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martedì 17 ottobre 2017

Alba di Ottobre

Vien così presto, all'alba, il primo freddo
che l'Autunno compone al mio miràr,
co' il tremàr
di dense nebbie;
e mentr'io quasi cieco resto, e or che muto
va a tremolarmi il labbro, più che attonito
odo il cadèr di foglie
in tante doglie:
tintinnano frequente l'una all'altra,
e mormorando mi rabbrividiscono.
Oh Natura! Tu dormi,
soltanto la mia stirpe, ahi schiatta d'uomini!
vaga, e affronta le pene della Vita;
e di riposo e requie nulla sa.
L'ultimo mietitore è alla risàia;
poco prima io lo vidi a dàr di baja 
a un crocicchio del borgo.
Pur sarò anch'io a sforzàr la terra a dare
sì tanto vàn ristoro a questo vìvere
che si träe a una tomba,
e poi s'affonda?....
Va il Destìn: tutto inghiotte,
più della Notte.
Nebbie, null'altro che brume selvagge!
Le scorgo sorgere, in campagna, e immani
si prendono alle mani,
e avvolgono l'orizzonte, per sempre,
lo inghiottono nel loro truce ventre;
come Anime di spighe mïetute
che invano si alzano al Ciel che 'l respinge...
come Villi insepolte in terre vergini
che danzano alle rive dell'Agogna.



Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Martedì XVII del Mese di Ottobre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Fede AD MMXVII.

lunedì 17 aprile 2017

Pasquetta

Tanto mi è amaro il meriggio dell’Angiolo,
e il dì trascorso della festa santa,
e la notturna sera, e i vecchi áttimi
de’ i ripetuti Sogni e della noia,
e il vano disperàr per spenta gioia,
o per lontana requie, oppùr pe’ il sonno
che dopo tanta illusïone viene
a togliere dal giorno la mia spene,
pur non appena il Sol tramonterà.
Ah! sì ch’io piango a che so che alle ripe
dell’Arbogna mia quieta i pescatori
assaporano il vento dell’aprile,
e saltano i monelli per i campi,
e corrono i mastini per i boschi,
e all’onde nel scintillio in specchio al Sole,
cinti i capelli di rose e vïole,
come Ninfe, fanciulle lietamente -
o come belle Sirene del Reno -
sguazzano co’ i velami opachi al seno,
fino a che sera non si mostrerà.
E come pianto, e poi päura, e dubbi
il cuor mio assalgono i Ciel delle pievi,
convinte effigi di ghiaccio e di nevi!
severe impronte di severo Genio,
dove a me ignoti Santi con lo sguardo
gl’indici érgono alle falbe nubi,
e mi rimproverano a che son vinto
da Sogni, e speni, da’ il senso e da istinto,
e mi dìcon che tutto è Vanità.
E in questo Caos primordiale e furente,
quasi impazzito tra infinite scelte,
e ‘ve la Vita ne richiede poche,
allor io fuggo la festa e l’altare,
non voglio abbracci, né abito talare:
m’è conato di vomito pensar
a donna e a baci, e dispiacer m’è poi
non averli, e m’è sprezzo l’èsser prete,
e trista doglia questa eterna sete
d’andar oltre le vane ombre in vêr Dio;
e mi vergogno di vìver, sognare,
d’essere figlio della schiatta d’uomo,
come indeciso, serpeggiante atòmo
che dopo tanti scontri svanirà.
Eppure ho gelosia di quanti colgono
presunta gioia nel meriggio che scorre,
e che accettano il vìver per quel che è,
Vanità eterna! alti superomisti
che bevono l’Eterno presso i talami,
o sugli altari, e rìdon fino a sera
e si accontentano or d’una preghiera.
Ma dinnanzi a Iddio, chi si salverà?....


