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lunedì 5 settembre 2016

Sabato

Fu il falò, e si erse - ei di fiamme è il Titàno -
lungo i crinàl del cielo
per la soletta via
della chiesetta antica di Maria,
mentre d’intorno alle campagne un dì
io sedèa a contemplàr i pioppi e i pini,
in su’ i tetti i camini,
che facèvan un’ombra di inchiostro
sopra l’erbe del mosto,
un brìndis alla corte del vecchietto
domenicano che fu il monastero,
lontano il cimitero,
vicini i campi, i boschi e i ruscelletti
al cantare degli ùltimi augelletti,
laddove ignuda riposa l’Arbogna,
senza vergogna;
e venne il tempo di gettàr nel fuoco
i secchi rami dell’incolto prato.
Ma il guardo io volsi alla chiesetta mia,
e mentre mi suonò un’Ave Maria
pensai… sognai:
colsi la nudità di una fanciulla,
la Natura co’ il suo ventre e il suo seno,
e l’ìnguine fecondo e stagionale,
ciclo fatale
di Primavera e d’Autunno e d’Inverno,
un ghigno dell’Eterno,
oscena e incinta, e or pàllida e morente,
co’ un sguardo di bambina,
la Vita che alla Morte ne destina.
No! via da me, tu, oh spettro di erba e fiori,
malvagia, oscura, famèlica donna!
Lascia che al fuoco che scioglie le frasche
io preghi la Madonna!
E venne il tempo di tòglier dal fuoco
un àlito di cènere.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




In Dì di Lunedì V del Mese di Settembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

sabato 23 luglio 2016

In Ode di una Tempesta del Deserto di una Sera di Festa

E solamente avrò io l’ermo, o sera,
io! romìto nel più lontàn fior dei Sogni,
quasi privo di Vita e di gioia,
dove il pianto sol caro mi è.

E solamente sarò io un’ombra terrea
della mèn scialba Luna, quando il dì
tramonterà funèreo nella Notte,
come un teschio nel suo sepolcro,
nella sua Morte.

E mentre - fuori - là, sàbato attende
le danze e le fanciulle, e i fiòr, gli sguardi
sotto la barcaròla di codesta
argentea Luna, e mentre
le vie ùrlano e rumorèggiano a festa,
tra i ventàgli dischiusi, e i brìndis lieti,
e liete màschere,
io condannato a non- vìvere, a non-
senso, io! qui orbando in gola una preghiera,
giacio allo scrittoio dei mie tormenti
e delle angosce dell’Ànima proba,
forse invidioso dei sorrisi altrui,
di quanti vèdon gaudi nell’andàr
dell’Esistenza… o forse vacuo e insano;
e qui, pensando, grido…
‘ve so che presto mi attende un abbraccio
di un vòrtice di pietra, ombra di un bacio
di tempestosa vetta di montagna.
Non è altro che il mio cuor! 
E niente cambierà, quando io farò
da lì ritorno.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Philip Richard Morris, Il Mietitore e i Fiori, Romanticismo vittoriano inglese, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Sabato XXIII Luglio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

giovedì 16 giugno 2016

Meditazione poetica sulla Vita

La Vita è come: un Temporale; è un fùlmine,
un’ombra oscura in su’ un faro del màr
che lì - ei solleticando - annega scogli,
e i più vecchi relitti delle vele,
lì… ignuda Ondina inerme, lì, ove canta
per la duràta di un ùnico tuono
in un sol colpo di occhi e di vani àttimi,
quando la fòlgore ondeggia e si nàufraga,
ella facendo brillàr le onde in fondo,
dove l’Eterno le ha dato in Destino
la sepoltura attesa.
E dopo la Tempesta v’è la quiete
che sol sa dare Iddio.
La Vita è come: una Sìlfide che è
serena e vanitosa e che danzando
porta uno specchio in mano perché tutti
ne pòssano vedèr il vero volto,
un otre fatto di fràgile vento:
il paradòsso perenne di un Nulla
che vive e che respira.
Ma perché io - io! - giòvine e Pöèta, forse,
ho qui päùra di incontràr la Morte,
di vedèr consumata la mia fòlgore,
e speràr, disperàr, temèr, frinìr?
Forse perché io ho vissuto solo Sogni,
e non so io ancora che sia questa Vita,
di cui canto e che temo.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Kaspar Friedrich, Paesaggio romantico invernale, Romanticismo tedesco, Prima Metà del XIX Secolo



