IX. Preludio
poetico e Divertissement tragico. Il Lamento di Lorelei
S’appressa Freya agli Dei e alle Dee e alle Grotte
loro, e in cuor suo fors’ella or piange al Reno,
e anche se ammira le rocce sublimi,
qualche stilla di pianto in viso appare,
e mestamente ei scende al peplo e al fianco,
ella ignara dei tetri eccessi e oscuri
del Re dei Nibelunghi, e delle sue
nebbie, Pòpoli infami di Fantasmi,
ed ella qui salendo su’ altre pietre
presto sarà dinnante al padre Wòtan;
ma prima volge a un dirupo scosceso
e all’Elfo chiede un attimo di requie
tant’ella vuol miràr il paësaggio:
le valli e i boschi, e le foreste, e l’ombre
del suo adorato fiume, e allor si siede
e lietamente contempla d’intorno.
Del resto è ancor lontana l’orba Notte,
e giù… e giù… là, in convalle, al scialbo seno
suo la compagna Lorelei e a quest’imi
sassi la cetra appoggia, e a lagrimare
va, lamentando con un canto stanco
il furto del suo argento, e ai flutti or duri
di Fato insano ella chiama le prue
a infrangersi dei fulmini, orrendi spasmi
di lamentevoli orrori, e per l’etre
costoro vanno… e vanno… verso Wòtan,
ma invano e tanto, un cantàr cupo e offeso,
e un maledìr ad Alberico: l’esequie
pe’ un Re che vive in un vecchio miraggio
di nebbie furïòse e di penombre.
E Lorelei a gridàr ai Ciel non cede,
voce rabbiosa d’un deluso giorno.
Ma nemmanco l’amica Freya la ascolta,
tant’è lontana la celeste Vôlta.
«È venuto il crudele, il Nibelungo!»
ella lamenta: «Oh Dei, ascoltate! L’empio
è venuto: il crudele, il Nibelungo!
Con l’inganno ha rapiti i nostri argenti,
cercò ghermìr le nostre Ninfe ignude…
oh! ascoltàte i lamenti nostri, oh Dei!
Canto io per le tre Figlie del mio Reno:
per Flosshilde, e Woglinde e poi Wellgunde;
elle ingannate piangono, e or smarrite
giacciono e temono e ira e patimento,
perché non son riuscite a custodìr
l’oro del Padre, e hanno or tanta vergogna.
E il Nibelungo allegramente sogna,
e già gli par dell’orbe divenìr
Sire possente, e irride al rapimento
che su di noi ha versato… noi, assopite
Onde e Fanciulle, e Ninfe e Lorelei….
Antiche Posse della Terra, il seno
mio udite e il suo soffrìr date agli Dei!
Maledizione sulle Nebbie crude,
e sul lor Regno di Destino e vento!
È venuto il crudele, il Nibelungo:
furbescamente ei ci fece uno scempio.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi
tra questa nebbia di Morte e di Vermi,
e consumate il soglio all’empio Re,
e con le vostre assai robuste membra
riportàteci l’oro che ei ha rapito
per fonderlo in un Anello di suo Odio!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi
là, e sterminate gli Gnomi e i lor Germi,
là… dove Notte eterna e oscura v’è,
e ‘ve Alberico il suo Dominio tempra,
ombra d’un Fato cupamente avìto:
è un artiglio del Male, è perenne Odio!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi;
e obbedite se non ai nostri Dei,
a me… Fanciulla, e a questi detti miei!».
E Lorelei su’ un scoglio allora sale,
e i nembi osserva, volgendo i suoi seni,
e il ventre suo di pianto incinto e gonfio,
e ella agitando le sue gambe fresche,
e arrossendo di rabbia e di furore,
e suona… e suona… e trilla cupamente
le corde aguzze dell’arpa fatata,
ordìta un dì dalle prue delle cimbe
degli Dei e degli Eroi affogati e morti,
e dai legni annegati delle querce,
e dalle perle e dall’albe conchiglie,
donde si erge un nebbioso e tetro suono
che sembra or cetra e ora un gridàr di corni.
E Lorelei lamenta ai tristi stormi
dei pàsseri che fùggono da un tuono,
e furiösamente apre le ciglia
verso le sponde dei funebri salici,
e nel suo canto sono i suoi occhi assorti
nelle più infami Furie delle nubi;
e la sua mano destra è concitata,
e trilla… e trilla… spaventosamente,
e dal suo trillo emana ella il suo orrore,
e gli Elementi dominati e freddi:
e il vento, e l’aria, e il tuono e il prode fulmine.
