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martedì 10 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

IV. Invidia e Ira. Bellezza e Odio. Il Monologo di Erda

Ygdrasìl ora è cupo, e solitario,
e ogni Norna or è andata altrove, all’antro
della sacra betulla; e lì il sudario
del Destino si tesse. Ma Erda accanto
alle più tetre frasche e immota e muta
al vìl tronco si regge, e grida. Tanto
or è ferita dai decreti; e cruda
già si muove a vendetta, empia… iraconda,
e la Tempesta che si placa scruta.
Chiama una nube; e vi specchia: la bionda
chioma, e il giovine volto, e il corpo ameno,
primigenia bellezza. E affonda… e affonda
nel mar dell’ira e dell’invidia; e il seno
per specchiarlo si spoglia, e il ventre, Dio
delle Stirpi divine, e Genio. Osceno
è l’ombreggiàr del suo corpo, che è fio
d’uno scorno inatteso; e quasi informe
è questa sua bellezza. E grida: «Oh mio
cuore di Donna suprema, ingannato
tu sei; e tu… tu, svanisci, oh nube folle,
mentitrice assoluta, oh specchio bruto!
Tu che mi mostri le bellezze mie,
quando v’è altra Bellezza che è più degna,
muori! Sparisci! Oh ladro di mia quiete!».
E piena d’ira, il peplo si è strappato,
e come un lupo, ella ulula su un colle,
e dal suo labbro, quasi scende un sputo.
Osserva… e osserva le irrequiete vie
delle civette, e la Notte che regna;
e di vendetta e di Morte Erda ha sete.
È un Mostro, Furia d’un Occhio ribelle,
Spettro del Fato; è una donna convulsa
dal sogno infranto di regnàr sul Mondo;
e chiama i nembi, e vi si specchia, e ingiuria,
e li allontana, e li richiama, e guarda,
perfettamente legge in ogni nube,
e sempre trema; e non scorge che Freya,
cimba vivente sui flutti del Reno,
lì, tra le Ninfe, sciagurate al cenno
della Sorte nascosta ai loro corpi:
non vede che la bianca e dolce pelle
della Dea per la qual ode ripulsa,
e il volto bello, e il suo labbro giocondo,
le guance belle… e s’infuria… e s’infuria;
e la boccuccia giovine e maliarda,
e il ventre puro, e i fianchi, e il casto pube, e
le gambe belle. Ed Erda quasi abbaia!
E scorge la sua schiena, e il fresco seno…
e va… e va… e va a infuriarsi. È fuor di senno!
E i suoi sogni supremi sono morti.
Ma quel che ‘l più spaventa e ‘l fa dolère
è il sapèr dell’arcano e oscùr Potere.

«Io son la Dea, la Prima delle Schiatte,
e nessun Dio più di me è forte, e esiste.
E io ho il nome: Madre; e reggo e Norne e Fato,
e Tutto a me si piega e si costerna;
ed esse le mie Figlie dìcon questo:
che Freya è Bellezza superiore, e un Nume
di me più eccelso nel suo cuor s’incarna,
un Potere a me ignoto. Egli! Immortale
quando nel Regno mio anche gli Dei han fine!
Oh del Destino parole empie e matte! E…
e io già lo sento: è un Dio che mi sussiste, e
che nel mio cuore ora non è che odiato.
Egli mi fece…. Oh arroganza superna!
No, Dio… Dio mio! No!.... Son lo Spettro mesto
che il Tutto ha ordito, e che irradia di Lume
la tua Natura, sì finita e scarna,
e che rivela al Vivente il fatale
decreto del Destino. E Tu, Sublime
chimera, oh Tu, spauracchio d’uno Gnomo
credulone e gaudente, ascolta l’ira
d’una tua Donna, ingannata e reiëtta,
cui hai ben nascosto e il Vero, e il Male e il Bene,
Tu, sapendo che creo ogni cosa! Ascolta!
Vada il tuo Amore nel Caos primordiale,
la tua Bellezza crolli, e Freya svanisca;
e la mia Possa ti premerà! Morte
giuro e Vendetta! E contro Te già tuono,
e contro i Vivi il mio Spettro si aggira,
e contro la tua Stirpe maledetta,
e pel mio trionfo bramo laide cene.
Vedi, oh Superno! Già nell’ira avvolta
strùggere voglio il tuo Mondo gioviale;
e Freya, la bella… e Freya sarà una lisca
che affogherà nel Reno. È la sua Sorte!».
Erda! Erda! Oh Erda! Ah perché così tu ingiuri?
Anche i tuoi Fati saranno più oscuri. E
Erda ingiuriando svanisce nel Nulla.
Oh Freya! Oh Misera! Oh Dea! Oh bella Fanciulla!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì X Novembre AD MMXV 