In Dì di Giovedì XVI Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

venerdì 3 giugno 2016

Un'Elegia alla Sera

Sera, oh tu, oscura negli àttimi de’i
Sogni, qual è il tuo sguardo or nella Luna
argentea, e scialba?
e di’! com’è il tuo labbro furibondo
che baciando ghermisce il venìr svelto
degli ìncubi infedeli?....
Forse tu allùmini il senso mio, e i miei
occhi che sògnano; e la cera tua bruna
mi è preludio di alba
più nuova, dove io non più vagabondo
per questo mio sognàr, e il suo prescelto
Fato andrò, e pe’ i suoi fieli
di giovinetta Morte, e di terrore,
sognando io ancora un’ìride di Amore.
Oh sera! E Estate sarà, e avrò io perduto
forse in tal Sogno un’altra e dolce via,
e avrò smarrito il sentiero supremo
delle più quiete speni;
e canterò io con le corde di un liuto
un’altra Pöèsia,
perché la Notte è un regno di un sognàr,
illusïòne eterna, com’è il sonno
ne’ i marmi sepolcrali,
qui, scoglio a un solitario e inquieto màr
dove l’onda si infrange in un bàttito
di àttimi e di ali;
e tutto è vano!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Ivan Aivazovskij, Una Torre di Notte, Romanticismo russo, Secolo XIX



In Dì di Venerdì III Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

mercoledì 1 giugno 2016

Elegia di un Addio al Mese di Maggio

Addio, maggio, o fiorito àttimo di un
Sogno, uno sguardo di Ondine e di viole
con gli occhi tuoi di cera,
dove qui più non viene a urlàr nessùn
rifiorìr di ninfee, e ove ardente è il Sole
prima che sia la sera,
e sia la Notte a seppellìr l’estate,
Dea Ècate oscura, e inesoràbil, mesta
che vaga intorno.
E la più tetra Luna le dorate
ripe lì mieterà, come Tempesta
di ìncubi; e il giorno
mi sarà stato breve per potèr
ghermìr il farsi dei Sogni miei, e il mio
desidèrio. E vorrà
ei ripètersi ancora, e qui sedèr
su questa pietra trèmula dov’io
giacio? E il cuor non lo sa….
Sa sol che maggio è stato come un fiore,
rosso nell’alba, nel vespro incolore.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

William Adolphe Bouguereau, La Giovinezza di Bacco, Classicismo francese, XIX Secolo



In Dì di Mercoledì I Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

martedì 24 maggio 2016

Inno ai Sensi di Primavera

Il dì precìpita
in Sogno incauto
di Primavera,
nel maggio flèbile,
è un dolce flauto
prima di sera.

Vedo le nùvole,
falbe e serene,
i girasoli
che freschi nàscono,
quiete amarene,
i rigagnòli.

Sento le allòdole,
i lieti canti,
i cinguettìi
d’in su’ le tòrtore,
i corvi affranti,
i tintinnìi.

Fiuto le prìmule,
le margherite,
le fulve rose,
i caldi zèfiri,
il vento mite,
le viole afose.

Gusto le lìmpide
onde di un rivo,
le spighe prime
del grano trèmulo,
il cièl giulivo,
l’ombra sublime.

Sfioro le ràpide
erbe dei campi,
il rosso-fuoco
dei miei papàveri,
la scia dei lampi
che dura poco.

Passeggio in ròrida
quieta campagna,
inassopita
dopo i suoi fùlmini,
dove mi bagna
senso di Vita.

Ammiro i plàtani,
i pioppi bianchi,
le querce, i sàlci,
l’ôr dei ranùncoli,
i fanghi stanchi
presso le falci.

Vedo risplèndere
l’arcobaleno,
ièr Temporale,
sciolta è la gràndine,
col suo veleno,
col mäèstrale:

gli occhi si inèbriano,
la rifrazione
di tanta luce,
dal cosmo estàtico
una canzone
che non traduce

codeste immàgini,
e questi suoni,
e il suo mistero,
ciclo di vìvere,
urlo di tuoni
nel cielo intero.

Le lepri nàscono,
nàscono i tassi,
i beccaccini
ai nidi vòlano,
vìvono i sassi,
tempi divini.

Regna la nòbile
Vita, Natura,
serena e bella,
feconda Vènere,
priva di cura,
splendente stella.

Ma giungo ai lìmiti
del mio päèse,
e il cielo è nero,
e Tutto ha tèrmine:
sorge, e palese
è il cimitero.

