il rischio di pigliarsi una palla in fronte!.... Bravo... bravo il mio soldato! Un vero cavaliere... che prende in giro la moglie e il suo onore. Bravo!".
"Calmati... ti prego.... Insomma, devi sapere che c'è il medico... il...".
"Il medico un corno!" sbottò la donna "Quale medico del diavolo?!.... Ma se non hai nemmeno un piccolo taglietto e mi sembra che tu sia stato bene... benissimo, a non far niente... lontano da cannoni e carabine!.... Bravo! Infinocchiami pure, tanto poi vengo a scoprire tutto.... Nel frattempo, te lo scordi: io non sborso".
"Ma, cara, Elisabetta cara, se non sborsi, finisco nei guai!".
"Che? Ti hanno sorpreso a fartela con il Tedesco?.... Bravo! Continua così!" ansimò la moglie e dopo un breve silenzio disse: "Allora? Vuoi dire quella sporca verità?".
"Ah ah! Dunque pensi che tuo marito sia un bugiardo?".
"Come se tu non avessi mai raccontato menzogne!.... Andiamo! Fuori la verità... o fra poco arrivano gli schiaffi!".
Carlo rimase un po' sorpreso di queste parole. Infatti, era la prima volta che la moglie gli stesse rinfacciando delle menzogne... di essere uno sporco bugiardo - e purtroppo per lui, lo era davvero! - così come era la prima volta che lo stesse palesemente minacciando di dargliele di santa ragione. Poverino lui! Tra sé e sé pensava "Dammi pure questi schiaffi... e poi vedi!". Quante volte, del resto, aveva sentito parlare di uomini onesti, onorevoli e rispettabili che sapevano conciar per le feste le proprie mogli al momento giusto... qualcheduno, a quanto pare, usava perfino il bastone. Ma quella sera, osservando la sua donna, aveva quasi soggezione, una marea di rimorsi... la coscienza gli gridava furiosamente "Ella ha ragione! Te li meriteresti i mille schiaffoni che ti potrà dare!"... e se ella gli avesse alzate le mani, egli si sarebbe lasciato farsi picchiare. No! Non c'era altra soluzione: o le si diceva la verità, o si andava da qualche altra parte a questuare danaro.
Da qualche altra parte! Ma certo! La zia... la vecchia e ricchissima zia!.... Questa signora, tra l'altro, in quel periodo, si trovava nella sua villetta - la sua residenza estiva, diceva lei! - tra il villaggio di O. e quello di D. Bastava aspettare mezza giornata, presentarsi il giorno dopo di meriggio e chiderle la grazia di avere una sommetta... niente di che, solo qualche migliaia di lire per saldare tutti i debiti e liberarsi dei creditori... quegli strozzini! una volta per tutte. 
Certo! anche a lei non poteva dire la verità. Povera zia se la avesse detta! Cattolica com'era, sarebbe svenuta - o peggio - quando avesse conosciuti i giuochi d'azzardo, le ubriachezze, la mancanza di ogni contegno del miserabile, scemunito nipote... un nipote diggià contestato e contrastato dal fatto del suo sposalizio con una povera bovara. Mica come l'altro... quello che viveva a Milano, un gran signore, un vero politico... il futuro del Regno, un grande uomo che intratteneva relazioni con Manzoni, la Maffei... con Verdi. 

Era sera... nel cuore del tramonto. La zia aveva detto a Carlo di tornare di sera... almeno, così egli credeva di ricordarsi perché, alla fine, la vecchia donna era così loquace, così noiosa e pedante che egli non aveva per niente fatto caso alla maggior parte delle parole da lei pronunziate. La classica vecchietta di una famiglia abbastanza prestigiosa, per certi versi abituata a quel mondo oramai spento dove ci si mettevano le parrucche in testa, i nei finti... ci si incipriava il volto.
Da una finestra, quella che dal salotto dava al piccolo giardinetto di montagna, e un po' al vicino roccioso precipizio, veniva fuori un fioco lume di candela... o di lanterna, il quale prestava diggià a tutto il luogo una parvenza spettrale... cimiteriale, un biglietto di visita con su scritto "Qui abita una vecchia signora prossima alla morte".
Carlo oltrepassò il cancello, rimasto aperto dal pomeriggio... strano, no? Di solito la zia lo chiudeva sùbito, ovviamente da sé. Mica si portava dietro i servi nelle sue vacanze! Era così orgogliosa che pensava a fare tutto da sola, e non voleva mai nemmeno il più minimo degli aiuti: doveva dimostrare di essere ancora in vena, no? Non di essere una vecchia, decrepita e consumata signora reduce di un'epoca tramontata e per sempre finita.
In ogni caso, il miserabile nipote andò alla porta e bussò forte, conscio del fatto che la zia era quasi del tutto sorda, tanto che con lei bisognava urlare per farsi sentire. Niente! Bussò ancora più forte, la chiamò anche gridando. Ancora niente... silenzio assoluto! 
A Carlo salì dunque un'angoscia profonda, oscura, un senso di smarrimento e di paura... quasi una terribile e ben radicata nausea, e iniziò a provare freddo... freddo dappertutto, ovunque... scosse di gelo glaciale alla schiena, alle membra... le gambe gli tremavano... pur non sapendone la cagione, voleva tornare indietro, andare a casa... inginocchiarsi alla moglie e dire tutto, confessare di aver scommesso, giuocato d'azzardo con i peggiori soldatacci di tutti i tempi... chiedere una grazia, un po' di compassione, e... naturalmente, un po' di lire. E tutto questo stato d'angoscia irruppe ancora più tempestoso quando egli osservò come la porta fosse rimasta aperta, così... come l'aveva lasciata di meriggio, dopo essersi congedato. Oh Cielo! La zia non chiude più la porta! è così vecchia? Così prossima al suo fato estremo? Che fare?
Carlo spalancò la porta, ed entrò. Immediatamente l'assalì un lieve ma diggià accennato fetore di vecchiaia e di marciume, misto a qualcosa di acre... di aspro, sì... di ferreo, come sangue. Corse velocemente in salotto e qui, si spaventò. 
Infatti, la zia giaceva a terra, sul pavimento, morta da ore... il volto era tumefatto, come se fosse stata presa a pugni, il labbro era rotto e sanguinante... e i lineamenti... gli sguardi, che sguardi! I suoi occhi sembravano infissi in quelli dell'assassino, e parevano lo supplicasse... lo implorasse di aver pietà. Erano occhi aperti, tristi... pieni di pianto, di stupore dinnanzi a tanta violenza. 
Carlo si lasciò andare, cadde per terra, sulle ginocchia; abbassò il capo, fece un impacciato segno di croce, e piangendo, restò così per molto tempo, forse per ore. Poi, tutto d'un tratto, si alzò e si guardò intorno. Strano! Era tutto come lo aveva lasciato. Tranne che due seggiole, le quali erano state rovesciate, probabilmente dal disgraziato che fece così tanto male... che compì questa azione abominevole e gridante vendetta di fronte a Iddio, ogni cosa era rimasta lì dov'era appena prima che di meriggio il nipote se ne fosse andato via: i mobili... il tavolo; le due tazze di Té sopra di questo... i biscotti. Molto... molto strano, davvero! E Carlo osservò perfino che nella tazza della zia c'era ancora del Té e, spezzato e caduto sul piattino sottostante, c'era un biscotto di cui la metà galleggiava resa in putrida poltiglia nella bevanda. No! il nipote non resse... gli venne una nausea così profonda che, per non star male, cercò nelle sue vesti una fiaschetta di odori e se la mise sùbito al naso. Povero lui!
Inoltre, una marea di pensieri e di ragionamenti gli piombarono addosso, lasciandolo in preda a migliaia e migliaia di macchinazioni e di ipotesi, e annebbiandogli la mente sul da farsi... facendo di lui un uomo inerme, fermo... immobile. Pensava, infatti, che se tutto in quel salotto fosse rimasto davvero così come lui lo aveva visto, se la zia se ne fosse stata a terra, a giacere così tumefatta, e se ci fossero stati sul tavolo quella tazza, quel biscotto e quel putridissimo Té, ciò avrebbe significato per forza che l'assassino, al momento del suo congedo, era in casa, o nel giardino... doveva essere nascosto da qualche parte, pronto a colpire. Forse era un poveraccio... passato di lì per caso: vede un cancello aperto, vede proiettate alla finestra del salotto due ombre che parlano, si nasconde, cerca di origliare... arriva a sapere che lì abita una vecchietta ricchissima... aspetta il momento giusto e poi... sì, ma quale crudeltà! A pugni! Non con un pugnale, non con una pistola... o una carabina... a pugni! 
A questo punto, Carlo iniziò ad andare a vedere nei cassetti de' mobili, a frugare sotto le tovaglie, i tovagliuoli... le posate... a vedere se l'assassino aveva appunto portato via del danaro. Lo sanno tutti che le vecchiette nascondono le lire in tal guisa!
"Ma che sto facendo!" esclamò tra sé il miserabile, fermandosi nel frugare "Non è affar mio... non debbo finire ne' guai.... Che fare, però?". 
De' passi si sentirono provenienti dall'atrio, o almeno, così egli credeva.... Tacque, il suo sangue raggelò.... Udì la porta aprirsi. Diavolo! "Qui c'è ancora qualcheduno". Egli si scuote... corre a un cassetto... sente un rumore che proviene da fuori, nel giardino, come d'uno che stesse fuggendo aprendosi varchi tra rami, fiori e rovi... raggiunge il contenitore di una vecchia pistola, la carica... alza il cane.... C'è un'ombra nel giardino... un'ombra furiosa che da un cespuglio, da una siepe, si alza, si erge contro di lui... lo fissa... lo fissa bieco, è irridente... alza i pugni come minaccia. Carlo spara.
La finestra del salotto, allora, si frantumò in milioni di piccoli pezzi, emanando nell'eco uno spaventoso rumore di vetro rotto e di onnipotente tuono... tuono adirato, proveniente da Iddio... il fulmine della vendetta e della Giustizia. Peccato che là, nel giardino, non vi fosse nessuno! Carlo con cautela andò a osservare dal davanzale... non prima di aver ricaricata l'arma - era, infatti, una pistola del periodo napoleonico, o giù di lì. No! Nessuno. Eppure aveva sentito de' passi, aveva udita la porta... e poi, aveva vista quell'ombra irridente.... No! Qualcheduno stava facendo il furbo... lo stava portando a impazzire... qualcheduno abile nel farsi credere uno spirito demoniaco, crudele... un fantasima assassino dei poverelli; probabilmente qualche rivale della zia - e ne aveva! - o nemico suo. Ahimé! In un solo attimo, si figurò perfino che fosse uno de' suoi aguzzini, dei creditori, che lo aveva trovato... aveva sentito e intuito che la zia lo avrebbe aiutato e così, pensò di agire per bene, per metterlo nei guai, per farlo star male... forse per ucciderlo. No! L'idea era stolida e non poteva reggere... e non era nemmeno un incubo.... Lì, tutto era vero.
Ora, però, Carlo notò sur d'una sedia una lettera che, secondo quanto ricordava non c'era... una lettera aperta... e lasciata lì, come se fosse cagione di dolore e di disperazione. La prese e la lesse. Semplicemente il nipote di Milano si scusava con la zia circa il fatto che per le prossime settimane non sarebbe riuscito a venirla a trovare perché impegnato in certe questioni politiche e parlamentari, inerenti al nuovo governo a Torino. Mah! Carlo aveva letto de' libri in merito... di quelli che andavano di moda in Inghilterra e oltre oceano, e che parlavano di assassini. Chissà, forse il colpevole era il cugino milanese... quel ricco egoista e prepotente! Forse voleva affrettare il momento dell'eredità, e così ideò la lettera, l'espediente.... No! No! "Questa è demenza!" asseriva Carlo, "lo sto accusando semplicemente perché lo disprezzo!".
Ma che fare, adesso?.... Non si poteva per niente far finta di nulla, andare per il prete, far benedire la cara salma e finirla così... anche perché nessun parroco sarebbe stato così sbrigativo da non farsi due domande in merito a quello stato della defunta. Bisognava scendere immediatamente in città, a quest'ora! in piena notte! e informare l'autorità. E se vi fosse in giro un assassino sanguinario? Meglio avvertire sùbito... e meglio scendere armati. 
Così Carlo tenne ben stretta la pistola, prese il suo astuccio, tutto il necessario per farla funzionare per bene... evitò di toccare altro, uscì dalla villetta e si diresse verso la città, dove in lontananza, tra le brume delle montagne e della valle, si intravedeva il campanile secentesco della Madonna del Sangue.

