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giovedì 23 dicembre 2021

Lo Spirito del Natale e la Fanciulla di Neve

Tanto tempo fa viveva nella steppa una fanciulla fatta di neve che, coperta con vesti di vento, di ramaglie, di foglie secche e di fiori invernali, era da tutti allontanata con il più immane disprezzo, e così avveniva perché a tutti sembrava più un prodigio mostruoso che una creatura benevola. Inoltre, poiché era appunto di neve, ella viveva sempre al freddo.. immersa nel freddo, nella bufera, nella tormenta.. in mezzo a qualche piccola foresta dove l’unica compagnia che aveva era quella dei lupi i quali, solitari e famelici, non sempre accettavano le sue carezze fredde e i suoi gelidi richiami. Per non parlare del Sole, il baldo Jarilo! Intendiamoci, non che lo disprezzasse, anzi, era davvero un bel fanciullo codesto splendore, un eroe di quelli piacevoli! ma come potete immaginare sarebbe bastato che egli schioccasse dal suo arco anche il più piccolo dardo più caldo del solito per scioglierla per sempre e, uccisa, renderla acqua; e in fin dei conti, persino al Sole.. a questo giovine Jarilo, piaceva la fanciulletta di neve. Eppure, gli era chiaro che non avrebbe mai potuto amarla, cosicché si arrese e dov’ella fosse stata, egli non avrebbe brillato.

Però, che vita insopportabile e amara! Che immensa e profonda solitudine! Con chi parlare? Con chi ridere? Con chi lanciare disfide per delle tenzoni di corsa per la foresta?... La fanciulla non aveva amici, non aveva una izba tutta sua, non aveva nulla e per di più tutti, quando la vedevano, fossero Cosacchi, Cumani o Tartari, si guardavano bene da avvicinarsela, chiudevano bene le porte con una preghiera o una bestemmia e la esorcizzavano come se si fosse trattato di un demonio.

Un giorno, che era la vigilia di Natale, mentre tutti cantavano koliadka, la povera fanciulla stava seduta su una roccia accanto a uno stagno ghiacciato e stava piangendo da molto tempo, perché voleva cantare anche lei, desiderava essere tra le fanciulle liete dei villaggi; quand’ecco d’un tratto le apparve un signore molto vecchio, vestito come un grande vescovo il quale, abbracciatola, le chiese: “Deviushka, perché piangi?”.

“Non mi vuole nessuno, Pope. Sono un mostro.. tutti si allontanano da me” rispose la fanciulla di neve con mille singhiozzi e sospiri dopo un attimo di silenzio: “Vorrei cantare anch’io.. vorrei stare in mezzo a loro.. ma tutte le volte che mi avvicino imbiancando i loro campi e le loro vie mi mandano via. Inoltre, anche se fossi tra loro, dovrei stare attenta e molto: basterebbe un raggio di Jarilo e io rimarrei senza vita”.

Deviushka” disse la strana apparizione: “Se dunque desideri stare tra loro, allora, ascoltami: oggi è la Vigilia di Natale e questa sera debbo girare il mondo intero, in lungo e in largo, per portare qualcosa ai miei poveretti. Se tu mi volessi aiutare, potresti andare da loro e, mentre dormono, portare dei doni per i loro fanciulletti. Ma attenta! Che non ti veda nessuno e non ti colga l’arco infuocato di Jarilo all’alba!”.

Sentite queste parole, la fanciulla di neve, pur titubando, trasalì e pur di vedere e di stare in mezzo a quegli esseri strani che la scacciavano sempre e ben sapendo di stare per fare dei regali a quanti la odiavano, accettò la proposta del vecchio e, preso da quest’ultimo un sacco destinato ai villaggi dei dintorni e aspettata la mezzanotte, andò di izba in izba a mettere giù dei doni per i pargoletti. 

Ma come sempre il Diavolo, geloso delle buone gesta e nemico del Natale e di Dio, vedendo la fanciulla di neve che aiutava il vecchietto e che, forse senza saperlo, stava facendo felici molti fanciullini, si mise a provocare Jarilo, in modo che egli sorgesse con il suo carro prima del dovuto e sciogliesse la poveretta una volta per tutte.

“Tu.. stella da due soldi, guerriero con un arco che non vale nemmeno quello del più sfortunato dei Tartari.. piccolo dietto da riderci sopra.. allora, sei ancora convinto di brillare più di me che per millenni ho portato la luce?”.

“Oh piccolo demonietto che da quassù sembri un mezzo granello di polvere! Perché devi sempre turbare il mio riposo?... Lo sai bene che mentre tu puoi rischiarare poco più della tua ombra io rischiaro tutte le terre”.