lunedì 9 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

III. Il Destino di Freya

Allor le Norne tessono le ragne,
e nella Notte son streghe di Luna.
Erda, la Madre, le scruta e le osserva,
divinamente balda e pièn d’orgoglio,
e inquieta attende il fatàl lor decreto,
come uno Spettro che nel vento ondeggia; e
esse, le figlie, urlando oscure lagne,
danzano intorno, e a una rorida runa
incidono gli arcani. E falba serva
è questa seta d’un ragno e un germoglio, e
esse, le Norne, osservano irrequieto
lo sguardo della Madre. E il ciel rosseggia
di fredde piogge e di saëtte oscure,
e Dònner si lamenta, empio il Martello,
e Ygdrasìl trema, e tremando annera
nelle tènebre fosche, dove ei giace,
indòmite radici della Terra.
E gli Elementi si fanno la guerra,
ed Erda è lieta e di lor si compiace,
ed è perennemente e sempre sera,
e tra le frasche geme un mesto augello.
Ahi! Del Fato quai son le attese cure?
E le caverne non son che terrore
di chi ordire ne vuol la fin d’Amore!

Allor le Norne tessono le ragne,
e all’arcoläio all’opra sono intente,
e Ùror afferra l’estremo di un filo,
Skùld prende l’altro, e Verdàndi lo scruta;
e cammina… e cammina un ragno in salti,
ed Erda è immota, e qui attende il verdetto,
avvolta nei vapori del suo spiro,
lì, dove appare il Destino furioso.
Ygdrasìl ode le tetre campagne
colpite dalle piogge, e allegro sente
i fulmini di Dònner; e giù, l’imo
antro ei protegge, ‘ve una possa muta
quasi s’avanza. E gli Spettri dei Scaldi
degli Elementi giùngon al cospetto
dell’ossee Norne, e danzanti in delirio
tolgono il velo al Fato anche più ombroso.
E a Erda dinnanzi, appàr Freya in visïone,
ombre mistiche e in nubi e prepotenti:
un denso nembo di femminee forme,
immoto e privo fors’anche di Vita,
dove il sèn sembra marmo, e l’occhio argento,
e oro la bionda chioma, e il corpo morto;
e i Scaldi antichi cantano a Costei,
e strìngon l’arpe della Sorte arcana.
E l’ombra ignuda più non va lontana, e
è catturata, e è il Destìn degli Dei.
Erda lo sguardo nella nube ha assorto,
e quasi sente un profondo spavento
per colei che ha crëàto. Oh l’infinita
Madre più antica! E ora giace difforme.
«Ditemi, oh Figlie: i Destini soffrenti!»
ella comanda, ansando una canzone.
E le sue Norne ascoltano i Poëti,
che poi svanìscon, sepolti e irrequieti.