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Dante Gabriel Rossetti, Arcangelo, Pittura Pre-raffaellita, Tardo Romanticismo inglese, Epoca vittoriana, Seconda Metà del Secolo XIX


In Dì di Lunedì dell’Angelo XVII del Mese di Aprile dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.


martedì 7 marzo 2017

Un Cinguettio

È appena giunto il vespro, e vien la cena,
mentre fuori le nubi si incupiscono,
e si spartiscono il Sole che muore,
e svaniscono poi in più nuova Notte,
e mentono a’ i miei Sogni, e allor scompaiöno,
sì che le sento tacere per sempre.
Ma in quest’attimo a me risuona come
una parola strozzata dal cuore,
come un mio labbro che mormora muto,
ben altra cantilena che mi sembra
essere un inno a una Vita rinata,
o specchio delle speni mie o dei miei
pensieri, o pur d’inconscio mio sognar:
un cantar d’uccelletti per i boschi
che va a’ i foschi arboscelli che germogliano,
e che ora intendo, fatto prepotente
nell’aër della mia Anima irrequieta,
come se fosse un invito alla gioia
in un istante di melanconia,
e che va via e si propaga nell’eco
delle mie orecchie che qui lo ricordano
e che lo tengono avvinto e ben stretto.
Non mi fu mai mellifluo un sìmil canto,
quasi una sinfonia della Natura,
la qual perdura anche nei suoi silenzi,
catturata dal mio spirito ardito!...
e mi è vano, del resto, chièder quale
uccelletto cinguetti così, forse
un passerotto, un pettirosso o un picchio,
forse una rondinella che ritorna,
o un’allodola, un piccolo stornello,
o un beccaccino d’in su la campagna.
A che chiederlo se so che è il mio cuore?....
Ma ecco che ritorna il vento dell’inverno.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Daniel Ridgway Knight, Un Circolo in Campagna, Tardo-Romanticismo inglese, Epoca Vittoriana, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Lunedì VI del Mese di Marzo dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.

sabato 4 marzo 2017

Grande Elegia al Vento di un Giorno di Marzo

Come mi è o furia o sprezzo questo vento
che dal mattin che va a risoffiar sento,
mentre gelida grida una Tempesta,
che urla funesta!...
e come mesto mi sembra il suo sguardo,
d’eterne guerre invincìbil baluardo,
con il suo labbro che durante il giorno
dà fiato a un truce corno,
e ordina forse il preparato assalto,
mentr’io lo intendo chiuso nel mio spalto!...
e come piega, soffiando là, fuori,
i primi fiori!
Mi sembra sia una possa che crüènta
sempre mi scruta, e dopo mi spaventa
qui, lievemente alzandomi da terra,
e che poi ovunque afferra
le polveri a me d’intorno, e in suoi vortici
le prende e le trascina, e come forbici
la Primavera che viene e sorride
bruto recide.
Mi sembra che ei percuota anche il mio cuore,
con le sue attese, tra i Sogni e il torpore…
che lo prenda e lo stringa e che lo scagli
qua e là, gridando ragli
per la campagna ora da lui vessata,
e per i campi arati. E mai placata
è la sua Furia, il suo fischio irridente
e irriverente
che di se stesso inghiotte l’eco, e il muto
chiasso, e il tacito aspetto; e che perduto,
come l’Anima mia, di marzo spegne
e Sole e nubi indegne.
Fors’ei non è che l’ultimo discorso
guerresco dell’inverno, tra il rimorso
di rinunciare al gelo delle nevi
o aver più lievi
zefiri, e il canto di una vana impresa:
che il verno vinca! e spenta e vilipesa
resti la Primavera, e s’allontani
co’ il suo cuor, le sue mani;
e vada oltre. Chè codesto Pöèta
non la deve conoscere! E si allieta
questo vento a ripeterlo alle curie
delle sue Furie,
mentre d’intorno io scorgo le campagne
‘ve vanamente l’äirone in lagne
riscagliato qua e là prova a volare,
e forse per scappare,
e dove i rami impiccano i germogli
penzolanti al soffiar dell’aër, spogli
appena, appena, e la terra apre pozze
di piogge sozze,
e le ripe riposano, chiudendo
in sé le foglie dei fiori, spendendo
le loro prime posse contro il Fato
che con loro è infuriato,
dove presto vedrò forse il fraseggio
rosso dei rossi papaveri, e il seggio
degli uccelli del bosco sulle querce
ancora guerce;
e dove, adesso, il Sole che risplende
fa risaltar di smeraldo le bende
delle ferite foglie, in mezzo a’ soffi
di quest’eteri goffi.
Oh come mi cattura questo verde
contrasto di ombre e fuochi, e che si sperde
negli orizzonti donde si ritira
il verno, e spira!
E così presto la Tempesta muore,
e il vento scema, e sboccia un altro fiore,
in un nuovo ritorno eterno, e santo
nel mezzo del mio canto.
Sì, un eterno ritorno! Dove l’aria
di questo vento è la stessa che varia
più volte io respirai, e d’altri polmoni,
e che ora è in tuoni,
dove rinasce il fiore che io raccolsi
lo scorso anno e cui un pensier ne rivolsi,
e tutto scorre, e riappare, ma è nuovo
come il germe di un uovo.
Rimane solo quella campanella -
sulla strada - che or giace e ferma, e bella,
e sospesa nel vacuo aër di un vento
che più non c’è.
Or sta suonando gli anni di mia Vita,
in una nenia silente e infinita,
e sempre è immobile, e pendente in suo
andare e ritornar.
Sta piangendo perché non ho più vento!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