“Oh piccola candela da cimitero, lumicino da strapazzo! Quanto dici è una menzogna. Lo sanno tutti che io allumino ogni cosa e che, se Dio mi lasciasse stare, la mia luce rimarrebbe anche di notte. Vuoi vedere?”.

“Oh insignificante moscerino dell’Inferno! Se tu brillassi, riusciresti a fare così tanta luce a distanza di un misero piede che per leggere le tue dannate pergamene di incantesimi dovresti rubare un cero da una chiesa”.

“Dunque tu, piccolo sasso infuocato che vai a dormire appena dopo il tramonto, come fanno nei pollai, pensi che io non sia in grado di brillare più di te?... Ebbene, te ne darò sùbito dimostrazione del fatto che ti sbagli”.

Una volta che disse così, il Diavolo si concentrò così tanto da cercare di alluminarsi; ma anche dopo un’ora non riuscì a fare nient’altro che emanare una piccola, debolissima luce fredda. Ma Jarilo, contentissimo del fallimento del rivale e dimenticandosi del proprio dovere, ridendo a più non posso, scagliò sulla terra tutte le sue frecce fino a sorgere con il suo bel carro.

Nel frattempo, la fanciulla di neve, che si era accorta dell’insolito arrivo dell’alba, avendo ancora dei doni da consegnare, per non venire meno all’impegno dato al vecchio e per non far piangere gli ultimi fanciullini, continuò il suo giro per le izbe e si dimenticò di riparare nella sua piccola foresta e così mettersi in salvo.

Aveva appena finito di consegnare gli ultimi giocattoli, quando, fuori da una izba, la colse una stanchezza mai provata, si sentì addosso un fuoco insopportabile, iniziò ad avere gli occhi profondamente annebbiati e fatti due o tre passi iniziò a tentennare, a sentirsi mancare e più di una volta si figurò prossima a cadere per terra. No! Non era possibile: era inverno, doveva essere ancora notte, dovevano mancare ancora due o tre ore all’alba. Cos’era questo fuoco da Primavera? E perché, ormai, era già giorno? Perché il villaggio iniziava a risvegliarsi?... In quel momento voleva maledire se stessa e quel vecchietto, e quel dannato Natale.. voleva maledire i suoi sogni, i suoi desideri e quelle dannate canzoni che avrebbe voluto tanto cantare tra le amiche. E Jarilo?!... Come si permetteva Jarilo di fare questi scherzi?... Lo aveva sempre saputo che Jarilo in realtà la disprezzava come tutti gli altri. Miserabile Jarilo! Ora la stava uccidendo e forse il suo regno.. il regno della Primavera e dell’Estate, voleva conquistare l’Inverno, probabilmente anche quello dell’immortale Katscheij, l’Autunno nebbioso e melanconico. Miserabile! Miserabili tutti!

Ma a un certo punto la fanciulla di neve, mentre aveva nel cuore tutto questo malessere e questi sentimenti, iniziò a sentire le grida di gioia dei fanciulli, i canti dei Cosacchi, le campane che martellavano a festa. Si avvicinò a una finestra, guardò dentro.. vide dei volti festosi e sorridenti… E poi.. si sciolse.

Dio stesso, dopo aver visto tutto questo, si arrabbiò molto con Jarilo e con il Diavolo e impose al primo di rispettare le stagioni e le ore del giorno, lo obbligò a ritirarsi per un po’.. per un mese e di far nevicare; al secondo ordinò di ritornare all’Inferno e di rinunziare per un anno intero a sedurre e a insidiare quelle terre. Guai se non lo avesse fatto! Lo avrebbe fatto bastonare dai suoi Angioli!... Poi, Dio chiamò il suo vecchio vescovo e si volle far spiegare meglio ogni cosa.

Era la sera di Natale quando in un villaggio nella steppa innevata apparve una fanciulla bellissima, in carne e ossa, pronta a imparare dei koliadka, ad avere amici, a vivere e ad amare.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Giovedì XXIII Dicembre AD MMXXI.

In Memoria dei Maestri Piotr Il’ic Tchaikowskij (1840-1893) e Nikolaij Andreevic Rimskij-Korsakov (1844-1908).


Dipinto di Viktor Mikhailovich Vasnetsov (1848–1926), Snegurochka - La Fanciulla di Neve, Tardo-Romanticismo, Accademismo, Simbolismo russo, 1899. Olio su Tela, 116x80 cm. State Tretyakov Gallery, Mosca (Russia).