Verdàndi dice: «Di Morte ha le membra,
Freya la più bella, ma invitta ha la possa.
Ora l’ho letto: morirà, ella, un giorno;
ma il suo cuore è immortale, ed è infinito.
Ho visto: e Dei e Giganti e Nibelunghi
per lei far guerre, e maledirla - e tanto -
in nome del Potere d’un Anello,
che è l’Odio primigenio e mai domato
dell’Universo tuo, oh Erda; e lei venduta
ai bruti Divi di Riesenheim, pegno
di Wòtan per la reggia dei suoi pari.
Erda, oh Madre, Erda! Di Morte ha le membra,
ma il suo Potere non avrà la fossa,
e spento il corpo, ei s’aggirerà intorno,
ei, primigenio Iddio, e perenne Mito!
Vincerà il Mondo, quando i Ghibicunghi
corromperanno l’Eroe, oscuro manto;
e volerà, e sarà come un fringuello
libero e lieto, cui nulla può il Fato!
Oh Erda! Freya è Amore; e Tu… Tu l’hai intessuta!
Ma ella si sottrae a quello che è il tuo Regno:
non di Te ella è minore, e non è pari!».
Ed Erda ascolta, e ascoltando ella trema,
ride alle Figlie, ma in cuor è anatèma.
E mentre ora le Norne tàccion meste,
nel cuore di Erda vi son le Tempeste.

E ora Ùror dice: «Freya ha una possa eterna
che non è Anima, né Spirito; e è un Dio,
Madre, un Dio che è il più forte, oh Erda; egli Mente
è e Azione e Amore! E perché ci ingannasti?
Madre? Oh Tu, nascondendoci il suo Serto?
Perché dicesti che Tu sei la Dea
delle Dee, e Madre di ciò che qui è vivo,
e che mai nulla si sottrae al Destino?....
Erda, Erda! Oh Madre! Nella ragna ho letto
anche il tuo, e il nostro Fato. Il Ciel soccombe
dei folli Dei, e il Destino ‘l va a seguire,
e Tu, Madre di Vita, or sei la Morte!».
Ma Skùld aggiunge: «Madre, oh Tu, superna,
or vedi che accusiamo; e ingrato è il fio.
Ma poiché noi siam Figlie tue, oh Possente,
noi con Te andiamo a cercàr prepotente
Gloria, e Vendetta! E i Destini nefasti
vinceremo, se unite; e questo è certo!
Affretteremo quel che si dicea:
corrompiamo gli Dei, e il lor sacro rivo,
il quieto Reno, e diàm voglie a un meschino,
Alberigo, il feroce, egli, il Folletto!
Si schiuderanno agli Dei le orbe tombe,
e ciò che questo Iddio creò, andrà a morire;
e vinceremo noi, e Tu, oh sì, e la Sorte!
Ma il Nibelungo or corromperai Tu,
Erda, Erda! Oh Madre! E Dea d’un Dio che fu!».
E le Norne or svanìscon. Erda grida! E
sola rimane: oscura e irata e infìda!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Lunedì IX Novembre AD MMXV

venerdì 6 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

II. La Caverna delle Norne

E la valle è tremenda che dà all’Alpi,
tetra nel vitreo terrore d’un pianto,
e sul far della sera un monte grida,
dove il giorno tramonta e non s’avanza:
il regno delle Norne, primigènie
figliuole di Erda, e tessitrici
dei velami segreti del Destino.
Ùror, Skùld e Verdàndi vèston gli albi
pepli del Fato, e indagano col canto
ciò che nei Vivi di mistèr s’annida;
e vanno… e vanno, e si tèngon per danza,
oscura e dura e immatura Progènie,
e della Sorte son le genitrici,
han bello il volto, ma il cuor han meschino.
E la valle è tremenda che dà all’Alpi,
mentre sul Reno ondeggia la Dea bella,
tessendo scherzi alle Figlie delle onde,
le placide Sirene degli scogli;
dov’ella il crine cinge di ninfee, e
solleticato sente il sèn dall’àlighe,
e la gioja della sua Vita; e ove sella
le acque danzanti, e sulle chiome bionde
dei salci intorno accoglie i bei germogli,
ella, la più fatale delle Dee,
la più ridente tra gli Dei immortali.
E la valle è tremenda che dà all’Alpi;
e all’ombra di Ygdrasìl sovviene il Fato,
il scialbo telo d’un Dio inesorato.  