George Inness, Un Paesaggio in Scozia, Romanticismo scozzese, Seconda Metà del Secolo XIX, Epoca Vittoriana



In Dì di Sabato IV del Mese di Marzo dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.

venerdì 17 febbraio 2017

La mia Terra, ovvero Immagini di Borgolavezzaro tra Nostalgia e Ricordo

Immagini borgolavezzaresi - La Cascina della Chiusa

Quand’ero un pargolo - oh gentil membranza -
lieto n’andai vêr l’onde dell’Agogna,
e de’i pastor mi suonò una romanza,
dolce zampogna,

e allor che fui privo d’inquiete cure,
e illuso là ero da un sogno di Vita,
miravo i campi, e i sentieri e l’alture,
l’acqua fiorita,

e nulla seppi di dolor, di Musa,
ed ammiravo la rude cascata,
e la campagna, e ‘l torrente e la chiusa,
ninfea indorata,

e un vecchio mùr scorgea d’una cascina,
e in tra le foglie - e secche e vive - un forno,
e ceppi e legni v’eran, la cucina
in sotto un orno;

e dalle ripe mirai più d’un pesce,
e scorrea il turbine in su’i pescatori,
e in mezzo all’erba crescèvan le vesce,
dolci sapori,

e v’eran querce, e platani, e castagni,
e pioppi e roveri, e frassini e rose,
ed olmi e peschi, e l’impronte de’i ragni
su’ pietre ascose,

e assaporavo l’odor delle trote,
le lente resine, e in fiore l’ortiche,
e vedea bionde dalle rogge immote
le pronte spiche,

e contemplavo il profumo de’i funghi,
e più le chiocciole, e i scuri porcini,
e questi giorni mi sembràvan lunghi,
senza Destini,

e a’ i piè pregavo d’un’imago eletta
che fioca e spenta parea di Maria,
e il casolar fatto di pietra schietta
sembrò abbazia.

Fu il tempo in cui la Vita m’irrideva,
e n’avea indarne speni e bei desiri,
quando l’Amor - ingenuo - m’attraëva,
repressi spiri,

e pensai il mondo sereno - un amico -
e molli guardi donavo alle bionde
dame, e il cammin - Destin ti maledico! -
m’erano l’onde,

e i rossi muri, e il rudere e la fonte
mi dàvan sangue, speme giovinetta,
e scorgea lungi la cima d’un monte,
una saëtta,

e mi fu grato il cinguettar d’un passero -
forse un’allodola - al cielo d’estate,
e segnò il Fato in sul volto d’un cassero
non più che un Vate.