Un Sogno è dunque la Natura, ed io
tremo e m’inchino al Silenzio di Dio.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




In Dì di Martedì XXIV Maggio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

martedì 9 febbraio 2016

Das Freyalied - La Canzone di Freya

IX. Preludio poetico e Divertissement tragico. Il Lamento di Lorelei

S’appressa Freya agli Dei e alle Dee e alle Grotte
loro, e in cuor suo fors’ella or piange al Reno,
e anche se ammira le rocce sublimi,
qualche stilla di pianto in viso appare,
e mestamente ei scende al peplo e al fianco,
ella ignara dei tetri eccessi e oscuri
del Re dei Nibelunghi, e delle sue
nebbie, Pòpoli infami di Fantasmi,
ed ella qui salendo su’ altre pietre
presto sarà dinnante al padre Wòtan;
ma prima volge a un dirupo scosceso
e all’Elfo chiede un attimo di requie
tant’ella vuol miràr il paësaggio:
le valli e i boschi, e le foreste, e l’ombre
del suo adorato fiume, e allor si siede
e lietamente contempla d’intorno.
Del resto è ancor lontana l’orba Notte,
e giù… e giù… là, in convalle, al scialbo seno
suo la compagna Lorelei e a quest’imi
sassi la cetra appoggia, e a lagrimare
va, lamentando con un canto stanco
il furto del suo argento, e ai flutti or duri
di Fato insano ella chiama le prue
a infrangersi dei fulmini, orrendi spasmi
di lamentevoli orrori, e per l’etre
costoro vanno… e vanno… verso Wòtan,
ma invano e tanto, un cantàr cupo e offeso,
e un maledìr ad Alberico: l’esequie
pe’ un Re che vive in un vecchio miraggio
di nebbie furïòse e di penombre.
E Lorelei a gridàr ai Ciel non cede,
voce rabbiosa d’un deluso giorno.
Ma nemmanco l’amica Freya la ascolta,
tant’è lontana la celeste Vôlta.

«È venuto il crudele, il Nibelungo!»
ella lamenta: «Oh Dei, ascoltate! L’empio
è venuto: il crudele, il Nibelungo!
Con l’inganno ha rapiti i nostri argenti,
cercò ghermìr le nostre Ninfe ignude…
oh! ascoltàte i lamenti nostri, oh Dei!
Canto io per le tre Figlie del mio Reno:
per Flosshilde, e Woglinde e poi Wellgunde;
elle ingannate piangono, e or smarrite
giacciono e temono e ira e patimento,
perché non son riuscite a custodìr
l’oro del Padre, e hanno or tanta vergogna.
E il Nibelungo allegramente sogna,
e già gli par dell’orbe divenìr
Sire possente, e irride al rapimento
che su di noi ha versato… noi, assopite
Onde e Fanciulle, e Ninfe e Lorelei….
Antiche Posse della Terra, il seno
mio udite e il suo soffrìr date agli Dei!
Maledizione sulle Nebbie crude,
e sul lor Regno di Destino e vento!
È venuto il crudele, il Nibelungo:
furbescamente ei ci fece uno scempio.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi
tra questa nebbia di Morte e di Vermi,
e consumate il soglio all’empio Re,
e con le vostre assai robuste membra
riportàteci l’oro che ei ha rapito
per fonderlo in un Anello di suo Odio!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi
là, e sterminate gli Gnomi e i lor Germi,
là… dove Notte eterna e oscura v’è,
e ‘ve Alberico il suo Dominio tempra,
ombra d’un Fato cupamente avìto:
è un artiglio del Male, è perenne Odio!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi;
e obbedite se non ai nostri Dei,
a me… Fanciulla, e a questi detti miei!».

E Lorelei su’ un scoglio allora sale,
e i nembi osserva, volgendo i suoi seni,
e il ventre suo di pianto incinto e gonfio,
e ella agitando le sue gambe fresche,
e arrossendo di rabbia e di furore,
e suona… e suona… e trilla cupamente
le corde aguzze dell’arpa fatata,
ordìta un dì dalle prue delle cimbe
degli Dei e degli Eroi affogati e morti,
e dai legni annegati delle querce,
e dalle perle e dall’albe conchiglie,
donde si erge un nebbioso e tetro suono
che sembra or cetra e ora un gridàr di corni.
E Lorelei lamenta ai tristi stormi
dei pàsseri che fùggono da un tuono,
e furiösamente apre le ciglia
verso le sponde dei funebri salici,
e nel suo canto sono i suoi occhi assorti
nelle più infami Furie delle nubi;
e la sua mano destra è concitata,
e trilla… e trilla… spaventosamente,
e dal suo trillo emana ella il suo orrore,
e gli Elementi dominati e freddi:
e il vento, e l’aria, e il tuono e il prode fulmine.
E questi suoi Elementi vanno ai Cieli,
e il mesto canto sale… e sale… e sale.
Allora ella suonando una ballata
sempre più cupa si fa e più stregata.