Ùror, Skùld e Verdàndi giàccion meste
sotto le fronde della sacra pianta,
le cui frasche tremanti urlano al cielo,
tra l’argento che è effuso dalla Luna,
Mostri ancestrali delle terre oscure.
E Notte è sempre, e orrende le Nature,
ed esse hanno alle mani un’empia runa,
ordita nelle nevi. Oh eterno è il gelo!
E questa pietra flebilmente canta,
e affanni invòca, e carestie e Tempeste.
Ùror, Skùld e Verdàndi giàccion meste,
avvolte nei velami della Notte,
figlie di Erda, lo Spettro, e brute streghe;
e qui, sotto Ygdrasìl, han l’arcoläio,
tomba funerea di guerrieri e amanti,
onde tràggon le ragne del Destino.
Hanno divelto nel legno le grotte,
e vivono nascoste, e fan congreghe,
col vischio e il vento, e il salice e il roväio;
e hanno gli occhi fatti di adamanti,
e il torvo collo piegato e supino.
Son giovinette ululanti e deformi,
sguardi di lupi, e voci come i corni.

Mostri ancestrali delle terre oscure,
tutto esse sanno: la Vita e la Morte,
e il vile e il prode, e il tempo degli Dei,
e il Divenire eterno del Vivente,
e la possa temuta del Dio Loge[1],
e tessono coi ragni le lor tele.
Sui lor pepli discèndon l’ambra e il miele
della sacra Ygdrasìl; e han tetre toghe,
e all’Infinito han rivolta la Mente,
e non conòscon gioje né imenei,
Posse occulte e feroci della Sorte.
Ed Erda ora le chiama e appàr tra loro
per ordìr il Fato a quel crine che è d’oro.

«Figlie!» ella sclama: «Ho dato agli Dei un’altra
Dea la più bella, la giovine, e balda,
Figlia del mio Volere, e fior divino,
Freya, gioventù del Cielo, Freya l’Amore,
Potenza prima del nostro Universo.
Ella ha un’ora di Vita, e ride al Reno,
e ignuda sfide fa scherzosamente
alle Ninfe fluviali e alle viöle.
Tanto appàr dolce, e celestiale e scaltra,
e nella Vita già si crede salda.
Tessete, oh voi, tessete il suo Destino!
Or decidete l’ora del suo cuore,
quando del suo Dèstin il mondo asperso
sarà e nel pianto, e quando il seno
morirà della Dea! Oh Figlie mie: lente…
lente ordìtele i giorni e il quieto Sole!».
E lor, le Norne, obbediscono al Genio
della Madre che tièn l’immenso Regno;
poiché anche le celesti e posse prime
per Erda, per Erda, lo Spettro, hanno fine!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì VI Novembre AD MMXV



[1]  Loge, da pronunciarsi Loghe, è il Dio del Fuoco nella Mitologia norrena e germanica. 

martedì 3 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

I. La Nascita di Freya

Erda! Erda! Madre della Stirpe, oh tu, Erda!
Oh Ventre di Ùror, di Skùld e di Verdàndi!
Erda! Erda! Ordisci la gioventù eterna;
e chiàmala bellezza, e gioja e Amore!
Primigènia perenne degli Dei,
Erda! Erda! Madre della Stirpe, oh tu, Erda!
Oh! Prendi le onde del Mare; oh tu, espandi
la tua alta creäzione, alba superna
della Vita gaudente; e sul biancore
delle spume, oh tu, fa’ i quieti imenei
della più bella tra tutte le Dee,
poiché risplenda, ella, tra le ninfee!

Erda! Erda! Spettro sibilante e puro,
prendi la sabbia del lido vicino;
e plasma: il crine con le fronde d’oro,
e le sue guance, e il volto, e il mento oscuro,
e il giòvin seno, e il ventre, e il suo Destino,
e l’inguine, e le gambe, e i piedi, e il moro
ombreggiàr lieto delle membra sue!
Erda! Erda! Spettro sibilante e puro,
prendi le frasche dell’àlighe fresche,
e tessi a lei così un serto d’argento,
e un pìccol peplo da annodarle ai fianchi,
perché costei sia ignuda sol coi seni
e con il ventre, Regina dei Numi.
Oh Erda! Sia gloria alle ciglia donnesche
che vai plasmando nel soffio del vento;
e d’acque le pupille agli occhi bianchi,
occhi che sono eternamente ameni,
e che splèndon di truci e altèri lumi!
Erda! Erda! Oh possente Creätrice!
Plasma Freya! Plàsmala! Oh la Dea più altrìce!