Mai fatto un sentiero di notte... mai affrontati i sentieri, i dislivelli... le rocce, e tutte quelle piccole insidie della natura di montagna... e specialmente, mai entrato ne' boschi notturni! Carlo era tale, e appena inghiottito nella stretta d'una selva alpina, con i canti lugubri delle civette, e tutti gli altri versi animaleschi e rapaci, si sentì invaso e minacciato da presenze inumane... spettrali... sicuramente demoniache. Si sentiva trascinato interiormente da una forza potentissima e sovrumana, una possa da Inferno, prepotentemente insistente e baldante... trascinato da qualche parte... sì, ma appunto, dove? Ogni volta, ogni istante, gli pareva di sentire de' passi altrui farsi avanti insieme con lui... una presenza d'un qualche Dimonio o giù di lì... forse della Morte stessa... di quell'ultima estrema fatalità che, non paga della zia, voleva fors'anche il nipote.
Allora un mondo di superstizioni e di fantasie crudeli e mal represse gli si faceva avanti, lo avvolgeva... e anche di Fede, la voce d'Iddio che lo giudicava e lo condannava per essere uno stolido, un giuocatore d'azzardo... un vile mentitore... uno spergiuro. Era colpa sua... colpa del nipote, se la zia era morta! Se non le avesse mai chiesto del danaro, probabilmente l'assassino non avrebbe udito niente... non avrebbe conosciute le ricchezze della vecchietta... e, sicuramente, non la avrebbe mai uccisa... e in che modo la uccise! A pugni! Questo dettaglio era più crudele e malvagio di tutto il resto, poiché denunziava odio... odio profondo, incolmabile... una rabbia disnibita e istintiva. Una bestia! Una bestia selvatica avrebbe potuto fare questo, un uomo no!
A pugni! E ora la foresta intera, con il suo stormire, con i suoi versi, con le cantiche delle nottole, sembrava prendere a pugni quel miserabile omuncolo che era Carlo... ogni roccia era uno schiaffo, ogni ramo un calcio... qualcheduno lo stava seguendo... lo voleva morto. E più volte il disgraziato prese la pistola, si fermò... la puntò da qualche parte. Poi quando vedeva che non c'era nessuno, la riabbassava... e per il momento, finiva lì. Chissà quante e quali immani tragende si consumarono diggià in que' dannati luoghi silvestri dove le fole popolari si figuravano sguardi di fate da non vedere - perché se visti, avrebbero provocato l'immediato trapasso dello sventurato - bestie feroci e fameliche, spettri vendicativi per qualche torto subìto nel Medioevo!
Per la prima volta dopo lunghi e intensi anni, Carlo iniziò a sussurrare tra sé qualche piccola preghiera... detta a metà, perché in fin de' conti non se ne ricordava più molte.... Tentava con il Pater Noster ma non ce la faceva... con l'Ave Maria nemmeno. Al di là della morte della povera zia, perché mai ogni volta che tentava una preghiera gli riusciva quasi genuinamente il Requiem...? 
Poveraccio! Forse s'era anche perso... ed era arrivato a una sponda - non sapeva quale - del gelido Melezzo; ed era stanco. Allora Carlo si sedette sur d'una grande roccia, sulla riva... e guardò giù. La Luna era alta in cielo, ed era piena. Eppure... no! Non poteva essere! Egli non aveva più un'ombra... un'ombra! la sua!.... Le acque del torrente, infatti, riflettevano al chiaro lunare il bosco, le pietre... tutto, fuorché lui... la sua dannata ombra, la sua miserabile anima peccatrice. 
Si risvegliò come dopo un sogno... dopo un incubo, la sua mente si rischiarì e ricordò ogni cosa che aveva voluto dimenticare tanto fu grande lo spavento e lo sdegno di se stesso. Guardò in basso... le onde erano alte. Si gettò furiosamente dentro; e si lasciò annegare. L'assassino si fece giustizia da solo.

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Johann Heinrich Füssli, Il Sogno del Pastore, Pre-Romanticismo tedesco, 1796



Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Mercoledì X del Mese di Ottobre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