Oh quieta Arbogna! Oh cascina defunta!
Oh chiusa inerme! Oh estinti e miei boleti!
Oh forno antico! Oh roccia alfin consunta!
Quai sogni inquieti!

A voi io ne andavo, e vi contemplavo un fiore,
e molti dì passai di gioventù,
e sognai amici, e Vita e sposa e Amore,
tempo che fu!

Immagini borgolavezzaresi - La Chiesa di Santa Maria

È lieve il calle che oltre i tetti sale
e tra le nebbie si ergono sue cime,
ed è cotanto che pe’ il borgo vale
che dopo appàr un portento sublime.

Ivi - ai suoi margini - un chiostro spettrale,
un casolare giace, e verso l’ime,
mostra le pietre - rovina immortale -
che a’ suoi piè giacciono perdute e infìme.

Lì in tra le nevi si erge un campanile,
e a lui dappresso un tempietto barocco,
e quando il bronzo lamenta, è sottile -

triste nel vento - l’ansimante tocco…
e che sia verno o che sia aria di aprile
del mio villaggio è pieve in niveo fiocco.

E in soffiar di scirocco
codesto è il calle di antica abbazia,
fu dedicato alla Santa Maria.

La bianca pietra e il profumato stelo
dell’arso incenso olezzano pe’ il colle,
e ai simulacri ne palpita il Cielo
ove la statua di un Santo si estolle,

e in tra le brine e nell’orrido gelo,
e in su’ il ghiacciato portone che è folle
di questa Vergine or splende il pio velo
che vola agli Angioli e che è caro e molle.

Qui un flèbil suono si espande söàve
di un organello che canta al Signore,
e offende immobile ancor le arie cave.

E pe’ il cortile, di ghiaccio sta un fiore…
e si alza ai nembi un rosario ed un Ave,
e il borgo intiero è un religioso ardore.

Oh monaster d’Amore,
sei dell’airone il consacrato lito,
e speme santa di un mìser smarrito.

Lì santo sta d’orrore,
al freddo muro e alla parete affisso,
l’ombra possente d’un gran crocifisso.

De’i ceri il pio bagliore
bacia d’Empiro il quieto pavimento,
e vêr l’altare sen sta un paramento.

Ed io vi udrò dolore:
a me dinnanzi la Vergin fanciulla,
Iddio mi scruta, e nel cuor sempre è il Nulla.

Sonetto saffico con Caudo - La Pieve

Vi fu un dì ove io là andavo, a’ i boschi freschi,
e a’ vicìn campi, e in vêr una cascina,
e il mio cuor si bëàva in tra’ bei peschi
di rosea spina.

Lì, e lungi, un marmo con occhi donneschi
mi si splendea, e un’effigie fu divina.
A lei d’intorno stàvan arabeschi
di rosellina.

Allor giungevo a questo crocevia,
dove stanno i sentieri de’ il Gesiolo.
Lì pieve candida ammiravo, e pia

croce in su’ un piolo.
Sì che allor ligio e in tanta cortesia
pregavo gli Angioli inchinato al suolo.

Ma in preda a ignoto duolo
gemevo assorto una lode a Maria:
«Abbi pietà della miseria mia!».

Sonetto saffico con Caudo - Un Fior di Papavero

Sempre andavo a un boschetto a mirar fiori
dove le querce ombreggiàvan gentili.
Là mi pascevo di flebili odori,
e di cortili.

Mi piacquero cotanto i bei colori -
e il verde, e il viola e il giallo, e l’erbe in fili -
i dolci campi, i pioppi, e i pruni mori
e i quieti asili.

Ma che più mi piaceva era quel stelo
che del papavero il petalo irrora,
e rosso e bello, sotto il bianco cielo

lo ammiro ancora:
mi sembrò una ridente dama, un velo,
un occhio rosso che ancor m’innamora.