Allor dall’onde l’Ondine belle vanno,
e tèssono la Donna, la Dea bella;
nuda la plàsmano, ed ella respira.
Ed Erda dà alle Norne, le sue figlie,
la ragna oscura del di lei Destino,
perché lo scrìvano a un stel d’una runa.
E Freya, frattanto, sorride in affanno,
e vien vestita, oh la diva donzella!
E per la prima volta ella sospira,
e i piè suoi immersi bàcian le conchiglie
che vêr la sponda stanno al suo cammino;
ed è meriggio, in ciel è il Sol, la Luna.
Figlia la chiama Wòtan, il possente,

sorella Dònner, dal tuono lucente!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Martedì III Novembre AD MMXV

lunedì 2 novembre 2015

La Ballata delle Ombre della Notte

Ombra dell’ombre, regina, oh tu, Notte;
ombre dell’ombre regina, oh tu! È un Sogno!
E la civetta l’udito mio ascolta,
che si lamenta in canti funerari,
e l’ululato del lupo del bosco
che il mio animo impietrisce in tanta angoscia,
donde io non sento che ansie sempiterne. E
lungo l’orizzonte la montagna è avvolta
che tanto io adoro, e la sua valle, e i cari
miei vàlichi di nebbie in nebbia; e fosco
m’è l’occhio che non vede, e trema. Poscia
si spèngono anche le ultime lanterne.
Ombra dell’ombre regina, oh tu, Notte:
così è la Luna che risplende, è il Fato
scolpito su una pietra taciturna,
Re degli abissi più irrequieti e immensi;
e io lo temo perché è un sogno. - Oh cuor mio:
forse rimembri le trascorse grotte!...
e l’Alpe avvinta a un fiore immacolato
d’un muto volto; e l’alba svelta e diurna,
e i nembi che la salutano, incensi
dei campanili e che salgono a Dio.
Ombra dell’ombre regina, oh tu! è un Sogno:
e così presto è venuto il mattino
a ridestarmi alla Vita scomposta;
e alfine m’è di pena questo mare
di ignote cime, e di freddi torrenti.
Ma i miei ricordi trapassano lenti,
e li sento: che vogliono gridare
come un Titàno che agli Dei si prostra, e
preso e umiliato da un truce Destino; e…
e ancòr questo Verbo: è tutto un Sogno.
Ombra dell’ombre regina, oh tu, Notte:
il ciel è oscuro, e grida il Ghiridòne,
come un lupo affamato di sepolcri.
E era un sogno anche colei, e il suo mistero,
tàcita roccia, e volto di fanciulla;
e sono chiome in me scolpite e immote,
‘ve per il vento urlano una canzone:
labbri femminei che cantano sciolti;
e il crepuscolo giunge, ed è più nero.
All’orizzonte i monti miei; e poi è il Nulla.
Ombra dell’ombre regina, oh tu! è un Sogno:
i rammentati ruscelli, e le cime,
e infestano il mio cuore. E Ora è sublime
che appèn preludia l’insensato sonno.
E il vìver si risolve in spettri ombrosi,
dove è il singulto che regna i pensieri
miei, e i miei sì sovvenuti sguardi, e erosi
ciottoli antichi di vecchi sentieri.
Ma nel cielo le stelle come ceri
brillano fioche, e la Notte è immortale.
E il mio sognàr vagabonda fatale:
e l’occhio che urla è qui sempre più insonne.
Oh iride mia, convulsa nel tuo sonno!
Oh mie membranze! Oh valli scoscese e ime!
La Notte trionfa; e ripetono le cime:
ombra dell’ombre regina, oh tu! è un Sogno!
E poi nessuno m’ha detto mai chi era
questa mia giovinetta, e il suo dolore.
So che era come un’ombra: fu e scomparve.
E interminabile era la mia steppa, e
sognante e tetra, e era il mio Sentimento.
Forse ho perduto la mia Primavera:
i pioppi in foglie, e lì, i fienìl in fiore.
Ma no! Furono solo le mie larve;
e ora lo intendo che qui me ne accenna
l’autunnale e furioso e freddo vento.
E tutto è sogno: Vita, Cuor, Tormento!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica I Novembre AD MMXV