sabato 8 settembre 2018

Fiaba in Poesia - L'Imperatore dai Germogli di Té

Così cantava un dì il Dragòn cinese,
cantava una canzone dolce e flèbile
di prodezze e di guerra, e quiete e Amore;
cantava eterni misteri e perenni
noie, e trambasciati cuori, e afflitti volti...
e cantava... cantava;
e il cièl notturno del Catài suo immane,
cui i sacri Dei lo dièdero a custode,
e che era la sua tana e il suo dominio,
fu allòr che un giorno
di questi versi gentìl e profani...
d'immenso si coprì.
Suonate voi, oh divini flauti antichi,
che dal bambù siete stati intrecciati
da' i saggi legnaiuoli!... 
e tu, Konghoù, sì dolce arpa... deh, trilla
insièm danzando con il liuto sacro
che, con le quattro corde, inneggia a' i Numi
avìti e agli Antenati tutti! e tu,
Shèng, pìccolo lamento di tue trèdici
canne, sìbila e canta...
e il Dragòn accompagna che si cinge
di questa antica terra e gioie e dolori
a immortalàr!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che era Notte, e il cielo tetro.
Poche ore, forse, mancàvano all'alba
nuova, sì che da Levante lentamente
il celeste mantello si rischiarava,
or lasciàndolo preda delle tènebre,
ora coprèndolo appena d'un fìl
di roseo e fulvo lume.
Lì, su' i vicini monti, eterno e immòbile
l'immane muro di Cheng regnava a sòlida
difesa d'ogni sconfinato lìmite;
e da lì, appunto, venìvano tristi
e melànconiche ombre di guerrieri,
con le loro alabarde e l'alte picche,
e gli appuntiti elmetti, e le corazze
di ferree piastre ordite....
Tornàvano dalla guerra funesta,
ed èran vinti, e sgomentati... e biechi;
e l'insegne funeste èran infrante,
segno nefasto di sconfitta oscura,
vaticinio di Morte e di timori...
segno fatàl!
E dietro loro, carri atroci e bruti
procedèvano avanti,
su'i qual giacèvano i prodi eroi estinti
nel violento certame.
Allòr fu chiaro che gli Xiù-gno, i Bàrbari!
i selvaggi! i crudeli... i sanguinari!
le reali truppe massacràron tosto...
e a nulla vàlsero in sul muro i forti
balestrieri dall'arme aguzze e sacre,
a nulla gli altri arcieri...
nullo il valòr!
E sur d'un carro, or trafitto e coverto
di fanghiglie e di piaghe, ahimè! giaceva
l'Imperatore...
l'Imperatore! il nostro sacro Re,
il nostro Padre!...
e intorno stava, dolente e a cavallo,
il primo suo condottiero... e piangeva,
e ne chinava il volto, e vergognava...
e conficcata alla mancina scàpola
colma di sangue avèa una trista freccia...
e sovente guardava il corpo morto
del sacro Re, di colui che gli Dei
avèan donato a santa e saggia voce
della Volontà loro...
di colui che, guerriero, ei amò cotanto
e che ovunque servì.... E ora... ora era spento,
addormentato per sempre nel sonno
da cui non v'è risveglio,
se non là, nel Pèng-lài!....
Ma questo suo condottiero, alla fine,
benediceva d'èsser vivo ancora...
che i truci Bàrbari avèsser ucciso
altri e non lui.... E allora pensava:
la sua famiglia che avrebbe rivisto,
dopo che la abbandonò promettendo
presto ritorno e conservata Vita, e
l'ara degli Antenati cui in preghiera
si sarebbe chinato nuovamente...
a ringraziare, forse, del respiro
ancora trattenuto; e
pensava a' le figliuòle... a' le sue figlie
pìccole e care che di nuovo avrèbbero
lui chiamato "Padre"...
figlie che a' poco ne sarèbber state
pronte ad accoglièr possente marito; e
pensava a' la sua sposa, a' i baci suoi,
a' gli àttimi felici pe' i giardini
di Chang-àn.... E piangeva!....
Come poteva osare?.... Il suo signore -
appèn vicino - defunto stava...
ed ei? Pensava d'èssere scampato
a' Morte, e a' lutti altrui,
al pianto della moglie e della prole!
Oh tracotanza infame pe' un guerriero!....
Così, a lungo ei rivolse il guardo al muto
cadàvere adorato,
e per rabbia e per sdegno prese il dardo
che aveva conficcato e lo spezzò,
la metà rotta a terra rigettando
con furore irabondo.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Oh Tài-pèng... Tài-pèng! Così svelto chiuso
in terribile lutto per la Morte
del tuo signore, poscia ardita pugna
contro que' Bàrbari i quai, oltre i confini,
sereni vìvono e ignoranti e forti,