Ma un rovo, ombra di mora
a lui vicino crescea e il soffocava,
e un venticel lo stame scompigliava.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Daniel Sherrin, Dopo una Tempesta, Tardo-Romanticismo anglosassone, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Martedì XIV del Mese di Febbraio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII. Revisione di mie Poesie composte nel febbraio dell’Anno MMXIV.

venerdì 20 gennaio 2017

Elegia a un'Ombra nella Notte

È buio come di Notte, è in ciel buia Luna,
e burrascoso vento, e un po’ oltre, gelido
nevischio, e tetra nebbia.

Donna cieca è Natura in tanta tenebra,
stretta-bendata, è fanciulla al patibolo
dei fior decapitati
da folle inverno,
e non attende che il capestro ceda.
Rimarrà appesa co’ i piedi sul vuoto!

Chi era? Era solo una ribelle insana:
chiedeva pane per le umide strade,
dormiva sulla polvere,
e non è mai esistita.
Vento! ripeti a bassa voce il suo
nome!.... Se mai ti sentissero, tosto
morir potresti
condannato alla gogna.

Sentinella!.... Ombra, chi è là?.... Ombra null’altro!
Ombra senza uomo, né corpo… né cuore,
spirito vagolante tra le fregole
di lupi e streghe.
La senti?.... Si avvicina! Muti passi
rendono eterno il fragòr del silenzio
lievemente schiacciando a terra il ghiaccio
dove or scìvolano il ciel e sue nubi.
Dio non sa pattinare.

L’ombra non è uno spettro, non è specchio
di membra… e denti, e fauci. Ma è una belva,
un Titano che irride la päura
dei timorosi ánimi.
Su qualche riva di un fiume c’è un uomo
che gli abissi contempla, e non ha più
il suo riflesso. Di’: ha perduta l’Anima?....
Sentinella!.... Rispondi!

Forse i Titani già marciano contro
la sanguinosa ambrosia del Calvario,
ombre tra le ombre in ombra sola, è Sàtana
che chiede sangue e Morte.

Avete eletto voi, o Popoli, i sommi
capi di queste corrotte tribù.
Tutto prosegue, cambia… e si ripete.
Resta Lucifero. Ha indosso l’èfod.

E in così tanto silenzio or singhiozza
la lieve brezza che sentiva Elia.
Maledetta la stirpe delle serpi!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

William Turner, La Barca di un Pescatore in Notte di Luna piena, Romanticismo classico inglese, prima Metà del Secolo XIX



In Dì di Venerdì XX del Mese di Gennaio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII.

lunedì 2 gennaio 2017

Notti bianche - Le Ombre

Al fuoco rigirandomi più volte
qui ansimo per la tosse e per respiro
inquïeto. Il malanno urla e non placa
la bramosia del suo istinto di Nulla,
e la ferocia sua.
E or dalla mia finestra vedo piovere
le nebbie della sera; e i focolari
delle stelle stan muti, ciechi… assenti
a rendermi più cupa la orba stanza.
Mi fan päura le ombre.
Vestono, infatti, le fiamme dei Sogni,
e vagano fameliche dovunque,
come lupi selvaggi della steppa,
e mi attaccano in branco a ogni starnuto,
quando tossisco.
La mia Ánima giace solitaria.
E guardo un’ombra che più non ha un nome:
la solitudine.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Louis Remy Mignot, Tramonto, Pittura, Romanticismo statunitense, seconda Metà del Secolo XIX


In Dì di Lunedì II del Mese di Gennaio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII.

venerdì 30 dicembre 2016

Etroubles - Carme elegiaco di un Viaggio, ossia Dei Monti, della Giovinezza e dei Titani