domenica 11 ottobre 2015

Il Singulto

Cuore, mio cuore, non senti un singulto
tra le tue vene che tremano tanto?
È forse il gelo della brezza, e il vespro
che in furie irrora il vento della Notte,
o forse è un sogno di un’Anima inquieta
che per queste campagne è vagabonda.
E tu, davvero, che taci e che gemi,
cuore, mio cuore, non senti un singulto?
È l’agnellino che al materno canto
s’addormenta, sul fieno e sul suo vepro,
l’eco del monte che scuote le grotte,
dove dimora l’irrequieto asceta,
è il murmure del mar che il ciel affonda.
E tu così sentendo e urlando tremi?
Cuore, mio cuore, non senti un singulto?
È il sonnambulo trillo, è una canzone,
sogno, follia; è Poësia e visiöne.
Cuore, mio cuore, non senti un singulto
tra le serali furie e tra le selve?


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XI Ottobre AD MMXV

venerdì 9 ottobre 2015

Inquietudine del Sogno e della Poesia

La Notte è pallida.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte mormora.
Dov’è il tuo incubo?
E la larva ‘l cullava
presso la cruna
dei Sentimenti. E i palpiti?
Non fûr che maschere.
Triste le illuminava
la fredda Luna,
la scialba Luna nell’incanto d’argento.

Eh! Sàtana ti ha illuso,
e schernito ti ha Iddio.
Danza! Su’, danza, il sabba, la ridda confusa!
E si sperda l’addio…
e si sperda l’addio!

La Notte è in tenebra.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte si agita.
Dov’è il tuo incubo?
Sono arrivati i vecchi,
l’incomprensione,
poiché ignoto è lo Spirito
della dolce epoca (della tua giovinezza).
E i rami sono secchi.
Spento è l’embrione.
E si sperda l’addio,
l’ultimo addio!

La Notte spasima.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte oscùrasi.
Dov’è il tuo incubo?
Lo ha udito il lupo nero,
lo divorava.
Ma è buona la carne arida
d’un cigno, le àlighe
sue? E il sangue sul sentiero (del)
lago albeggiava.
E si sperda l’addio…
e si sperda l’addio!

La Notte è in gemiti.
Dov’è il tuo sogno, oh giovine?
Era spasmodico,
sogno spasmodico.
La Notte è tremula.
Dov’è il tuo incubo?
Dissero: non avesse
un Sentimento.
Frutto dell’aritmètica,
tubercolòtica
delle sue smanie stesse! E
non fu che vento.
E si sperda l’addio,
l’ultimo addio!

Dov’è il tuo sogno, oh giovine? Hai vissuto
per un canto di Morte in tanta Vita. E…
e fu la Poësia un sogno perduto,
e era l’Amore una doglia infinita.
E dunque chiederai che ha in serbo il Fato,
e dunque chiederai se sei sprezzato.
Ogni piacèr ha fine. È il Tempo della Morte.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Giovedì VIII Ottobre AD MMXV 

mercoledì 7 ottobre 2015

Una Messa di Montagna

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
al venìr della sera vanno al monte,
quando le nubi sono nebbie ardite,
e s’apprestano a dir la santa Messa.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
bramano celebrare a Iddio nei boschi
delle montagne sul far della Notte
vicino alla cappella della Vergine.

Senti? Ho paüra: ha lamentato il lupo,
sogghigna al prete il fedèl timoroso.
Senti? Ho paüra: ha lamentato il lupo.
Non è la vetta giusta per dir la Messa.
Sul Ghiridone non ci sono i lupi,
dice il prevosto, è un sogno del tuo cuore.
Sul Ghiridone regna il falco arcigno,
a niente un falco ha mai fatto del male.