contenti di vagàr di qua e là, in questua
di nuovi pàscoli e pìccole terre!
Tài-pèng... Tài-pèng! Oh vìttima sublime
di guerre insane per rènder sicuro
il Regno che edificò Shi-Huantì, dopo
anni d'odio profondo
tra le dinastie tue!....
Oh Tài-pèng! Quanti lutti oggi hai contati?
Quante madri private de'i lòr figli
in armi corsi...
corsi a miràr se le leggende avìte
del Pèng-lài siano vere e non menzogne...
corsi a morìr!
Oh Tài-pèng! E ora chi siederà, dunque,
sul tuo trono possente?
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che l'Imperatòr aveva
un figlio, e che era giòvine e inesperto,
e a' vizi dèdito, e pronto a' la noia,
e il nome era Huen-dì.
Cantava che il giovinetto ancòr più
divenne folle, e crudo e bruto e infame
nel rimiràr il padre estinto e morto...
nel vedèrsi quel volto amato... e pàllido... e
spento... e silente per l'eternità...
nel sapèr che mai più lo avrebbe udito
contàr di leggi morali e di saggi
consigli... che mai più sarebbe stato
tra le sue braccia;
e allòr per questo lutto
ei un'immane iracòndia co' il suo Pòpolo,
ahi! l'insano! sfogò.
Imperatòr novello ei proclamato,
così le tasse alzò, e oro pretese... oro,
e ricchezze e piaceri; e non sapiente,
un Tiranno divenne, ombra di quelle
più oscene e brute...
ombra che all'ombre andò.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Oh Tài-pèng... Tài-pèng, così tristo istante
il tuo dolòr invade; e il tuo signore
di te, forse, si fa beffe e d'ischerni
insani ei dovunque il tuo fièl riempie,
e ti sogghigna!
Oh Tài-pèng, pòvera ombra di trascorse
glorie e pàllidi fasti...
ora inghiottito dal vizio e da brìvidi
di Morte atroce e d'ingiustizia infame,
Tài-pèng, che con più possa resistesti
a Notti cupe di Bàrbari e guerre... 
mìsero mio Tài-pèng!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che Huen-dì un giorno ne andò
nel meridiòn dell'Impero e che, lì,
nello Yùnnan, a riscuòter le gabelle
ei stesso ne bramava.
Per miglia e miglia si fè trasportare
su' una lettiga, e intorno, avèa gli sgherri,
i qual, a cenno suo, vessàvan spesso
i campestri villaggi.
E il Pòpolo lo odiava e 'l maledisse,
ed ei più che Imperatòr fu un bandito!....
V'era un villaggio nello Yùnnan sacro,
ove tra le risaie, in trista miseria
vivèan un padre e una giòvine figlia
che nulla... nulla dassenno avèan, sì
tanto pòveri stàvano.
E fu così che il bruto Imperatore
da costoro pretese monete e oro.
Cheng, il pòvero padre, volèa dargli
sol de' i sacchi di riso, quei che avèvano
per vìvere a giornata,
e tanto lo pregò che nulla d'altro
possedèvan; ma l'empio non credette,
e insistendo, sbraitò.
E intanto i tristi sgherri del Sovrano
sghignazzàvan contenti come ubriachi,
e minacciàvan tremende violenze
a' gli altri contadini,
i quali, in fine, il poco oro ne dièdero.
Huen-dì, però, non era pago ancora,
e ancora ansando insisteva da Cheng.
In realtà, gli credeva... 'l sapèa mìsero,
glielo vedeva da' i vestiti umìli...
da' i tessuti e stracciati e sporchi, e guerci;
ma ei aveva il desiderio sì crudele
di vessàrlo, ahi, il furioso!
E Hsi, la figlia! che pòvera fèmmina...
che mìsera creatura! Così muta,
terrorizzata in silenzio da quel 
Re così infame... da quel Re che spesso
ella in volto fissava, con le làgrime
lievemente annunziate agli occhi belli,
quasi a cercàr pietà!
E Hsi! "Chi fia costei?" chiedèa tra sè
l'Imperatore "Perché mi rivolge
quello sguardo gemente?.... Perché quasi
sento di non resìstere a tal pianto?"...
e poi risolse "Facciàmola piàngere!".
Così Huen-dì ora ordinò a' gli sgherri suoi
di prèndere quel vecchio uomo cencioso
e di portarlo in prigione a Chang-àn.
E quel che poi successe, rivòltandosi,
si rifiutò di guardare, quasi avesse
paura del cuore suo.
Infatti, brutalmente tolto via
all'abbraccio impaurito della figlia,
due alabardieri Cheng prèser con sé....
E Hsi... Hsi si buttava a loro dianzi...
in ginocchio, e 'l pregava, e pietà ambiva...
e a' le risate de' i crudeli sgherri
dicèa all'Imperatore che giammai