A te, último dì di mio vïaggio,
che sotto il Sole splendi lungo i monti,
giovane e fresco più di alpine fonti,
che canti il madrigale della gioia
di mio perduto giugno, quando sbocci
sopra la mia cadente giovinezza
come una rosa immacolata che è
lieve e in fiamma, e all’alba, rossa, aulente,
profumata di cera d’Orïente,
a te, último dì di alpino Fato,
nel segreto del vespro in bruta ansia
con questa cetra di Sogni e ricordi,
sì, solamente a te io
canto. E il nulla che sta dinnanzi a me
non ti riporterà se non un’eco,
effige prepotente di una immane
montagna bella, e cara, con la pietra
millenaria e il cristal di neve, l’etra
che seppellisce sul nascere questo
insolito füoco, o vetta mia,
rimasta viva nella Pöesia.
Ricordi?.... Era il mezzodì, e le cime
da lontan brulicavano di ghiaccio,
il superno dominio dell’inverno,
indistruttibile, immortale, eterno;
e tu, o cima, eri lì, sopravvissuta
alla bufera omicida di tue
sorelle, le compagne dell’estate
nel roseto che andava solitario
a profumare questa valle intera
perché eri come una rosa di maggio,
tra i pascoli sereni e il bel foraggio.
E tacque il cuore, o Sole, ora perduto
che mi hai fatto gustar la gioventù,
quando io miravo la direzïone
sul San Bernardo d’antica legione,
Hannibal che passava infurïando
con gli elefanti, i mostri del deserto,
e l’imperiale titanico serto,
e re Carlo che scese per la guerra
rapendo a sé questa italica terra.
Sentii la marcia dei fieri oricalchi,
tra la fuga dei cuccioli e dei falchi,
battere i denti di prodi guerrieri
che dagli ermi dell’Africa giungevano
in Italia per essere qui vindici
oltre l’eternità dei monti stessi
delle subìte pene in cruda pugna.
E con te camminai sui loro passi,
sulle orme secolari fatte épica
d’Eroi e di cavalieri, presso le ombre
dei più remoti castelli di orgoglio,
laddove in altro tempo i miei compari
Trovatori cantavano di te,
vetta mia, o Sole, di mia giovinezza,
con l’arpa che tuttora il ciel carezza.
Ma mi mancava il lor coraggio. I prodi!
Ambir l’eterno di queste montagne…
pensier supremo, incolmabile brama!....
E con te proseguii su’ i biechi, órridi
speroni del Titano della Corsica,
il console perenne che ambì al trono,
e che Eüropa sfidò e ne infiammava.
E fu felice?.... Morì esilïato,
e tal son io da te, o monte perduto,
dove si accese l’ultima scintilla
di questa gioventù che si matura
e che decade nel tempo in cui è vano
gioir, amare, sentir i desii
del cuore che ormai pensa, attende e medita,
dove nient’altro che Arte è la mia Sorte,
e desiderio o Sogno è solo Morte.
Udii trillare i fucili del Destino,
e il mio cuor ne cadeva al suol, supino,
ferito in mezzo, per sempre. E ch’io feci?
Lo volli maledire… questo Fato
che scherzando e pungendo e bestemmiando
univa Sogni impossibili ai fiori,
e a’ stelle tutte, e mi fece incontrare
per un’ultima volta il guardo tuo,
cima di gioventù, o Sole, o montagna,
quand’io anche ti rimembro in mia campagna
da te lontano ormai perpetüamente,
laddove ogni tuo valico è assente,
anche se ti contemplo tanto sei
immensa, quando in melliflua giornata
vesti dovunque l’orizzonte etesio
delle tue rocce e del tuo ghiaccio cesio;
e il canto mi è di sfogo…. Sfogo. Grido!
Per dirti quanto a te ambivo e tacevo,
ascendere i tuoi sassi e regnar fiero
sopra le tue maree di nubi e nebbie,
più come un re di lupi che come uomo,
fondermi pazzamente in ogni atòmo
tuo, e come i prodi lasciar la mia traccia…
per far conoscere a Dio un sacrificio
sublime e mesto, temerario e improbo,