lunedì 8 ottobre 2018

L'Astinenza

Una fanciullina quasi terrorizzata dalla nuova vita in questo sperduto e dimenticato villaggio.... I suoi occhi, allora, traspiravano un inquieto sentimento di melanconia, un non so che di nostalgico misto a un lontano strale di speranza; e andava a raccontare quella sua esistenza che, trascorsa in una piccola città, era ancora breve e immacolata, oppure semplicemente fragile come una foglia di primavera nel bel mezzo di una tempesta: come poteva resistere alla pioggia scrosciante, alle urla feroci dei tuoni, alla furia dei lampi e alla grandine, così correva il pericolo di staccarsi dal ramo, di precipitare in una pozzanghera o nel fango, e di morire. E chi mai non è stato fragile da bambino?.... Ebbene, una fanciullina che giuocava a correre intorno a un vecchio tronco, e che era sorvegliata da un uomo, sicuramente il padre. 
Una fanciullina! Così se la ricordava il Signor Rodolfo, giovine maestro di scuola che, ogni giorno dei mesi scolastici, passando per irti e sassosi sentieri di montagna, doveva scendere dal villaggio di O. fino alla cittadella sottostante. Lo sguardo sopra la via; gli occhi a contemplare le nebbioline del Gheridone.
Una fanciullina allora insignificante come la comparsa del più inutile degli araldi in più di una di quelle Tragedie che egli aveva poi letto... una femminuccia, sì... carina, gentile, bella, con i suoi modi diggià cittadini... ma pur sempre una femminuccia. Non che odiasse le donne, s'intende; ma Rodolfo non comprendeva bene e non comprese questo strano e bizzarro mistero per cui per ogni specie vi sono il maschio e la femmina... anzi, tutto ciò lo imbarazzava anche. Del resto l'assillo della sua vita fu questo: "Perché esisto? e perché son uomo?".
Sia chiaro, ai tempi egli stesso era un fanciullino; e come tale, innocente, fragile e immacolato. Eppure sentiva un non so che di spirituale così come qualcosa di erotico dinnanzi a una donna; e tutto ciò lo turbava. Forse, di fronte a questa pargolina, si sentiva spinto da qualche forza soprannaturale e sovrumana a un mondo di Angioli, di Cherubini e di Ideali; e, nonostante ciò, già immaginava come potesse essere questa bambina una volta cresciuta: la fragranza dei suoi capelli lisci e corvini, sì, quei capelli che sognava di baciare o dei quali immaginava sciogliere ogni piccola treccia; la sensualità dei suoi occhi; la bellezza di quel petto contro cui il cuore prima o poi avrebbe dovuto battere cadenzato da palpiti di spirito e di carne... e chissà, forse quegli istinti sarebbero stati spesi e spremuti proprio per lui! No! no! Che vergogna pensare e immaginarsi queste cose! Perché mai rendere immonda la fanciullezza spensierata con queste immagini peccaminose?....
E poi la fanciullina, in fin dei conti, in merito a certi vivi campanilismi, era una estranea... una straniera. Benché fosse ella pure del Regno che s'era appena, appena formato, benché l'accento fosse chiaramente di quelli che tuttora si ritrovano nella parte più alta del Piemonte e che molte persone un po' più meridionali prendono sovente in giro, e benché arrivasse soltanto da quella cittadella che stava circa sei miglia più sotto, ebbene, ella era come una straniera... come se fosse arrivata dalla Svizzera, nemmeno quella del confine, ma quella del nucleo più teutonico. 
Giuocarono... sì, di questo Rodolfo si ricordava; e si rimembrava altrettanto attentamente che la fanciullina aveva espresso il fatto che si rendeva conto di essere un'estranea, una da evitare... una con la quale tutti avrebbero giuocato ma senza legami profondi e indistruttibili. Probabilmente, se fosse stato un fanciullo avrebbe spesso richiamato qualche monello dalla città e avrebbe fatto a botte con questi zoticoni di paese... Rodolfo compreso. Probabilmente, il futuro maestrino avrebbe agito in tal guisa; anche se, in realtà, non era proprio quello giusto per fare a pugni con qualcheduno.
Giuocarono, sì... ma dopo quella volta, dopo quella sera di fine agosto, in cui da entrambe le parti serpeggiavano numerose le preoccupazioni per la scuola ventura, dopo quei piccoli momenti di svago e di tensione, non si rividero mai più. Almeno, con il senno di poi e con i più dolci e amari ricordi, Rodolfo pensava che non la avrebbe mai più rivista.
Ora che si sbagliava, però, ora che aveva riconosciuto questa fanciullina in una giovine donna che tutto d'un tratto gli era apparsa in mezzo a' libri e con la quale aveva intessuto brevemente degli elogi ai volumi del Signor Nievo, queste ricordanze gli tornavano in mente tempestose, turbinose... come Furie inesorabili slanciate alla caccia da un Destino non meno misterioso e fors'anche crudele... come se tutto, fin dall'inizio, ossia fin da quell'incontro fanciullesco, fosse stato scritto... scritto a caratteri leggibili per Dio, certo, per un uomo un po' meno.
In ogni caso a Rodolfo sembrava quasi che quella volta, quella sera di fine agosto, la Vita stessa gli si fosse presentata e gli avesse destinata come compagna e sposa quella fanciullina... quella donnicciuola che adesso gli stava di fronte, e che andava ad accennare discorsi su libri e poesie. Che bellezza! Che maraviglia! Ella conosceva molto bene i versi de' bardi inglesi e gli consigliò di leggerne qualcuno; e quasi per incanto, gli parve che ella sapesse bene delle sue inclinazioni poetiche. Sì, quella sera turbolenta d'una passata e lontana estate, era interesse... era amicizia... era Amore il silenzio che intercorse tra i due bambini, ora cresciuti e ora di fronte l'uno all'altra, forse pronti e destinati a un abbraccio inesistente, a una dichiarazione fatta di mute parole. Cosa dissero e cosa avrebbero potuto dire i loro occhi in quei nuovi momenti di riscoperti legami mai esistiti, di forzato Destino, oppure, di Fatalità che li forzava nella morsa sua furiosa, nelle sue fauci dissacranti e demoniache, contrarie a Dio! Cosa disse Rodolfo con il suo sguardo, e cosa ne avrebbe potuto comprendere la giovine donna!.... E tra una piccola e breve critica letteraria e un'altra, il maestrino faceva scorrere fugacemente lo sguardo alle mani della fanciulla, analizzandole ogni dito... in cerca spasmodica e patetica, probabilmente grottesca e ridicola, di qualche pegno d'Amore altrui, d'altrui onore o impegno... d'un anello. Egli, infatti, non si sarebbe mai perdonato di amare una donna già impegnata.... Ciò, pur involontario e nato da ignoranza, sarebbe stato adulterio, un gravissimo peccato dinnanzi a Dio... e Rodolfo aveva molta fede in Dio.
Il prete del villaggio e molti compaesani, non a caso, lo vedevano forse in vesti talari... a entrare in seminario, a consacrarsi. Così anche la Signora M. la proprietaria e l'ostessa della locanda in sulla piazza, quella vicino alla chiesa, dove se un giorno vi fossero capitati de' carabinieri, più di mezza vallata sarebbe finita in prigione, tanto quel luogo era colmo di que' contrabbandieri i quali, giurando con noncurante blasfemia sulla Madonna del Sangue, si figuravano immense imprese oltre i confini. Così perfino il Signor C., un vecchio energumeno di più di ottant'anni, un gigante, diciamo, un contrabbandiere in congedo, il quale maravigliava sempre i giovinetti con la sua incantevole maestria nel maneggiare con semplicità e senza fatica tronchi per i quali la recluta più forte e prestante, al contrario, avrebbe palesato un certo imbarazzo. Ma Rodolfo, silenziosamente, senza rimostranze a costoro, o semplicemente pensando senza riscontro alcuno che queste persone stessero macchinando questi pensieri, non ne voleva poi sapere. Quante inclinazioni aveva all'Amore tra l'uomo e la donna! Quanti passati e sprecati ardori platonici! Sì... un po' gli dispiaceva non essere chiamato da Dio all'altare o al monastero. Si figurava, infatti, che la via della Consacrazione fosse la migliore per la salvezza, per farsi salvare... aveva questa malsana idea per cui un religioso, quando adempisse con semplicità a' suoi più minimi doveri, sarebbe sicuramente salvo. Ma non aveva questa vocazione; e in fin dei conti, andava bene così. 
E ora la sua inclinazione all'Amore iscoppiava prepotentemente ancora una volta nella sua vita. Infatti, quella fanciulla, quel nuovo incontro gli rimasero così impressi nella sua mente che ormai tutto ruotava intorno a questi. I suoi sogni, i suoi desideri orbitavano intorno alla giovinetta sua; i suoi respiri erano davvero respiri se degni di essere sprecati per lei... di essere consumati per sognarla di tenerla a braccetto per le vie o del villaggio o della città, di attenderla furtivamente nel crepuscolo vicino a un bosco, e contemplare con lei la bellezza del tramonto... la melanconia di quelle tinte che invadono il cielo quando il sole decide per natura di essere stanco di alluminare questa parte di mondo, e fugge altrove, pur rimanendo fermo... inesorabile, al centro di un piccolissimo e insignificante sistema... di un sistema, sì, Dio l'ha detto, che non è niente davanti all'Eternità... è pur tutto davanti a un uomo solo, ma poco di fronte a un uomo che stringe a sé la propria donna. Oh potenza dell'Amore! E Rodolfo appunto sognava... sognava il tramonto, l'Universo raccolto in un abbraccio... Iddio che si manifesta nella sua Divinità in un bacio e dice "Adoratemi nell'Amore, oh amici mortali! Accoglietemi nello schiocco silente delle labbra che si incontrano per manifestarvi, l'uno con l'altra, quel tutto me stesso che nascostamente è sempre stato ne' vostri cuori!".... Sognava, ma non agiva! Sperava, ma non combatteva!
Così passò un giorno... una settimana... un mese. Passarono i mesi. Ogni pomeriggio, ogni sera venivano da lui sprecati a cercare volontariamente un incontro... un finto incontro casuale con l'oggetto de' suoi santi desideri: e passava vanamente per la sua via, e l'attendeva vanamente per i sentieri sui quali ella moveva spesso i suoi passi, e l'attendeva di nuovo indarno presso i libri. Nulla! Niente! Lo sforzo era vano... era una Vanità assoluta.
"L'ho perduta! L'ho perduta!" allora esclamava sovente ne' più tetri e velenosi momenti di sconforto e di disperazione... "L'ho perduta!" continuava a dire e a ripetere, i suoi pensieri rivolgendo verso questa persona che, in realtà, non ebbe mai. E si disperava... e a stento fermava le lagrime agli occhi.
"L'ho perduta!" così diceva, dopo che una volta la giovinetta si era ripresentata in mezzo a' libri, ma non si trattenne più di tanto, anzi, fuggì quasi subito via indicando come cagione di tutto ciò l'incomebenza di un oneroso impegno. "L'ho perduta!" ripeteva "Del resto non è stolida, se ne sarà accorta... e non vuole aver nulla a che fare con me"... e mentre sussurrava a sé queste parole, ispirato da una forza occulta, divina o demoniaca che fosse, iniziava a scrivere - e scrisse - poesie profonde, versi in uno stile romantico che la gente eletta avvicinava a Leopardi e che avevano come tema la Gioia... la Gioia di amare, di sognare... di soffrire per tutto questo. Ma non era davvero tutto!
Ora Rodolfo le scrisse una lettera - che avendola nervosamente e stupidamente gettata in uno di que' sentieri da entrambi percorsi, a lei non pervenne mai - in cui si complimentava con lei per certi suoi dipinti ritraenti la bellezza e la serenità della Natura, nelle sue ripetute e sempre belle stagioni; ora si immaginava che ella sarebbe ritornata e allora, quando questo fosse accaduto, sarebbe stato bello metterle un'altra lettera più intima... d'Amore all'interno di un libro, consigliargli quest'ultimo... darglielo e, che Dio ne sostenga! E, ancora, non era tutto....
"Me ne impipo se a settembre inizia la scuola", "Al Demonio i mocciosi e gli ignoranti!", "Mi butti pur fuori a calci un qualche ministro", "No! No! Impegnarsi per cosa?", "E se mentre insegno, proprio in quell'istante, diavolo! ella passasse finalmente dove l'ho sempre attesa?"... queste erano frasi che ultimamente diceva tra sé, e in cuor suo aveva pure propositi di trascurare il mestiere. Rodolfo! Un tipico e proverbiale inetto a vivere... non uno scansafatiche... non uno di quelli che scaldano la propria sedia alle spalle di altri; eppure un pazzo... un folle che si ripeteva che, alla fine, il lavoro non conta niente se non si ha l'Amore. "Venga l'Amore e poi venga il lavoro"... il primo serve per vivere, il secondo per il pane. "Quale de' due è il più importante?". Oh! Certamente tutt'e due... ma un inetto questo non lo sa. In realtà, tale inetto non sa bene che è inutile sfidare il Fato, combattere contro di esso... altrimenti sarebbe un po' presuntuoso, un po' come se si stesse sfidando a duello il Demonio in persona, come se, ignorando la Croce di Cristo, si volesse conciare per le feste questo grande Accusatore... farlo a pezzi, con le proprie mani; e dire prima a se stessi poi a Dio "Ecco! Il Diavolo giace trafitto a' miei piedi!".... Oppure, sarebbe come se si stesse ergendo una spada minacciosa direttamente a un intervento della Provvidenza la quale, tante volte, è solita usarsi del Male per correggere l'uomo e riportarlo sulla buona via. No! L'inetto non sa queste cose... è una specie di mellifluo e contraddittorio egoista aperto all'Altro e alla nullificazione di se stesso... un narcisista all'incontrario... uno che non vuole godere di soffrire eppure si mette nella situazione in cui si soffre e, allora, un po' gode non dico di provare sofferenza ma di essere capace di non rifiutarla.... E Rodolfo, appunto, era un inetto!
Poi cosa dire? Nella sua inettitudine si sentiva anche un miserabile provinciale: sarà stato un maestro, un poeta... ma rimaneva uno stolto abitante di una terra montuosa e sperduta, fuori del mondo e della sua storia. Come poter tessere durature relazioni con una persona che, invece, da' suoi discorsi, traspariva aver veduta l'Europa, le grandi città... l'Inghilterra! La giovine donna, infatti, era stata ad Albione; e lì, Rodolfo la immaginava contemplare le grandi opere letterarie de' vecchi e nuovi bardi, o inchinarsi lievemente e con grazia dinnanzi al passaggio della vecchia amata Vittoria e del seguito suo che, nella vecchiaia, la sorreggeva, oppure tener salotto da qualche Lord, accanto a un'infinità di diversi sapori di Té. No! non poteva minimamente stare vicino a una persona così aperta, europea... acculturata; una persona che, se avesse ella voluto, avrebbe fors'anche fatto dell'insegnamento e della poesia di lui una totale, completa... assoluta maceria... una rovina. No! se Rodolfo fosse stato con lei, le avrebbe certamente rovinata la Vita... l'avrebbe quasi costretta, anche involontariamente, nel silenzio dell'Amore, a un'esistenza ancorata a un villaggio di due capanne e una chiesetta... alla piccolezza di un mondo sconfitto dalla contemporaneità e dal progresso... alla sua visione poetica e bucolica oramai sulla via del tramonto. No! la fanciulla aveva bisogno di incontrare un uomo di città, un grande finanziere, un ambasciatore... o un impresario... un che da Milano l'avrebbe poi portata nel cuore di Parigi, di Londra, di Vienna... di Berlino, che la avrebbe fatta conoscere ne' migliori salotti... per i più prestigiosi e nobili palchi d'Opera. Oh! se questo fosse accaduto! La giovine donna avrebbe potuto acculturarsi ancor di più, coltivare maggiormente qualche vena artistica, e riscoprirsi tra le più alte sfere che reggono l'Umanità!.... No! Rodolfo non poteva fare tutto questo tant'era piccolo e insignificante dinnanzi alla grandezza del mondo e de' suoi uomini!
E poi... tutto quell'argomento scandaloso e fonte di vergogna: i sensi, il loro appagamento! Che fare? Non si è soltanto di spirito! Da una finestra, di notte, traspare un fioco lume. E Rodolfo sa che in quella dimora abitano due nuovi sposi. Se la immagina: una finestra un poco aperta, l'oltre di quello che protegge nascosto da piccole tende; la gaiezza di due sguardi che si osservano naufragandosi l'uno con l'altro; i respiri frementi... agitati, i sospiri; parole sussurrate alle orecchie solleticate da reciproci piccoli, impercettibili morsi; petali di rosse rose al centro delle candide lenzuola; il conflitto di due Anime unite da Dio e separate da due corpi... il gentile scontro di questi ultimi... se ne va la purezza, se ne va l'Amore... Cristo di nuovo è crocifisso... è crocifisso sulla nudità di questo Adamo e di questa Eva... e attende... attende in Croce che possa risorgere da un germe... dal ventre di una donna che perderà il suo nome per farsi chiamare madre... e Cristo risorge... e poi? Tutto si ripete, ricomincia... muore di nuovo crocifisso sopra i vermi di un sepolcro. Oh Umanità! Oh Umanità! lo crocifiggi sempre questo tuo Dio! E allora, "Allontanati, Satana! Allontanati, Satana!". 
Rodolfo si concentra... fa un grande respiro, butta fuori il Demonio e torna a concentrarsi sul mestiere. Addio, Amore, per sempre! Addio, gaia felicità d'amare! Vengano gli impegni... la fatica... il sudore.... l'Amore è sconfitto!
Un giorno, dopo queste tempeste, il maestrino stava camminando in città, placido... sereno. Usciva da scuola; e la lezione da lui impartita ai monelli doveva essere andata bene. Nonostante tutto, lui sì che si impegnava, mica come altri... veri scansafatiche! A un certo punto, lungo una via, incontrò la giovine donna. Un sussulto lo irrigidì... il suo sguardo, il suo corpo... tutto di lui, anche se continuava a camminare, pareva immobilizzato... intorpidito... i suoi rigidi occhi cercavano di guardare in alto... in alto, in cielo.
"Buongiorno, Rodolfo!" gli disse la fanciulla.
"Buongiorno!" egli le rispose con la freddezza di un impiegato che fa vedere i precisi, infallibili conti della giornata al proprio capoufficio.
Egli tira dritto, non riesce nemmeno a volgere un mezzo sguardo per guardarla; ella non sembra poi così tanto colpita... accenna a un sorriso, poi prosegue... proseguono entrambi, per parti opposte. 
Il cuore di Rodolfo piangeva... ma egli non se ne accorse. Prese soltanto coscienza che un'ignobile marea oceanica di imprecazioni represse e mai dette gli scendevano dalla testa, pronte a uscire di forza dalla bocca e a scandalizzare ogni cosa. Ormai la Vita si era drammaticamente separata da lui, ormai era nell'Anima più morto che vivo; e per un'altra definitiva volta, la fanciulla per la quale distillò sogni, desideri e speranze divenne nient'altro che una comparsa... la comparsa di una Tragedia umana per cui Iddio stesso prova un'infinità di dolore.