ei èsser poteva davvèr sì malvagio...
che non così si pingeva il Sovrano
della sua terra...
e per poco uno sgherro per zittìrla
non la frustò.
Ma, intanto, il padre, la ciurmaglia,
e tutti gli altri ora si allontanàvano;
e Hsi rimase sola...
rimase a piàngere.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Oh mìsera fanciulla! Smorta e pàllida,
condannata a soffrìr dalla sua terra...
prostrata al suolo e di cenci coverta,
con le sue gambe mezze ignude e in trèmiti, e
prementi i vermi d'un fango irrisorio,
d'un fango che la vuole
fatta di sé...
che ride e ghigna come questi sgherri
della sua povertà e del suo dolore,
del pòver padre incatenato e vecchio
il quale ora farà a piè miglia e miglia,
dalle alabarde punzecchiato... e verso
il perìcol di Morte!....
Oh mìsera fanciulla! Qui indicata
a vergogna da tutti mentre giace
a terra... e piange... e che poi tutti
abbandònano tosto!
E tu, Tài-pèng, lo tòlleri?....
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che Huen-dì fu sì colpito
da quei bei occhi di donna che bramò
prèndersi una moglie.
Ma niuna fèmmina a Chang-àn gli venne
apprezzàbile e bella
sì che più volte, per rivedèr tai occhi,
chiamava una concubina di nòbili
suoi amici, e la faceva lagrimare
a suòn d'insulti e grida.
Ma anche così non trovava èsser pago.
Allòr bandì per tutto il gran Impero
che, poiché egli cercava una fanciulla
per sposa, le fanciulle più serene
e ricche e belle, avrebbero dovuto
entro la fìn del mese
presentàrsi alla Corte, e costì fàrsi
scègliere da lui istesso.
Hsi sentì il bando che un araldo urlava,
e dopo giorni e giorni di aspro pianto
e tanta angoscia, allòr pensò d'avèr
una speme... una inqieta speme estrema
di liberàr il padre.
Si sarebbe così fatta miràr
a Corte, e appèn dinnanzi all'empio Re
gli avrebbe detto la verità ambita:
no! non era lì per èsser sua sposa,
ma per riavèr il padre!....
Eppùr v'èran problemi. Come, infatti,
poteva andàr a Corte, lei... una mìsera
fanciulla priva di tutto, che a' stento
non faceva la fame per un campo
di riso? Lei, con i vestiti sporchi
e stracciati e cenciosi?.... Lei, davanti
a un viaggio inquieto al Settentrione ignoto?....
Lei, che avrebbe dovuto a' piedi miglia
e miglia fàr... e indifesa e fanciulla?....
Ponèndosi queste domande andò
all'ara di sua madre... estinta madre...
e la pregò... la pregò di aiutarla;
e proprio mentre la pregava, a lei
sovvenne d'una vecchia e fine seta...
d'una vesta materna, non di certo
ricca, ma bella... nulla a che fàr con
la mùssola cenciosa che ora avèa;
e le sovvenne perfìn d'un lontàn
giardìn di Té selvàtico e dimèntico
a tutti.... Avrebbe offerto del Té al crudo
Imperatore?....
Eppùr in quella stagione il Té ha le foglie
ancora chiuse in càndidi germogli...
ed è inùtile forse!....
Eppure sembra argento, con la sua 
lanùggine luccicante a' le fiamme
del Sole ambrato!....
Eppure argento è quel che il Re ne brama!
"Sì!" diceva la giòvine fanciulla,
"Offrirò queste foglie al nostro Re,
e poi gli dirò il vero;
e se davvèr è nato empio e crudele,
se le sùppliche mie non vuòl intèndere,
almeno stringerò mio padre ancora
pria che su entrambi ne cada la scure
del terribile boia!".
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che la fanciulla rivolse
i piè in ver il giardìn del Té sognato,
e che qui raccoglieva ceste e ceste
di sì argentei germogli...
che Notte e giorno ivi trascorrèa sempre,
lagrimando e fremendo e pianto freddo
e sudòr caldo,
e che, a riposo della sua fatica,
ella sedèa a una roccia e il mìser flauto
suonava il cièl intenerendo ovunque...
e che nessùn osava darle aiuto,
che folle era diventata per tutti....
Ed ella raccoglieva... e raccoglieva...
eppùr in molti giorni poco avèa
colto. Tra l'altro notò che le piante
più belle e ricche èran le più lontane...
là, sulle cime scoscese e perigliose
delle piccìn montagne... là, ove pietre
e sassi e serpi facèvan paura.
Sicché un meriggio l'impresa tentò.
Hsi s'accinse così a scalàr le rocce,
ma posto màl un piede, or cadde e svenne.