«È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ha denudato i nostri bei fondali.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ei tempra nel segreto inganni e mali»
ed ella i denti digrigna sdegnata,
e ancor più in Furia arpeggia le sue corde,
e invoca la Natura e le sue posse,
e non più una fanciulla sembra, ma è
una strega d’un Fiume in pieno sdegno.
«È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ha denudato i nostri bei fondali.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ei tempra nel segreto inganni e mali.
Furie del Reno e della mia Natura,
udite l’arpa mia, e il mio pianto audace,
e l’onde alzate contro il Regno orrendo
della Notte e delle Ombre, e distruggete
l’indomabile stirpe degli Gnomi:
quest’arpa trilla gemiti di Morte,
e di vendetta! Oh maledetto Gnomo!
Oh! Senza l’oro quant’è fatta oscura
quest’onda mia, e la ripa è senza pace,
e poca gioja d’intorno io ora intendo!....
Ma perché di Vendetta ho io questa sete?
Ahi, perché maledìr i loro nomi?....
Perché… ah, perché, oh miei Dei, quest’empia Sorte?....
E noi Fanciulle, e Ondine, e Ninfe andremo
a trascorrere i giorni nostri e i vespri
prive di argento e di oro, e dei monili
nobili, e di codesti brillamenti
tra le acque nostre, qui, sempre più ignude,
noi domandando perdono al Re nostro,
e al nostro Padre, senza più ricchezze,
dove fu un Sogno la nostra lussuria,
la bellezza dei nostri ameni corpi,
quando nessuno, ahimè, ci amerà più,
qui, e in un segreto di Amore è il morìr!
E noi Fanciulle del Reno or saremo
orride streghe coperte di vepri,
lungi dai dì festosi dell’aprile,
e dai ridenti e dolci abbracciamenti,
e dalla Vita che è un Sonno che illude
chi tanto affida sé a un dorato rostro
di concitate e perenni dolcezze,
e alla beltà e all’argento e alla sua Furia,
e sempre ignudo e mesto il nostro corpo
nessun, ahimè, nessun ci amerà più;
e in un segreto di Amore è il morìr!».
Or la Fanciulla dell’arpa rimpiange
così i suoi quieti adamanti svaniti,
e singhiozza, e sospira, e l’ira mùtasi
in soffocato pianto e in contristato cuore,
e lì in sollecitate orme di làgrime,
e piange… e piange, e invoca ella ogni nembo
con il suo tracotante Nume ubriaco,
bellezza arcana primigenia, or rimasta
disillusa e tradita da Erda stessa,
e chiama… e chiama l’amica Freya, invano
poiché costei non può sentirla al monte
suo. Oh povera Fanciulla! Piange… e piange,
e se avessero un’Anima, i suoi liti
piangerebbero anch’essi, e i tutti Ocèäni
primigeni e commossi. Oh qual dolore!
Ella ancor maledice le torve Anime
dei Nibelunghi, ma dolce è il suo grembo,
e la sua voce, non più è al par d’un Draco,
la Serpe orrenda e maligna e nefasta
nella qual Alberico si confonde,
quando è temuto e cercato, ei, il sovrano
della Nebbia, e dell’Ombra e della Morte.
E così Lorelei qui si lamenta,
mentre Freya le convalli ne contempla.

«Oh Flosshilde, oh tu, oh cara» ella ora dice:
«Canta anche tu con me… canta e dispera!
E tu, Woglinde, lamenta il tuo Fato,
volgi agli Dei, agli Dei vòlgiti e narra!
Oh Wellgunde, tu pur canta e lamèntati,
piangiamo insieme sul nostro Destino!
Canta anche tu con me… canta e dispera!
È giunta presto la temuta sera,
e il pomeriggio si è fatto meschino….
Canta, Woglinde, canta ai Ciel, soffèrmati
sul tuo giaciglio dell’oro privato…
canta anche tu con me… canta e dispera,
oh Flosshilde, oh tu, oh cara» ella ora dice.
Oh Lorelei, eternamente infelice!
«E qui nessun… nessun più ci amerà…
e il nostro cuor nel Reno affogherà!
Oh bellezza tradita… oh sì, tradita!».
E mentre il canto singhiozza e prosegue,
Freya sulle vette il suo Destin insegue.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Martedì VII Febbraio AD MMXVI