John Maler Collier, Lady Godiva, Pre-raffaelliti, Tardo-Romanticismo e Simbolismo inglese, Seconda Metà del XIX Secolo


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Domenica VI del Mese di Ottobre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

venerdì 5 ottobre 2018

Il Lamento dell'Airone solitario

Oh come solitaria è la campagna!
Come dormono i campi appen mietuti!
Come il silenzio profondamente urla
nell'eco alterna di muti singhiozzi
da' boschi, dal ruscello, e dall'Arbogna
di fuggevoli rondini e pettirossi!....
Fuggite, oh voi! declamo, verso l'Africa
e gli eremi selvaggi, oh viaggiatori
delle vette più incognite del cielo...
fuggite! e qui lasciatemi così
mutevolmente solitario e mesto,
talvolta desiderato da' Sogni!
Lasciate la mia povera ombra oscura;
e far memoria non osate, oh piume,
di me, del pianto che sotto di voi
sovente esprimo, le làgrime amare
a stento trattenendo! E mentre errando
scorro nel regno vostro di rami e ale,
la Gioia cercando per gli stagni ornati
di cotante appassite e vecchie tife
e remiganti ninfee naufraganti
nel mio occhio avvezzo all'Autunno ruggente,
e mentre chieggo al Fato un po' di pièta,
a esser meco men crudel e men tremendo,
e mentre Sogno, oh! trattenetemi, Anime
vagabonde, nel flebile tramonto
a cui cantate, perché io possa a voi essere
testimone del vostro sonnecchiante
ultimo sonno in codeste pianure,
come voi siete ombre sopra la mia
solitudine odiata! E maledite
il mio Destino! Fate che sia mònito
a' Sognatori! E poi volate via!....
Oh come solitario m'è rimasto
dipinto con il sangue della sera
e della Notte con l'inchiostro amaro
del vecchio iris il mio campo preferito!
Come dure mi sono e ben sgradevoli
le stoppie del granoturco, e le ripe,
e le risaie prosciugate e mietute,
le quali si riposano attendendo
un lontano versorio di fatica
e di tormento! Come invecchio agli occhi
d'una mai colta Vita! E come tremo!....
Io... al centro delle fanghiglie... io, al centro
d'un campo, con il becco vergognoso
nascosto nelle mie ale... io solitario
nel vacuo spazio d'immane orizzonte...
con le zampe affogate in freddo fango...
io, che sento d'intorno rimbombar
gli ultimi spari della nuova caccia....
Oh! Potessero almeno seppellirmi
le tue mani, oh Gioia, che m'ignori e taci,
quando diman troverai camminando
un airone defunto, il cui sembiante
muta canzone ne canta per te!
O potesse un tuo bacio ridonarmi
quella Vita che questo oscuro Autunno
con i miei Sogni m'ha portato via!....
Ma la Notte sovviene... urla... ed è truce!
La Notte mi divora.

Marcus Stone, Luna di Miele, Tardo-Romanticismo e Simbolismo inglese, Seconda Metà del XIX Secolo


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Venerdì V del Mese di Ottobre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

lunedì 1 ottobre 2018

Luci del Tramonto - Sogno autunnale d'una Gioia di Vita

Melancònica e mesta mi par questa
sera; e il Tramonto co' suoi lumicini
che da lungi, da' i campi, ne sovvèngono
e da' paesi, e questa vampa rosea
che conferma del giorno il bel defùngere,
e questi oscuri muri e i tanti boschi
al par di lei una mestizia profonda
mi gridano; onde non so se l'eterno
alternàrsi di giorni e notti e aurore
non sia altro forse che un dolente mònito
di vacue cure, e vane spemi, e alterni
sì disillusi Sogni... se il furioso
Sentimento del cuor non sia altro che ombra
d'un mutèvole lume di ossa e Fato,
di Luna e Sole, a' predestinazione
incerta scosso dagli illusi corsi
della mia Vita. Ma intendo che questi
lumi del vèspero autunnale e il lor
rivèrbero irriverente su' miei occhi,
e il gelido orizzonte alluminato
per le finestre lontane, e il sussuro
rombante dei trebbiatori notturni,
pur nella nostalgia che essi mi pròvocano,
alfìn, mi danno pace. E mentre in fondo
all'ossa il primo gelo assorbo, io quella
finestra ambita vado ripensando
che la Gioia cela; e giungendo sott'essa
che è chiusa osservo, e che un dèbile lume
da lei proviene. E fuòr non v'è la Luna,
né astro che splende... e meco v'è la prima
nebbia. Così le lampe della via
s'accèndono. Ma da quella finestra
si spegne il lume. Mi sovviene un'ombra.
Mi guarda. Attende. Non scorgo il suo volto,
se rida, o pianga, o se stia incollerita.
Allora ascolto una chiave che chiude
la dolce porta... un'assenza pungente
il Desiderio a ferìr impetuosa
e cieca. Ascolto il latrato d'un cane
cui altri Cèrberi dìcon le stesse urla.
Ascolto fàrsi silenzio da' i campi,
l'ultimo volo dell'airone bianco,
il gridàr primo d'una truce nòttola,
i passi scossi dell'ultime vecchie
che vanno a cena. Ascolto il fruscìo ardente
delle lampade. Continua a guardàrmi!
Un'ombra che trapassa nella Notte,
che si confonde nelle fredde tènebre...
è un'ombra che mi guarda e poi svanisce.
Così lungo le vie de' Sogni muore
in tanta Notte, in molti ambrati lumi
l'ultima speme del mio cuor. E l'alba
verrà a darmi un dolore che è infinito.
Perdònami, oh Gioia, il gran silenzio!... àmami!