Ulula, eppure, un gemito furioso.
Forse una lupa ha valicato il monte,
e ha partorito i figliuoli affamati.
Ulula, eppure, un gemito furioso.

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
sotto l’ombra dei faggi e presso il muro
della pieve cadente fan l’altare,
laddove i Celti han lasciato due pietre.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
si guardano nel volto e si sorrìdono,
l’uno con fede, l’altro con i dubbi,
e sulla roccia lambiscono un calice.

Senti? Sei sordo? Un lupo si tormenta,
contorce le sue fauci, è nero e impuro.
Senti? Sei sordo? Un lupo si tormenta,
vuole mangiarci, qui, alla nostra mensa.
Non farci caso: è Sàtana che grida,
che dòmina sui boschi e la Natura.
Non farci caso: è Sàtana che grida,
vuole farci morire di spavento.

Ma chi è mai questo Sàtana selvaggio?
È un sogno orrendo tra il dubbio e l’affanno,
una chimera nel Nulla del cielo.
Ma chi è mai questo Sàtana selvaggio?

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
fan penitenza sotto i faggi oscuri,
flagellati dal vespro che sovviene,
nell’incanto sublime di quest’Alpi.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
cantano il Kyrie sul vento che soffia,
mentre tremante una ràdice geme,
quando la Notte sovviene più nera.

Ma non senti che il Diàvolo ci insidia?
Con il suo soffio ha preso in man la Bibbia.
Ma non senti che il Diàvolo ci insidia?
Non è il Diàvolo, è il vento che si gela.
Togli dal cuore questi aspri pensieri:
Sàtana è un verme che pompa nel sangue.
Togli dal cuore questi aspri pensieri:
senti? Il silenzio d’intorno governa.

Non ci son lupi, e tace il Ghiridone.
Occhi di fiamme avvolgono il crepuscolo,
e l’incensiere profuma di zolfo.
Non ci son lupi, e tace il Ghiridone.

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
dìcon la Messa, e viene l’Offertorio,
è tempo di donare a Iddio una preghiera
perché s’effonda il suo Corpo e il suo Sangue.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
s’inginocchiano e pregano alla Vergine,
e hanno in mano un rosario di noce,
i cui granelli son occhi di fuoco.

Dov’è finito il pane che era all’ara?
L’ha divorato Sàtana, egli stesso.
Dov’è finito il pane che era all’ara.
Lo prese per non farlo consacrare.
Di’, l’hai mangiato perché avevi fame?
Non son blasfemo, non l’avrei mai fatto.
Di’, l’hai mangiato perché avevi fame?
È stato Sàtana, egli steso, ‘l giuro!

Dov’è Sàtana, l’immondo fantasma?
Tace la Notte, e Cristo non si mostra,
e l’incubo spaventa i suoi fedeli.
Dov’è Sàtana, l’immondo fantasma?

Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
scrutano un gufo su un ramo di frassino:
ha tra gli artigli il pane che cercano,
muove la coda e questo cade a terra.
Il pàrroco vecchietto e il sagrestano
si guardano tremanti e son sconvolti,
Sàtana è un’ala d’un bieco rapace,
e la nòttola li guarda infuriata.

Il sagrestano allor raccoglie il pane.
Lascialo stare: Sàtana lo ha vinto.
Il sagrestano allor raccoglie il pane.
Non raccoglierlo. Non è più del Santo.
Ma Iddio, di’, non può nulla? È il più potente!
No, perché ti contempla in fondo al cuore.
Ma Iddio, di’, non può nulla? È il più potente!
No! Perché sei tu Sàtana, il selvaggio.

Sàtana è il dubbio, il lupo del pensiero,
è la carne che trema nelle tènebre,
sogno represso nel cuore dell’uomo.
Sàtana è il dubbio, il lupo del pensiero.

E il sagrestano ascolta l’esorcismo,
e grida, e sbraita e vede i lupi infami.
E si mette a cantare il sabba e è in ridda,
e come un cigno, quando ha smesso il canto
cade supino a terra. Tace. È morto!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì VII Ottobre AD MMXV