Ma gli Dei la vedèvano...
gli Dei vìndici e forti del Sovrano...
i nostri Dei.
Fu allora che destàndosi si vide
intorno un'ombra istrana e àgile e scialba
la qual, quand'ella pianse, a lei vicina
si fece. Era una scimmia...
e questa scimmia, mirando le ceste
della fanciulla e i bei germogli dentro,
scattando s'arrampicò per le pietre,
e singhiozzando strìduli lamenti,
e agitàndosi un poco,
altri germogli, i migliòr, i più argentei,
raccoglieva e diggiù ogn'ora scagliava.
E sovvenne il Tramonto.
Hsi, allora, vide che la scimmia avèa
raccolti molti germogli e fu contenta,
sicché prese per mano l'animàl
e seco 'l portava a' sua capanna,
ove gli offrì dell'acqua.
Poscia raccolse in un fagotto arcano
il materno vestito,
prese un cestòn e vi versò i germogli;
poi chiudèa gli occhi,
e allòr s'addormentò.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che la fanciulla all'aurora
si destò, e che prendeva un'altra mùssola
da mèttersi sul corpo... e che, a stento
ricordando, un pugnàl si mise in cinta
che a un guerrièr nonno apparteneva un giorno.
Cantava che Hsi si mise alle spalle
il gran cestone e che la falba scimmia
in sùso vi si pose a sonnecchiàr,
forse, o a vegliàr come volèan gli Dei;
e che scalza e discinta
la giovinetta a' il viaggio ardito i piedi
volse, e alla speme estrema.
A Settentrione per tre ore al mattino,
e quattro di meriggio, ogni dì andava,
sedendo a breve a riposàr e a prènder
de' selvàtici frutti che Natura
incolta offriva, per lei e per la scimmia;
e in sulla Via di Seta, allòr che giunse,
dubbia e quesiti destando a' errabondi
mercatanti istranieri.
E fu così che verso sera, Hsi
vicina si trovò a Chàng-an, la mèta.
Il cièl si preparava al bel Tramonto,
e tra le risàie, lontano imperava,
com'àquila da'i monti, il muro immane
del Padre Cheng.
Sì... le torri possenti e gli archi e i merli
invasi stàvan dalla triste tinta
melancònica e gèlida del vespro...
quella tinta un po' sìmile a' bei pètali
di sì sfumata rosa che, tra il fulvo
del fuoco e il vello d'una arancia, il stame
erge alle nubi....
E, intorno, dalle ripe sacre al riso,
scendèvano e salìvano e volàvano
selvaggi augelli... lìberi e veloci...
lìberi di varcàr i santi lìmiti
da Cheng imposti a' generaziòn pròssime...
lìberi di solleticàr i divi
troni per l'atmosfera arcana e antica...
lìberi di sognare!
E il riso stava ancora un poco verde
sotto il cièl che piàn, piano si oscurava...
ed ergeva i sogghigni sorridenti
delle sue rane... e ripeteva l'eco...
e animava la terra co' il suo spiro....
Ed era dell'Eterno la beltà!....
Qui, Yn e Yang, come la sposa co' il marito,
s'abbracciàvano stretti, e discorrèvano,
e borbottàvano, e poi litigàvan...
e salìvano al Tàlamo,
e generàvano i figli e le figlie,
e richiamàvano i Morti dal Regno
delle Ombre. E fu Natura!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che la fanciulla d'un tratto
fu presa pe' i capèi da màn crudele, e
che quando il guardo volse, due banditi
di tergo ne notò.
Il prìm era il più vecchio, un gràn colosso,
con i capelli avvolti qual un prode,
e in màn tenèa una spada e in spalla un arco.
L'altro, invece, pareva un giovinetto,
e una balestra trèmulo puntava
a' la fanciulla.
"Dove andate a quest'ora?" chiese il veglio
il galantuòm facendo "Non sapete
che qui, per queste vie, si fan incontri
sconvenienti e fatali pe' una fèmmina?....
Vi sono in giro certi ghigni..." e rise,
"certi pedaggi da sborsàr e tosto!....
Quasi a dirvi, o il cestone o il vostro corpo!....
Mi intendete, nevvero?....
E benché siate cenciosa e misèrrima,
bella voi siete, e mostrate bellìssime
gambe... gambe che gli uòmini perduti
a vagàr per tai strade son anni e anni
che non scòrgono più....
No!" ansimò leggermente nel miràr
il pallòr della mìsera e sentendo
il suo silenzio, "No!.... Non state in trèmiti...
sapete? Sono un galantuòmo, o almeno,
il fui. E poi sono vecchio, non sòn come
questo giòvine mio compàr di forca...
ardente... bello, focoso.... Intendete?....
Se voi ci deste il vostro cestòn, giuro,