lunedì 2 novembre 2015

Tre Odi di Prosa di un ultimo Poëta romantico

I. Maturità senescente

Selva di pruni, e di pioppi, e di sàlici
con me la sera allùmina, e le spoglie
frasche, e le ignude fronde, ombre di Notte,
e gli irrequieti faggi, e i tetri càrpini,
e queste nubi in sul far della Luna
che viene pàllida
dopo il passàr
del mio meriggio,
come argento àrido,
specchio d’un mar,
dove sta un riccio
che èsule dell’autunno è, e del castagno,
qui, in sulla via che io percorro in affanno,
io rimembrando l’ùltima mia estate,
e sconsolando il cuor nel mio sognare,
e gemendo io di làgrime infinite,
e allor d’indefiniti àttimi, e speni,
perché ‘l so: piàngere
debbo io a’ perduta
mia giovinezza,
il vespro d’ìncubi,
la fonte muta
della sua ebbrezza; e
perché io fantàsima
passeggio e ascolto
fosco silenzio,
tra i scialbi plàtani,
ricordo un volto:
labbro d’assenzio.
E così un altro giorno va a morire,
un dì che ho in meno da vìvere, e Morte,
e Fato, e Tempo d’intorno mi vàgolano,
dove so che beltà non fu che un sonno,
e Idëàle l’Amore, vero il duolo. E
come le Norne ròride
del pianto dei defunti,
e come le mie Sìlfidi
danzanti a’ piè congiunti,
e Villi, e Gnomi, ed Elfi,
fantàsimi dei Guelfi,
io corro a tramontàr.
E questo mio tramonto è una pena
che mi fa inquieta l’Anima, e convulsa
la mente, e bieca la cura, e inaudito
il petto. E per la mia campagna corro
a raccògliere gli ultimi miei fiori. 

II. Il Lamento del Bivacco

E canterò io alle fiamme della Luna,
mesto e perduto, e sepolto in mia Notte,
e urlerà il cuore mio agli astri che muòiöno,
nell’orizzonte oscuro di un Idillio,
e piangeranno gli Elementi indòmiti,
e ombra d’un sàlice
l’orma mia copre,
e il fuoco scialbo,
ombre fuggèvoli,
di Dèmoni opre,
presso il prunalbo.
Non temèr, folle! Non avèr paüra!
Un’ombra ha mai umiliato un uomo? Forse?
Ma canta! Canta! Qui spensïèrando
tu, in vêr la Luna del tuo focolare,
e della tua arpa, e dei sogni tuoi estremi,
màschere vagolanti e sempre inquiete
di Mostri di tue attese, e di Titàni
ribelli ai giuramenti orditi ai fùlmini,
e di questa giovinezza svanita,
e dell’indefinite speni tue!
E io urlando canto; io, ràpsodo
della melliflua Notte, e
del suo sudario fùnebre,
come Orfeo per le grotte
del più lùgubre lupo,
che da un fosco dirupo
qui lamentando ei sèguita
mestamente a ululàr.
Perché è questo che resta: questo dono
maledetto da Dio, la Poësia,
lungo questa giovinezza che muore,
e questo mio tramonto in una Vita
dove è peccato amare, e sognare ancora.

III. L’ultima Rosa dell’Estate

Ripenso: gli àttimi, e i tuoi, e i miei e orbi sogni,
e l’Alpe in fùlmini,
le rugiadose
perdute cime.
La vetta a un tùrbine ululava oscura:
roccioso ràpsodo,
e silenziosa
valle sublime.
E tu? Rosa melliflua, un dì piangevi,
tu prevedendo questo mio tramonto,
e questo mio silenzio, e questa Sorte,
portando tu nel cuore un tuo mistero,
che non volli io discèrnere. E fu un sogno.
Ricordo: i pàlpiti
del delicato
tuo giòvin seno,
che m’era un pètalo
tosco del Fato,
Destìn che temo.
E la Notte sovvenne, e giunse il tetro
sguardo dell’astro di una Luna cupa,
e poscia questo vespro, mi inghiottì
l’alba, e il sognàr mio, e l’ìride
dei tuoi singhiozzanti occhi,
e gli àttimi miei e gli ìncubi,
e il bronzo e i suoi rintocchi,  
l’eco pe’ i mesti vàlichi,
e il cuor a singhiozzàr.
E tu, pìccolo stame, rosa mia,
come il sogno tu fosti, e come il vento.
il più ràpido, e spenta sei alla fine;
e io - folle! - non t’ho mai il labbro baciato,
e nàüfrago in Dio.   


Massimiliano Zaino di Lavezzaro





In Dì Martedì XIX, Mercoledì XX Gennaio AD MMXV