Marcus Stone, Merried for Love, Tardo-Romanticismo e Simbolismo inglese, 1881


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Lunedì I del Mese di Ottobre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

domenica 30 settembre 2018

Eine Mondschein kleine Nachtmusik - Piccola Serenata al Chiaro di Luna

Oh Luna! mia Luna! mia Gioia amica e bella!
Senti il silenzio d'un canto profano!
"Verrò di Notte... e verrò a declamare
a questa Luna, questi detti e queste
làudi!". E verrò nascosto e di lontano
nel cièl notturno d'agitato mare,
nel mattutìn ruggìr di più Tempeste.
Verrò a chièderti un bacio in tra le tènebre!
Senti il silenzio!....
Verrò a chièdere a' i pàlpiti in singhiozzo
del tuo cuòr l'ora che batte la Notte,
se a metà sia sovvenuto il suo Regno,
se vicina sia l'alba.... Verrò a urlare!....
Verrò a baciàrti ogni àttimo, ogni tempo
della tua giòvine età che ora infiora...
quel tempo che ruggente e immacolato,
muove i suoi colpi, appunto, nel tuo seno...
quell'àttimo che ride dolcemente,
pètali rossi di rose di sangue
distillando a' la Vita e a' tuoi respiri
d'Ecate e d'Erato, oh Dea splèndida e alba!
Dea di gai ardori!
Senti il silenzio!....
Verrò a dolèrmi "No! non sii crudele!
ma dammi un bacio di vino e di miele!".
Mòstrami, dunque, oh Luna, almèn un fioco
stràl di tuo volto, e d'occhio un colpo breve!
Godi d'un trobadòrico mio giuoco
che pur se è dèbile, un po' allòr t'è lieve!

William John Hennessy, The Pride of Dijon, Tardo-Romanticismo e Simbolismo inglese, 1879


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Venerdì XXVIII, Rivista in Dì di Domenica XXIX del Mese di Settembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

giovedì 27 settembre 2018

Ballata - Autunno, mi darai forse un Dì questo poco di Ebe

Autunno, mi darai forse un dì questo poco di Ebe

a dissetàr la noia?....
No! non sarà mai vino, o mosto, o Sogno
colui che riempie il nappo che trabocca.
No! non sarà l'ardore, il cuòr, la Gioia,
d'un bacio il sibilàr che lento schiocca...
non sarà mai, perché è soltanto un Sogno.
No! non sarà che un gaudio mi versa Ebe,
poi ché la Notte inghiotte nel suo mare
l'affogato momento, ora di vìvere,
e di sognare.

Autunno, mi darai forse un dì questo poco di Ebe

a dissetàr la noia?....
Ebe! Ebe! Corre saltellando ovunque
ma non si degna di riempìrmi il càlice.
Ebe! Ebe! Corre danzando e plaudendo.
Dove va? Dove va? A dimenticarmi,
forse, ahi! maledizione dell'Autunno!
E vièn la Notte: inghiotte nel suo mare
l'affogato moment, ora di vìvere,
e di sognare.

Autunno, mi darai forse un dì questo poco di Ebe
a dissetàr la noia?....
Mi darai un sorso di allegrezza e Gioia?
Ma non è l'ora, la Notte, di vìvere,
e di sognare.

Come un nàufrago brama un quieto approdo,
la trambasciata prua lasciando all'onde,
così d'avveràr i Sogni io mi rodo,
e del Destìn disfido ire profonde.
Ma intorno ho sol dell'ombre vagabonde,
e nel vagàr sfaticato e sfinito,
così mi tarda l'osservàr d'un lito;
e vièn sì forte la possa del mare.

Autunno, mi darai forse un dì questo poco di Ebe
a dissetàr la noia?....
Còlmami, Dea, oh Coppiera, di tua Gioia!
Ma non è l'ora, la Notte, di vìvere
e di sognare.

Francis Sydney Muschamp, The Music Lesson, Tardo-Romanticismo inglese, 1896



Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Giovedì XXVII del Mese di Settembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

domenica 23 settembre 2018

Idillio funebre e patetico d'Esequie all'Estate e d'Addio alla Gioia

Addio, giorno d'Estate estremo, che ombre
fuggèvoli e confuse, ombre stridenti
e spettri di soleggiate scogliere
dal màr riporti, e da' monti i lamenti
nell'eco mia indisposta e sovrumana
dei ruscelletti su cui ebbi ristoro
con le rùvide pietre e con i boschi
dal baldo Sole iniquo!
Addio, dorati campi, là percorsi
a cercàr uno sguardo di mia Gioia, 
ad attèndere forse un non costretto
appuntamento di segrete cure...
addio, campi, romìti e solitari,
e ora mietuti, sotto i miei occhi tìmidi...
ora calpesti da insani stivali, e
minacciati da falci... e fuoco e fango,
sotto il pallente Sole!
Addio, mùrmure estivo di te, Arbogna,
cui sempre ti si affacciava la Luna
nell'àttimo dov'io condividevo
a' le vie e a' tigli que' miei trobadòrici
Sogni di gaia e notturna e attesa aurora,
Sogni frementi e ripetuti e gai
a questa brama di volèr un guardo
di gaudio Sole...
di sì perduto Sole!
Addio, voi, cui nel vespro ripetevo
un giuramento arcano "Verrò!", mentre
nel vostro cuore gemente tacevo;
e cui ora imploro: "Riportàtemi, ombre,
la Gioia da cui tremendo immane Ocèano
mi separa!". Addio, oh Sole!
Addio, acerbi vigneti d'in su' i calli
maturandi d'un'Ebe ancora spoglia,
oh vergognosa, timidìssima Ebe!
che da' il carro solare vesti chiede
a Giove per ricovrìr le vergogne
e il ventre e i seni; a me contesa questa
diva coppiera dal labbro ridente
pe' i più divi convivi ove conteso
m'è Bacco, il giocoliere degli Dei,
dal Destino e dal Sole!
Addio, gustoso timo, un dì bevuto
da' labbra mie per le balze di valli,
al servizièvole àëre del Toce...
all'agèvole grido de' i torrenti...
all'incanto di vette tempestose,
addio! timo addolcito da bei fiòr...
tu, che invitante fosti al sonno e al rènder
de' i Sogni, e che là, io raccolsi, le vìpere
disfidando e il bel Sole!
Addio, tu, che so... che fingo tu legga,
che fingi su me affìggere il tuo sguardo,
Gioia... Gioia di Vita, a scàpito nascosta
della mia quèstua profana e tacente
di sacro chiasso e di baccanti grida
indarne... tu, che vagolando a' sera
mi scorgi, e che nel frattempo altri mari
varchi lontani... tu, perennemente
divisa da me per volèr del Fato,
addio! Addio, Gioia, femminile compagna
di sognatori e di viandanti e d'èremi
composti dalle sabbie degli illusi,
fèmmina desiderata dal cuore...
addio, mia Gioia! Addio, oh Sole!


Arthur Hughes ,La Belle Dame sans merci, Tardo-Romanticismo e Simbolismo inglese, 1863


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Sabato XXII del Mese di Settembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

giovedì 13 settembre 2018

Apatìa del Destino - L'Assenza della Gioia

Non ho più lèttere e sguardi di te,
non ho più un segno, o un suggello, o un sussurro,
oh Gioia; né il tuo rivèrbero a' la fiamma
della Luna si specchia tra' miei passi,
né il tuo incògnito nome or rivelato
a un sol Poeta - a me! - più riede a dìr
consolatori sussurri. E questo giorno,
e questa Notte, e il meriggio intermedio
all'àttimo de' i Sogni, mi divèntano
crudi...; e feroci e crudeli e cieche ombre
così mi inèbriano or della tua assenza,
così mi pòrtano a piàngere e a urlare...
così mi inghiòttono e poi mi beffèggiano.
A quale pena m'ha dannato il Fato!
E come vìncer potrei tal tensione
di nervi e imago, di visioni e Sogni?....
Oh Gioia, mia Gioia, melanconicamente
disvanita nell'illunità odierna,
forse perduta, cui melliflue insidie
di caste attese febbrilmente idèo...
Gioia, illune appunto, e scomparsa e nascosta,
che tanto a far men vado per miràrti
lungo il sorriso del primo mattino,
o in ver le mute membra del Tramonto...
Gioia, segreto Mistero del Poeta
a oscure rune iscritto nell'Autunno,
è così che mi lasci nel mio gèlido
dolore! E tu sei dunque la Mancanza,
e io son dunque un fremente Desiderio!

Gustave Emile Couder, Natura morta autunnale, Accademia Francese, Tardo-Romanticismo, 1899


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Giovedì XIII del Mese di Settembre, dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

mercoledì 12 settembre 2018

A un Fiorellino di Settembre

Il fior è pàllido
per la sua riva.
Dalla finestra
lo scorgo. Pàlpita,
possa corriva
d'una ginestra.

Il fior è pàllido,
e sta morendo
sotto il mio sguardo...
e, lamentàndosi,
ei sta soffrendo...
giuoca d'azzardo:

giuoca riergèndosi
contro il Destino,
contro la Vita...
sìbila... e làgrima
grida supino
a Sorte avìta...

giuoca gettàndosi
dadi mortali
sopra la tinta
d'ogni suo pètalo...
Norne fatali...
la Morte è incinta!

Il fior è pàllido,
sembra una viora,
sembra una rosa,
rossa, selvàtica...
rossa e innamora
come una sposa.

Il fior è pàllido
a fin d'Agosto
tra fràgil foglie
di pioppi, d'àcini
d'Ebe, di mosto...
d'Ebe, di doglie.

Il fior è pàllido
lungo il Tramonto,
lungo la sera
che vien sì cèlere
a far d'affronto
a' Primavera:

a strappàr, cògliere,
a consumare
davanti a' miei occhi
quel che Prosèrpina
andò a creare
con i suoi tocchi.

Il fior è pàllido
nella Natura
che sfiora e dorme
nel suo Crepùscolo,
ella! Dea pura
da mille forme.