vi lasceremmo andare avanti. Adesso,
donzella, tocca a voi!".
Hsi era impaurita, e tutta si tremava,
e non sapèa che fàr. Temèa quel dardo
al suo cuòr sì puntato, e quelle verba
gentìl ma oscene temèa ancòr di più...
sì ché il vèr gli rispose, e disse "Imploro
da voi pietade!.... Sòn donna e sòn pòvera,
e questa cesta di germogli è colma
che dal Té un dì ho strappati.
Qui in pianto vago e corro in ver Chàng-àn
poiché con questo dono io vò parlàr
con il Re nostro, e intenerìrgli il cuore,
giacché egli ingiustamente il padre mio -
vessàndolo - in prigiòn lo portò un giorno.
L'Imperatore, infatti, un dì al villaggio
si portò e chiese e argento e oro e ricchezze
a noi mìseri.
Poiché non avevamo questi fasti,
ei s'adirò contro il mio vecchio padre....
E ora, vò che ei lo lìberi e me'l dìa...
per questo ho colto questo Té... poiché
comprenda che soltanto questo io posso
dargli, sprecando le mie Notti e i giorni,
e che questo è il mio argento!".
Ma a questi detti, il giòvin balestriere
a quella cesta s'avvicinò, e fatto
per afferràrla, tanto impallidì
quando la scimmia s'erse co' il suo muso...
muso che 'l minacciava.
Frattanto l'altro bandito iscoppiò
così in risate, e sogghignò irritato
"Voi?.... Pazza siete!.... Io sono Kàng, e fui
il condottièr supremo del compianto
Imperatore... del padre di questi
che ora è sol vizio" e scoperta una spalla
alla fanciulla palesò una ferita.
"Una freccia colpì il mio furòr baldo
quando i Bàrbari uccìsero il Sovrano...
e poi? Huen-dì che fa?.... Mi accusa - il bruto -
d'avèr ucciso il padre,
e imprigiona mia moglie, e le mie figlie,
e - graziàndomi - il folle mi esiliò.
Da mesi attendo da stolto bandito
la mia vendetta... raccòglier dell'oro,
e mètter su una truppa mia, e marciàr
contro il malvagio, e liberàr i miei cari,
e il Pòpol tutto....
No, mia fanciulla! Voi siete una pazza!
Huen-dì s'adirerà furiosamente,
e voi... voi, co' il vostro padre finirete
su un patìbolo osceno....
Ma se davvero siete del volèr
di proseguire, ebbèn! sappiate... fui
e sono padre. E non lascerò mai
una fanciulla sola per tal via.
Vi accompagnerò a Chàng-àn. Ma lì entràr
non potrò. A voi la scelta!"....
E la fanciulla scelse di tentàr
la bieca Sorte.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che di Kang il compàr era
un contadino. Il suo nome era Tài-zù.
Era adirato poiché il gran Sovrano,
quand'ei 'l volle, proibì la scuola ambita.
Ei, infatti, desideràva studiàr,
ma pòvero era.
A fàr il masnadièr si diede allora,
e stolto visse soffocando i Sogni.
Cantava che il guerrièr fedele Kang
colmo d'orgoglio viveva e che un giorno
disse a Hsi "Quando sarò Imperatore,
di voi mi ricorderò, e bene avrete".
"Quando sarete Imperatòr?" gli chiese
la donna. "Certo!.... Huen-dì è uno stolto morto
che per me avrà scaldato il grande trono,
sul qual farò di nuovo immane il nome
di nostra terra!".
"E se pentito fosse, neghereste
a lui il perdono?".
"Perdonàr questo cane? No... fanciulla!
Morirà tosto. Sarebbe un vigliacco
se si mostrasse pentito.... Vi pare?".
"Ma voi siete un guerrièr... un cavaliere,
e come tàl, dovete comportarvi!".
Ma Kang non sentìa ragioni e ghignava.
Viaggiàvano da molto, quando fu
che alle porte sublimi di Chàng-àn,
un funzionario imperiale fuggiva
ver la campagna...
e gridò d'aiutarlo. 
Kang impassìbile or stava e ghignante,
si ché Hsi gli diceva "Fate voi
qualcosa per quel mìsero che fugge!"...
e intanto, bande d'armati furiosi
al fuggitivo corrèvano dietro.
"Fia We-hì, nòbile amico del Sovrano"
rispose Kang "Che vada a trovàr gli Avi!".
"Ma è in perìcolo!" disse la fanciulla,
"E voi cavalièr siete. Dàtegli aiuto!".
"Ha ragione!" sclamò Tài-zù "tra l'altro,
forse, costui ci farà entrare tosto,
e accompagnerà, poi,
a Corte questa donna!".
E così Kang si convinse, e allòr corse
dietro a' i malvagi, e con le frecce acute
di Tài-zù, ebbe la meglio su que' bruti.
We-hì, allòr, lo riconobbe... ma fu grato,
e saputa ogni cosa, la fanciulla
ei accompagnò al Palazzo.
Così cantava un dì il Dragòn cinese.