E questi suoi Elementi vanno ai Cieli,
e il mesto canto sale… e sale… e sale.
Allora ella suonando una ballata
sempre più cupa si fa e più stregata.
«È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ha denudato i nostri bei fondali.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ei tempra nel segreto inganni e mali»
ed ella i denti digrigna sdegnata,
e ancor più in Furia arpeggia le sue corde,
e invoca la Natura e le sue posse,
e non più una fanciulla sembra, ma è
una strega d’un Fiume in pieno sdegno.
«È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ha denudato i nostri bei fondali.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ei tempra nel segreto inganni e mali.
Furie del Reno e della mia Natura,
udite l’arpa mia, e il mio pianto audace,
e l’onde alzate contro il Regno orrendo
della Notte e delle Ombre, e distruggete
l’indomabile stirpe degli Gnomi:
quest’arpa trilla gemiti di Morte,
e di vendetta! Oh maledetto Gnomo!
Oh! Senza l’oro quant’è fatta oscura
quest’onda mia, e la ripa è senza pace,
e poca gioja d’intorno io ora intendo!....
Ma perché di Vendetta ho io questa sete?
Ahi, perché maledìr i loro nomi?....
Perché… ah, perché, oh miei Dei, quest’empia Sorte?....
E noi Fanciulle, e Ondine, e Ninfe andremo
a trascorrere i giorni nostri e i vespri
prive di argento e di oro, e dei monili
nobili, e di codesti brillamenti
tra le acque nostre, qui, sempre più ignude,
noi domandando perdono al Re nostro,
e al nostro Padre, senza più ricchezze,
dove fu un Sogno la nostra lussuria,
la bellezza dei nostri ameni corpi,
quando nessuno, ahimè, ci amerà più,
qui, e in un segreto di Amore è il morìr!
E noi Fanciulle del Reno or saremo
orride streghe coperte di vepri,
lungi dai dì festosi dell’aprile,
e dai ridenti e dolci abbracciamenti,
e dalla Vita che è un Sonno che illude
chi tanto affida sé a un dorato rostro
di concitate e perenni dolcezze,
e alla beltà e all’argento e alla sua Furia,
e sempre ignudo e mesto il nostro corpo
nessun, ahimè, nessun ci amerà più;
e in un segreto di Amore è il morìr!».
Or la Fanciulla dell’arpa rimpiange
così i suoi quieti adamanti svaniti,
e singhiozza, e sospira, e l’ira mùtasi
in soffocato pianto e in contristato cuore,
e lì in sollecitate orme di làgrime,
e piange… e piange, e invoca ella ogni nembo
con il suo tracotante Nume ubriaco,
bellezza arcana primigenia, or rimasta
disillusa e tradita da Erda stessa,
e chiama… e chiama l’amica Freya, invano
poiché costei non può sentirla al monte
suo. Oh povera Fanciulla! Piange… e piange,
e se avessero un’Anima, i suoi liti
piangerebbero anch’essi, e i tutti Ocèäni
primigeni e commossi. Oh qual dolore!
Ella ancor maledice le torve Anime
dei Nibelunghi, ma dolce è il suo grembo,
e la sua voce, non più è al par d’un Draco,
la Serpe orrenda e maligna e nefasta
nella qual Alberico si confonde,
quando è temuto e cercato, ei, il sovrano
della Nebbia, e dell’Ombra e della Morte.
E così Lorelei qui si lamenta,
mentre Freya le convalli ne contempla.
«Oh Flosshilde, oh tu, oh cara» ella ora dice:
«Canta anche tu con me… canta e dispera!
E tu, Woglinde, lamenta il tuo Fato,
volgi agli Dei, agli Dei vòlgiti e narra!
Oh Wellgunde, tu pur canta e lamèntati,
piangiamo insieme sul nostro Destino!
Canta anche tu con me… canta e dispera!
È giunta presto la temuta sera,
e il pomeriggio si è fatto meschino….
Canta, Woglinde, canta ai Ciel, soffèrmati
sul tuo giaciglio dell’oro privato…
canta anche tu con me… canta e dispera,
oh Flosshilde, oh tu, oh cara» ella ora dice.
Oh Lorelei, eternamente infelice!
«E qui nessun… nessun più ci amerà…
e il nostro cuor nel Reno affogherà!
Oh bellezza tradita… oh sì, tradita!».
E mentre il canto singhiozza e prosegue,
Freya sulle vette il suo Destin insegue.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Martedì VII Febbraio AD MMXVI