Il fior è pàllido
lungo l'Arbogna,
per le cascine.
E i cieli mùggono
senza vergogna,
senza una fine.

Cùllalo... cùllalo,
alba d'Autunno
nunziata appena!
Cùllalo... cùllalo,
alba d'un Unno
ebbro di vena!

Ti sclamo "Cùllalo!".
Va' a obbedire,
l'òrdin fa pago
d'ogni mio pàlpito!
Fallo dormire
presso quel lago...

presso l'Ocèano
delle ninfee,
di tife fresche
che mi nascòndono
le loro Dee,
le loro tresche!

Cùllalo... cùllalo,
meriggio in Sole...
meriggio quieto
d'Estate insòlita,
ancòr di viole,
di sguardo lieto!

E fa' che io dèdichi
me stesso al volto
d'ogni tuo frutto...
che io qui mi nàufraghi
nel tuo disciolto
flusso del Tutto!....

Ch'io vada a còrrere
nell'assolute
chiome del Mondo!
Ch'io vada a cògliere
le vie perdute
d'un Vagabondo!

Ch'io vada a scòrrere
per i minuti
dell'Universo...
vada a raccògliere
i trilli acuti
d'un Fato avverso!

E fa' che io trèmulo
pianga pe' il duolo
de' biondi campi
che s'han da miètere...
pianga pe' il suolo...
pianga pe' i lampi!

Cùllami... cùllami,
lìbero cielo
co' tuo rondoni,
con le tue ròndini
sopra lo zelo
di mie canzoni!

Cùllami... cùllami,
eterno Immenso,
dolce Mistero
che vai a discèndere
al sonno intenso
tra due assi e un cero!

Cùllami... cùllami,
tomba vivente
di fiori e tane...
pesci che muòjono
nell'onda assente,
fùggon le rane!....

E fa' che dèdicansi
alle mie fami
le bacche aulenti
che qui si piègano
dagli alti rami,
preda de' venti!

E fa' che tremulo
ora assapori
questo cangiàrsi
di stagiòn, d'àttimi
privi d'allori,
di duòl cosparsi!

Il fior è pàllido
per la scogliera
d'ombre gelate....
Il fior è pàllido.
Addio, oh mia Vera!
Addio, oh mia Estate!

Edmund George Warren, Crossing the Brook, Tardo-Romanticismo inglese, 1874


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Mercoledì XII del Mese di Settembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