Cantava che la fanciulla a Chàng-àn
entrò e verso il Palazzo si diresse.
"Sire" diceva a We-hì "non posso entràr
così vestita e sudata e cenciosa.
In questo mio fagotto ho un'altra veste,
ma... insomma... ho d'uopo d'acqua e di non èsser
vista". Allora We-hì tosto indicò
a lei una vecchia casa e le rispose:
"Nessùn vi àbita, e in cortìl v'è un fonte.
Entrate, e fate quello che dovete!".
Quando Hsi uscì era bella e lustra e monda,
e We-hì i monìli d'un'amante sua
con grazie le prestò. E giunsero a Corte!
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che l'Imperatòr sen stava
crudele e furibondo in sul suo trono
e che a tremenda noia ebbe e ne trovava
le prime madamigelle che, piene
d'oro e d'argento e d'adamanti ameni,
s'èrano presentate qual volèa
l'appetitoso bando.
Quando Hsi entrò nella sala del grande
trono, co' il suo cestone ancòr in spalle
e la scimmietta,
v'èrano appunto due di queste dame...
due Persiàne, di cui una a' piedi scalzi
e a' ignudo ventre una danza faceva
che il Re colmava di furente tedio.
Tant'era, infatti, annoiato e furioso,
Huen-dì nemmèn s'accorse della nuova
donzella e del suo amico... compàr gaudio
e fedèl di convivi e d'altri vizi.
"Maestà!" sclamava We-hì... ma la fanciulla
sopravvenne e, prostràtasi in ginocchio
dinnanzi al Re, gli disse "Maestà, mio
Dio e Padre... Padre di tutto il Catài"
e ben teneva il guardo a' terra chino
che il crudo non la riconobbe ancora.
"Maestà, vedete... non sono qui sìccome
queste gran Principesse... non son qui
per supplicarvi di prèndermi sposa....".
"Proseguite, fanciulla!" ordinò l'uomo
che a fianco stava del Sovrano
e che pubblicamente gesti e voce
per tradiziòn prestava.
"Maestà, benché fingiate di ignoràr
la mia presenza e i miei detti... ascoltàtemi,
vi prego!.... Sono Hsi, una poveretta,
una fanciulla umìle.... e voglio farvi
un dono", e detto questo prese il cesto,
si mise in spalle la falba scimmietta,
tenne chinato il volto,
e lo aprì "Deh! Maestà... qui vi regàlo
questi germogli argentei di Té che io
stessa con l'aiuto di questo animàl
dalle pietre dello Yùnnan ho raccolti...
poiché soltanto questo è ciò che posso
darvi a placàr l'ingorda sete d'oro".
Udendo questi detti, le Persiane
la squadràron con sdegno e la derìsero,
mentre l'Imperatore un guardo volse
al Tè che poi voltò da un'altra parte.
"Maestà!" diceva Hsi "Prendete il dono
che vi offro e se volete, concedètemi 
una grazia.... Mio padre è qui che geme
sempre, è in prigione. Vi prego, Maestà,
liberàtelo e fàteci tornare
al nostro riso... a' le nostre capanne....
Vi prego! So che avete un cuore buono!",
e lagrimando stava,
e alzò i suoi occhi e guardò il Sovrano,
e Questi la mirò e la riconobbe:
s'alzò dal trono ma cadèr si fece
in giù, su' gli scalini... e si coprì
il volto... e pianse... pianse, come un bimbo,
pianse sentèndosi ora chiamàr buono...
pianse sentèndosi il cuòr palpitare...
pianse pensando a' i crìmini commessi,
alla memoria del nòbile padre...
pianse perché capì che intorno avèa
masnade di signoretti e madame
che dàvano il superfluo, che fingèvano
affetti e ardori... che l'or non è tutto.
We-hì era incrèdulo, incrèdule l'altre
fanciulle, le Persiane... era perplesso
il fido araldo al fianco....
E l'Imperatòr piangeva... piangeva,
e singhiozzava. 
Fu così che Hsi si alzò e gli andò presso,
si sedette vicino e lo abbracciò.
Huen-dì scoperse il volto e la fissava,
dopodiché la abbracciò anche lui e tosto
ordinò di libràrle il padre amato.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Cantava che il Sovrano volle Hsi
in sposa, e dopo mesi di giurato
Amore, la sposò; che il di lei padre
Cerimonièr di Corte ne divenne;
che Kang raggiunto fu, che gli ridiede
e moglie e figlie, e comando e bei feudi;
che Tài-zù potè studiàr finalmente;
che la pòvera gente dell'Impero
imparò a pagàr le tasse co' foglie 
e germogli di Té; e che nello Yùnnan,
tuttora, stuoli di scimmiette bianche
aiùtano gli èsseri umani a raccògliere
la divina bevanda degli Dei.
Così cantava un dì il Dragòn cinese!

Tranquillo da Cremona, Marco Polo alla Corte del Grande Khan, Scapigliatura/Romanticismo italiani, Seconda Metà del XIX Secolo



Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Venerdì VII e di Sabato VIII del Mese di Settembre, dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.