sabato 8 settembre 2018

Fiaba in Poesia - L'Imperatore dai Germogli di Té

Così cantava un dì il Dragòn cinese,
cantava una canzone dolce e flèbile
di prodezze e di guerra, e quiete e Amore;
cantava eterni misteri e perenni
noie, e trambasciati cuori, e afflitti volti...
e cantava... cantava;
e il cièl notturno del Catài suo immane,
cui i sacri Dei lo dièdero a custode,
e che era la sua tana e il suo dominio,
fu allòr che un giorno
di questi versi gentìl e profani...
d'immenso si coprì.
Suonate voi, oh divini flauti antichi,
che dal bambù siete stati intrecciati
da' i saggi legnaiuoli!... 
e tu, Konghoù, sì dolce arpa... deh, trilla
insièm danzando con il liuto sacro
che, con le quattro corde, inneggia a' i Numi
avìti e agli Antenati tutti! e tu,
Shèng, pìccolo lamento di tue trèdici
canne, sìbila e canta...
e il Dragòn accompagna che si cinge
di questa antica terra e gioie e dolori
a immortalàr!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che era Notte, e il cielo tetro.
Poche ore, forse, mancàvano all'alba
nuova, sì che da Levante lentamente
il celeste mantello si rischiarava,
or lasciàndolo preda delle tènebre,
ora coprèndolo appena d'un fìl
di roseo e fulvo lume.
Lì, su' i vicini monti, eterno e immòbile
l'immane muro di Cheng regnava a sòlida
difesa d'ogni sconfinato lìmite;
e da lì, appunto, venìvano tristi
e melànconiche ombre di guerrieri,
con le loro alabarde e l'alte picche,
e gli appuntiti elmetti, e le corazze
di ferree piastre ordite....
Tornàvano dalla guerra funesta,
ed èran vinti, e sgomentati... e biechi;
e l'insegne funeste èran infrante,
segno nefasto di sconfitta oscura,
vaticinio di Morte e di timori...
segno fatàl!
E dietro loro, carri atroci e bruti
procedèvano avanti,
su'i qual giacèvano i prodi eroi estinti
nel violento certame.
Allòr fu chiaro che gli Xiù-gno, i Bàrbari!
i selvaggi! i crudeli... i sanguinari!
le reali truppe massacràron tosto...
e a nulla vàlsero in sul muro i forti
balestrieri dall'arme aguzze e sacre,
a nulla gli altri arcieri...
nullo il valòr!
E sur d'un carro, or trafitto e coverto
di fanghiglie e di piaghe, ahimè! giaceva
l'Imperatore...
l'Imperatore! il nostro sacro Re,
il nostro Padre!...
e intorno stava, dolente e a cavallo,
il primo suo condottiero... e piangeva,
e ne chinava il volto, e vergognava...
e conficcata alla mancina scàpola
colma di sangue avèa una trista freccia...
e sovente guardava il corpo morto
del sacro Re, di colui che gli Dei
avèan donato a santa e saggia voce
della Volontà loro...
di colui che, guerriero, ei amò cotanto
e che ovunque servì.... E ora... ora era spento,
addormentato per sempre nel sonno
da cui non v'è risveglio,
se non là, nel Pèng-lài!....
Ma questo suo condottiero, alla fine,
benediceva d'èsser vivo ancora...
che i truci Bàrbari avèsser ucciso
altri e non lui.... E allora pensava:
la sua famiglia che avrebbe rivisto,
dopo che la abbandonò promettendo
presto ritorno e conservata Vita, e
l'ara degli Antenati cui in preghiera
si sarebbe chinato nuovamente...
a ringraziare, forse, del respiro
ancora trattenuto; e
pensava a' le figliuòle... a' le sue figlie
pìccole e care che di nuovo avrèbbero
lui chiamato "Padre"...
figlie che a' poco ne sarèbber state
pronte ad accoglièr possente marito; e
pensava a' la sua sposa, a' i baci suoi,
a' gli àttimi felici pe' i giardini
di Chang-àn.... E piangeva!....
Come poteva osare?.... Il suo signore -
appèn vicino - defunto stava...
ed ei? Pensava d'èssere scampato
a' Morte, e a' lutti altrui,
al pianto della moglie e della prole!
Oh tracotanza infame pe' un guerriero!....
Così, a lungo ei rivolse il guardo al muto
cadàvere adorato,
e per rabbia e per sdegno prese il dardo
che aveva conficcato e lo spezzò,
la metà rotta a terra rigettando
con furore irabondo.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Oh Tài-pèng... Tài-pèng! Così svelto chiuso
in terribile lutto per la Morte
del tuo signore, poscia ardita pugna
contro que' Bàrbari i quai, oltre i confini,
sereni vìvono e ignoranti e forti,
contenti di vagàr di qua e là, in questua
di nuovi pàscoli e pìccole terre!
Tài-pèng... Tài-pèng! Oh vìttima sublime
di guerre insane per rènder sicuro
il Regno che edificò Shi-Huantì, dopo
anni d'odio profondo
tra le dinastie tue!....
Oh Tài-pèng! Quanti lutti oggi hai contati?
Quante madri private de'i lòr figli
in armi corsi...
corsi a miràr se le leggende avìte
del Pèng-lài siano vere e non menzogne...
corsi a morìr!
Oh Tài-pèng! E ora chi siederà, dunque,
sul tuo trono possente?
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che l'Imperatòr aveva
un figlio, e che era giòvine e inesperto,
e a' vizi dèdito, e pronto a' la noia,
e il nome era Huen-dì.
Cantava che il giovinetto ancòr più
divenne folle, e crudo e bruto e infame
nel rimiràr il padre estinto e morto...
nel vedèrsi quel volto amato... e pàllido... e
spento... e silente per l'eternità...
nel sapèr che mai più lo avrebbe udito
contàr di leggi morali e di saggi
consigli... che mai più sarebbe stato
tra le sue braccia;
e allòr per questo lutto
ei un'immane iracòndia co' il suo Pòpolo,
ahi! l'insano! sfogò.
Imperatòr novello ei proclamato,
così le tasse alzò, e oro pretese... oro,
e ricchezze e piaceri; e non sapiente,
un Tiranno divenne, ombra di quelle
più oscene e brute...
ombra che all'ombre andò.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Oh Tài-pèng... Tài-pèng, così tristo istante
il tuo dolòr invade; e il tuo signore
di te, forse, si fa beffe e d'ischerni
insani ei dovunque il tuo fièl riempie,
e ti sogghigna!
Oh Tài-pèng, pòvera ombra di trascorse
glorie e pàllidi fasti...
ora inghiottito dal vizio e da brìvidi
di Morte atroce e d'ingiustizia infame,
Tài-pèng, che con più possa resistesti
a Notti cupe di Bàrbari e guerre... 
mìsero mio Tài-pèng!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che Huen-dì un giorno ne andò
nel meridiòn dell'Impero e che, lì,
nello Yùnnan, a riscuòter le gabelle
ei stesso ne bramava.
Per miglia e miglia si fè trasportare
su' una lettiga, e intorno, avèa gli sgherri,
i qual, a cenno suo, vessàvan spesso
i campestri villaggi.
E il Pòpolo lo odiava e 'l maledisse,
ed ei più che Imperatòr fu un bandito!....
V'era un villaggio nello Yùnnan sacro,
ove tra le risaie, in trista miseria
vivèan un padre e una giòvine figlia
che nulla... nulla dassenno avèan, sì
tanto pòveri stàvano.
E fu così che il bruto Imperatore
da costoro pretese monete e oro.
Cheng, il pòvero padre, volèa dargli
sol de' i sacchi di riso, quei che avèvano
per vìvere a giornata,
e tanto lo pregò che nulla d'altro
possedèvan; ma l'empio non credette,
e insistendo, sbraitò.
E intanto i tristi sgherri del Sovrano
sghignazzàvan contenti come ubriachi,
e minacciàvan tremende violenze
a' gli altri contadini,
i quali, in fine, il poco oro ne dièdero.
Huen-dì, però, non era pago ancora,
e ancora ansando insisteva da Cheng.
In realtà, gli credeva... 'l sapèa mìsero,
glielo vedeva da' i vestiti umìli...
da' i tessuti e stracciati e sporchi, e guerci;
ma ei aveva il desiderio sì crudele
di vessàrlo, ahi, il furioso!
E Hsi, la figlia! che pòvera fèmmina...
che mìsera creatura! Così muta,
terrorizzata in silenzio da quel 
Re così infame... da quel Re che spesso
ella in volto fissava, con le làgrime
lievemente annunziate agli occhi belli,
quasi a cercàr pietà!
E Hsi! "Chi fia costei?" chiedèa tra sè
l'Imperatore "Perché mi rivolge
quello sguardo gemente?.... Perché quasi
sento di non resìstere a tal pianto?"...
e poi risolse "Facciàmola piàngere!".
Così Huen-dì ora ordinò a' gli sgherri suoi
di prèndere quel vecchio uomo cencioso
e di portarlo in prigione a Chang-àn.
E quel che poi successe, rivòltandosi,
si rifiutò di guardare, quasi avesse
paura del cuore suo.
Infatti, brutalmente tolto via
all'abbraccio impaurito della figlia,
due alabardieri Cheng prèser con sé....
E Hsi... Hsi si buttava a loro dianzi...
in ginocchio, e 'l pregava, e pietà ambiva...
e a' le risate de' i crudeli sgherri
dicèa all'Imperatore che giammai
ei èsser poteva davvèr sì malvagio...
che non così si pingeva il Sovrano
della sua terra...
e per poco uno sgherro per zittìrla
non la frustò.
Ma, intanto, il padre, la ciurmaglia,
e tutti gli altri ora si allontanàvano;
e Hsi rimase sola...
rimase a piàngere.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Oh mìsera fanciulla! Smorta e pàllida,
condannata a soffrìr dalla sua terra...
prostrata al suolo e di cenci coverta,
con le sue gambe mezze ignude e in trèmiti, e
prementi i vermi d'un fango irrisorio,
d'un fango che la vuole
fatta di sé...
che ride e ghigna come questi sgherri
della sua povertà e del suo dolore,
del pòver padre incatenato e vecchio
il quale ora farà a piè miglia e miglia,
dalle alabarde punzecchiato... e verso
il perìcol di Morte!....
Oh mìsera fanciulla! Qui indicata
a vergogna da tutti mentre giace
a terra... e piange... e che poi tutti
abbandònano tosto!
E tu, Tài-pèng, lo tòlleri?....
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che Huen-dì fu sì colpito
da quei bei occhi di donna che bramò
prèndersi una moglie.
Ma niuna fèmmina a Chang-àn gli venne
apprezzàbile e bella
sì che più volte, per rivedèr tai occhi,
chiamava una concubina di nòbili
suoi amici, e la faceva lagrimare
a suòn d'insulti e grida.
Ma anche così non trovava èsser pago.
Allòr bandì per tutto il gran Impero
che, poiché egli cercava una fanciulla
per sposa, le fanciulle più serene
e ricche e belle, avrebbero dovuto
entro la fìn del mese
presentàrsi alla Corte, e costì fàrsi
scègliere da lui istesso.
Hsi sentì il bando che un araldo urlava,
e dopo giorni e giorni di aspro pianto
e tanta angoscia, allòr pensò d'avèr
una speme... una inqieta speme estrema
di liberàr il padre.
Si sarebbe così fatta miràr
a Corte, e appèn dinnanzi all'empio Re
gli avrebbe detto la verità ambita:
no! non era lì per èsser sua sposa,
ma per riavèr il padre!....
Eppùr v'èran problemi. Come, infatti,
poteva andàr a Corte, lei... una mìsera
fanciulla priva di tutto, che a' stento
non faceva la fame per un campo
di riso? Lei, con i vestiti sporchi
e stracciati e cenciosi?.... Lei, davanti
a un viaggio inquieto al Settentrione ignoto?....
Lei, che avrebbe dovuto a' piedi miglia
e miglia fàr... e indifesa e fanciulla?....
Ponèndosi queste domande andò
all'ara di sua madre... estinta madre...
e la pregò... la pregò di aiutarla;
e proprio mentre la pregava, a lei
sovvenne d'una vecchia e fine seta...
d'una vesta materna, non di certo
ricca, ma bella... nulla a che fàr con
la mùssola cenciosa che ora avèa;
e le sovvenne perfìn d'un lontàn
giardìn di Té selvàtico e dimèntico
a tutti.... Avrebbe offerto del Té al crudo
Imperatore?....
Eppùr in quella stagione il Té ha le foglie
ancora chiuse in càndidi germogli...
ed è inùtile forse!....
Eppure sembra argento, con la sua 
lanùggine luccicante a' le fiamme
del Sole ambrato!....
Eppure argento è quel che il Re ne brama!
"Sì!" diceva la giòvine fanciulla,
"Offrirò queste foglie al nostro Re,
e poi gli dirò il vero;
e se davvèr è nato empio e crudele,
se le sùppliche mie non vuòl intèndere,
almeno stringerò mio padre ancora
pria che su entrambi ne cada la scure
del terribile boia!".
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che la fanciulla rivolse
i piè in ver il giardìn del Té sognato,
e che qui raccoglieva ceste e ceste
di sì argentei germogli...
che Notte e giorno ivi trascorrèa sempre,
lagrimando e fremendo e pianto freddo
e sudòr caldo,
e che, a riposo della sua fatica,
ella sedèa a una roccia e il mìser flauto
suonava il cièl intenerendo ovunque...
e che nessùn osava darle aiuto,
che folle era diventata per tutti....
Ed ella raccoglieva... e raccoglieva...
eppùr in molti giorni poco avèa
colto. Tra l'altro notò che le piante
più belle e ricche èran le più lontane...
là, sulle cime scoscese e perigliose
delle piccìn montagne... là, ove pietre
e sassi e serpi facèvan paura.
Sicché un meriggio l'impresa tentò.
Hsi s'accinse così a scalàr le rocce,
ma posto màl un piede, or cadde e svenne.
Ma gli Dei la vedèvano...
gli Dei vìndici e forti del Sovrano...
i nostri Dei.
Fu allora che destàndosi si vide
intorno un'ombra istrana e àgile e scialba
la qual, quand'ella pianse, a lei vicina
si fece. Era una scimmia...
e questa scimmia, mirando le ceste
della fanciulla e i bei germogli dentro,
scattando s'arrampicò per le pietre,
e singhiozzando strìduli lamenti,
e agitàndosi un poco,
altri germogli, i migliòr, i più argentei,
raccoglieva e diggiù ogn'ora scagliava.
E sovvenne il Tramonto.
Hsi, allora, vide che la scimmia avèa
raccolti molti germogli e fu contenta,
sicché prese per mano l'animàl
e seco 'l portava a' sua capanna,
ove gli offrì dell'acqua.
Poscia raccolse in un fagotto arcano
il materno vestito,
prese un cestòn e vi versò i germogli;
poi chiudèa gli occhi,
e allòr s'addormentò.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che la fanciulla all'aurora
si destò, e che prendeva un'altra mùssola
da mèttersi sul corpo... e che, a stento
ricordando, un pugnàl si mise in cinta
che a un guerrièr nonno apparteneva un giorno.
Cantava che Hsi si mise alle spalle
il gran cestone e che la falba scimmia
in sùso vi si pose a sonnecchiàr,
forse, o a vegliàr come volèan gli Dei;
e che scalza e discinta
la giovinetta a' il viaggio ardito i piedi
volse, e alla speme estrema.
A Settentrione per tre ore al mattino,
e quattro di meriggio, ogni dì andava,
sedendo a breve a riposàr e a prènder
de' selvàtici frutti che Natura
incolta offriva, per lei e per la scimmia;
e in sulla Via di Seta, allòr che giunse,
dubbia e quesiti destando a' errabondi
mercatanti istranieri.
E fu così che verso sera, Hsi
vicina si trovò a Chàng-an, la mèta.
Il cièl si preparava al bel Tramonto,
e tra le risàie, lontano imperava,
com'àquila da'i monti, il muro immane
del Padre Cheng.
Sì... le torri possenti e gli archi e i merli
invasi stàvan dalla triste tinta
melancònica e gèlida del vespro...
quella tinta un po' sìmile a' bei pètali
di sì sfumata rosa che, tra il fulvo
del fuoco e il vello d'una arancia, il stame
erge alle nubi....
E, intorno, dalle ripe sacre al riso,
scendèvano e salìvano e volàvano
selvaggi augelli... lìberi e veloci...
lìberi di varcàr i santi lìmiti
da Cheng imposti a' generaziòn pròssime...
lìberi di solleticàr i divi
troni per l'atmosfera arcana e antica...
lìberi di sognare!
E il riso stava ancora un poco verde
sotto il cièl che piàn, piano si oscurava...
ed ergeva i sogghigni sorridenti
delle sue rane... e ripeteva l'eco...
e animava la terra co' il suo spiro....
Ed era dell'Eterno la beltà!....
Qui, Yn e Yang, come la sposa co' il marito,
s'abbracciàvano stretti, e discorrèvano,
e borbottàvano, e poi litigàvan...
e salìvano al Tàlamo,
e generàvano i figli e le figlie,
e richiamàvano i Morti dal Regno
delle Ombre. E fu Natura!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che la fanciulla d'un tratto
fu presa pe' i capèi da màn crudele, e
che quando il guardo volse, due banditi
di tergo ne notò.
Il prìm era il più vecchio, un gràn colosso,
con i capelli avvolti qual un prode,
e in màn tenèa una spada e in spalla un arco.
L'altro, invece, pareva un giovinetto,
e una balestra trèmulo puntava
a' la fanciulla.
"Dove andate a quest'ora?" chiese il veglio
il galantuòm facendo "Non sapete
che qui, per queste vie, si fan incontri
sconvenienti e fatali pe' una fèmmina?....
Vi sono in giro certi ghigni..." e rise,
"certi pedaggi da sborsàr e tosto!....
Quasi a dirvi, o il cestone o il vostro corpo!....
Mi intendete, nevvero?....
E benché siate cenciosa e misèrrima,
bella voi siete, e mostrate bellìssime
gambe... gambe che gli uòmini perduti
a vagàr per tai strade son anni e anni
che non scòrgono più....
No!" ansimò leggermente nel miràr
il pallòr della mìsera e sentendo
il suo silenzio, "No!.... Non state in trèmiti...
sapete? Sono un galantuòmo, o almeno,
il fui. E poi sono vecchio, non sòn come
questo giòvine mio compàr di forca...
ardente... bello, focoso.... Intendete?....
Se voi ci deste il vostro cestòn, giuro,
vi lasceremmo andare avanti. Adesso,
donzella, tocca a voi!".
Hsi era impaurita, e tutta si tremava,
e non sapèa che fàr. Temèa quel dardo
al suo cuòr sì puntato, e quelle verba
gentìl ma oscene temèa ancòr di più...
sì ché il vèr gli rispose, e disse "Imploro
da voi pietade!.... Sòn donna e sòn pòvera,
e questa cesta di germogli è colma
che dal Té un dì ho strappati.
Qui in pianto vago e corro in ver Chàng-àn
poiché con questo dono io vò parlàr
con il Re nostro, e intenerìrgli il cuore,
giacché egli ingiustamente il padre mio -
vessàndolo - in prigiòn lo portò un giorno.
L'Imperatore, infatti, un dì al villaggio
si portò e chiese e argento e oro e ricchezze
a noi mìseri.
Poiché non avevamo questi fasti,
ei s'adirò contro il mio vecchio padre....
E ora, vò che ei lo lìberi e me'l dìa...
per questo ho colto questo Té... poiché
comprenda che soltanto questo io posso
dargli, sprecando le mie Notti e i giorni,
e che questo è il mio argento!".
Ma a questi detti, il giòvin balestriere
a quella cesta s'avvicinò, e fatto
per afferràrla, tanto impallidì
quando la scimmia s'erse co' il suo muso...
muso che 'l minacciava.
Frattanto l'altro bandito iscoppiò
così in risate, e sogghignò irritato
"Voi?.... Pazza siete!.... Io sono Kàng, e fui
il condottièr supremo del compianto
Imperatore... del padre di questi
che ora è sol vizio" e scoperta una spalla
alla fanciulla palesò una ferita.
"Una freccia colpì il mio furòr baldo
quando i Bàrbari uccìsero il Sovrano...
e poi? Huen-dì che fa?.... Mi accusa - il bruto -
d'avèr ucciso il padre,
e imprigiona mia moglie, e le mie figlie,
e - graziàndomi - il folle mi esiliò.
Da mesi attendo da stolto bandito
la mia vendetta... raccòglier dell'oro,
e mètter su una truppa mia, e marciàr
contro il malvagio, e liberàr i miei cari,
e il Pòpol tutto....
No, mia fanciulla! Voi siete una pazza!
Huen-dì s'adirerà furiosamente,
e voi... voi, co' il vostro padre finirete
su un patìbolo osceno....
Ma se davvero siete del volèr
di proseguire, ebbèn! sappiate... fui
e sono padre. E non lascerò mai
una fanciulla sola per tal via.
Vi accompagnerò a Chàng-àn. Ma lì entràr
non potrò. A voi la scelta!"....
E la fanciulla scelse di tentàr
la bieca Sorte.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che di Kang il compàr era
un contadino. Il suo nome era Tài-zù.
Era adirato poiché il gran Sovrano,
quand'ei 'l volle, proibì la scuola ambita.
Ei, infatti, desideràva studiàr,
ma pòvero era.
A fàr il masnadièr si diede allora,
e stolto visse soffocando i Sogni.
Cantava che il guerrièr fedele Kang
colmo d'orgoglio viveva e che un giorno
disse a Hsi "Quando sarò Imperatore,
di voi mi ricorderò, e bene avrete".
"Quando sarete Imperatòr?" gli chiese
la donna. "Certo!.... Huen-dì è uno stolto morto
che per me avrà scaldato il grande trono,
sul qual farò di nuovo immane il nome
di nostra terra!".
"E se pentito fosse, neghereste
a lui il perdono?".
"Perdonàr questo cane? No... fanciulla!
Morirà tosto. Sarebbe un vigliacco
se si mostrasse pentito.... Vi pare?".
"Ma voi siete un guerrièr... un cavaliere,
e come tàl, dovete comportarvi!".
Ma Kang non sentìa ragioni e ghignava.
Viaggiàvano da molto, quando fu
che alle porte sublimi di Chàng-àn,
un funzionario imperiale fuggiva
ver la campagna...
e gridò d'aiutarlo. 
Kang impassìbile or stava e ghignante,
si ché Hsi gli diceva "Fate voi
qualcosa per quel mìsero che fugge!"...
e intanto, bande d'armati furiosi
al fuggitivo corrèvano dietro.
"Fia We-hì, nòbile amico del Sovrano"
rispose Kang "Che vada a trovàr gli Avi!".
"Ma è in perìcolo!" disse la fanciulla,
"E voi cavalièr siete. Dàtegli aiuto!".
"Ha ragione!" sclamò Tài-zù "tra l'altro,
forse, costui ci farà entrare tosto,
e accompagnerà, poi,
a Corte questa donna!".
E così Kang si convinse, e allòr corse
dietro a' i malvagi, e con le frecce acute
di Tài-zù, ebbe la meglio su que' bruti.
We-hì, allòr, lo riconobbe... ma fu grato,
e saputa ogni cosa, la fanciulla
ei accompagnò al Palazzo.
Così cantava un dì il Dragòn cinese.

Cantava che la fanciulla a Chàng-àn
entrò e verso il Palazzo si diresse.
"Sire" diceva a We-hì "non posso entràr
così vestita e sudata e cenciosa.
In questo mio fagotto ho un'altra veste,
ma... insomma... ho d'uopo d'acqua e di non èsser
vista". Allora We-hì tosto indicò
a lei una vecchia casa e le rispose:
"Nessùn vi àbita, e in cortìl v'è un fonte.
Entrate, e fate quello che dovete!".
Quando Hsi uscì era bella e lustra e monda,
e We-hì i monìli d'un'amante sua
con grazie le prestò. E giunsero a Corte!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che l'Imperatòr sen stava
crudele e furibondo in sul suo trono
e che a tremenda noia ebbe e ne trovava
le prime madamigelle che, piene
d'oro e d'argento e d'adamanti ameni,
s'èrano presentate qual volèa
l'appetitoso bando.
Quando Hsi entrò nella sala del grande
trono, co' il suo cestone ancòr in spalle
e la scimmietta,
v'èrano appunto due di queste dame...
due Persiàne, di cui una a' piedi scalzi
e a' ignudo ventre una danza faceva
che il Re colmava di furente tedio.
Tant'era, infatti, annoiato e furioso,
Huen-dì nemmèn s'accorse della nuova
donzella e del suo amico... compàr gaudio
e fedèl di convivi e d'altri vizi.
"Maestà!" sclamava We-hì... ma la fanciulla
sopravvenne e, prostràtasi in ginocchio
dinnanzi al Re, gli disse "Maestà, mio
Dio e Padre... Padre di tutto il Catài"
e ben teneva il guardo a' terra chino
che il crudo non la riconobbe ancora.
"Maestà, vedete... non sono qui sìccome
queste gran Principesse... non son qui
per supplicarvi di prèndermi sposa....".
"Proseguite, fanciulla!" ordinò l'uomo
che a fianco stava del Sovrano
e che pubblicamente gesti e voce
per tradiziòn prestava.
"Maestà, benché fingiate di ignoràr
la mia presenza e i miei detti... ascoltàtemi,
vi prego!.... Sono Hsi, una poveretta,
una fanciulla umìle.... e voglio farvi
un dono", e detto questo prese il cesto,
si mise in spalle la falba scimmietta,
tenne chinato il volto,
e lo aprì "Deh! Maestà... qui vi regàlo
questi germogli argentei di Té che io
stessa con l'aiuto di questo animàl
dalle pietre dello Yùnnan ho raccolti...
poiché soltanto questo è ciò che posso
darvi a placàr l'ingorda sete d'oro".
Udendo questi detti, le Persiane
la squadràron con sdegno e la derìsero,
mentre l'Imperatore un guardo volse
al Tè che poi voltò da un'altra parte.
"Maestà!" diceva Hsi "Prendete il dono
che vi offro e se volete, concedètemi 
una grazia.... Mio padre è qui che geme
sempre, è in prigione. Vi prego, Maestà,
liberàtelo e fàteci tornare
al nostro riso... a' le nostre capanne....
Vi prego! So che avete un cuore buono!",
e lagrimando stava,
e alzò i suoi occhi e guardò il Sovrano,
e Questi la mirò e la riconobbe:
s'alzò dal trono ma cadèr si fece
in giù, su' gli scalini... e si coprì
il volto... e pianse... pianse, come un bimbo,
pianse sentèndosi ora chiamàr buono...
pianse sentèndosi il cuòr palpitare...
pianse pensando a' i crìmini commessi,
alla memoria del nòbile padre...
pianse perché capì che intorno avèa
masnade di signoretti e madame
che dàvano il superfluo, che fingèvano
affetti e ardori... che l'or non è tutto.
We-hì era incrèdulo, incrèdule l'altre
fanciulle, le Persiane... era perplesso
il fido araldo al fianco....
E l'Imperatòr piangeva... piangeva,
e singhiozzava. 
Fu così che Hsi si alzò e gli andò presso,
si sedette vicino e lo abbracciò.
Huen-dì scoperse il volto e la fissava,
dopodiché la abbracciò anche lui e tosto
ordinò di libràrle il padre amato.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che il Sovrano volle Hsi
in sposa, e dopo mesi di giurato
Amore, la sposò; che il di lei padre
Cerimonièr di Corte ne divenne;
che Kang raggiunto fu, che gli ridiede
e moglie e figlie, e comando e bei feudi;
che Tài-zù potè studiàr finalmente;
che la pòvera gente dell'Impero
imparò a pagàr le tasse co' foglie 
e germogli di Té; e che nello Yùnnan,
tuttora, stuoli di scimmiette bianche
aiùtano gli èsseri umani a raccògliere
la divina bevanda degli Dei.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Tranquillo da Cremona, Marco Polo alla Corte del Grande Khan, Scapigliatura/Romanticismo italiani, Seconda Metà del XIX Secolo



Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Venerdì VII e di Sabato VIII del Mese di Settembre, dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.