un olocausto che sen va ben oltre
le vittime di Hánnibal, di Carlo:
a te rinunzïare, o gioventù,
ricordo di un dì di follia che fu.
E non provai nemmeno a rifermarti,
a richiamarti indietro, udii vergogna…
come fermar la roccia che è già immobile,
ma che sotto i miei piedi frana e grida?
O cima! e tacqui, tanto urlar sarìa
pur stato vano, scalar, farti mia,
ergermi al di là dei Cesari invitti,
e il Destin per cui nacqui ebbe il suo corso,
donde io stillo pur sempre un mio rimorso.
E fu il meriggio. E poi giunse la Notte.
Ricordo! I lumi del tramonto alpino
illuminavano i tuoi occhi di fiore,
il tuo crine di petali leggiadri,
il volto tuo scolpito da Natura
perfettamente, e il tacente roseto
di altre montagne fatte come rose,
dove l’unico fosti, un fior rimasto
tra l’argento di brine, e l’oro e il fasto
dei cristalli di neve e i ghiacci eterni,
e il labbro e l’occhio mio stavano inermi.
Vêr te guardavo, a’ una baïta antica,
dove il beffardo Córso ebbe il ricetto
per la Notte in cui fu a varcare l’Alpe
immane del San Bernardo, e dormì
ivi su’ un letto di paglia e di fango,
eloquente Anticristo nascituro
nell’etere montano ardito e oscuro.
Ma a che bisogna éssere Titani
e più malvagi se si vuol sfidar
il Destin tutt’intero, e le barriere
che questo Fato oppure Iddio ne pone?
A che ghermir con la possa, ora un nome,
ora la gloria, qua pianto e là Amore?
Ricchezza e allori? A che vano è il desio?....
Dimmi, o mia vetta, mio Sole, perché
chi osa, conquista e chi è umìle si acquieta
riconoscendo polvere i suoi Sogni,
null’altro che menzogna le chimere,
nient’altro che ombre i sensi delle sere?....
E nel tramonto piangeva il mio cuore,
segretamente, avvolto in questa cura,
sopra tue vette e la possente altura,
con te d’accanto, dovunque, al mio fianco,
soffïando come arpa di Óssiän
sugli spiriti di ogni invitta schiera,
cima di questa valle… dolce valle,
dove sognavo, mirarti là, all’arco
de’ i trïonfi di un Cesare, e là, al buio,
sotto l’immensa volta, posar mio
volto verso una tua pietra a’ tutt’ore,
e per un solo áttimo di ardore,
rapirti un soffio… un soffio a te soltanto
che il Sogno non può dir, nemmeno il canto,
un soffio del tuo vento prepotente;
e da lì contemplare quel Crepuscolo
che era selvaggio e anche incontaminato
con le sue rosee tinte tra le faüci
di tue montagne, vederlo in un quieto
abbraccio. E il Sogno fu. E venne la Notte.
Perché, o Dio, mai non posso ambir, sognare,
essere giovane, e felice e lieto,
e scalare la vetta che ammirai
oltre ogni umano senso dell’onore
e di ogni orgoglio; e dir «Ti prendo, oh vetta!»,
far vero il frutto del sonno irrequieto,
oltre ogni solitario istante mio?
Perché… perché mai, dimmelo, oh tu, Dio!....
Perché Tu ti diverti a porre a’ miei
passi da sempre impossibili monti,
per cui nemmen la Fede mi è d’aiuto
dov’io scalandoli altro non vo’, niente,
che raggiungere il tuo vasto infinito
e sublimarmi nel Sublime alpino?....
E taci… come hai taciuto allorché
Hannibal ne varcava l’Alpe in guerra,
e Carlo cinse la corona ambita,
e il folle volle il mondo nelle mani.
E taci… sempre, eternamente muto,
e so che esisti e che regni sul Fato.
Ma non capisco più questo silenzio
che per dolore mi par fatto assenzio.
E tu, mia vetta, non saprai mai… mai
qual furïosa battaglia ho nel cuor,
tra impavidi rimorsi e pianti osceni,
i Titani si sfidano tra’ Spiriti
di quest’Anima mia che sogna e spera,
mentre soggiunge sì svelta la sera.
E tutto fu sepolto dalla Notte…
mia gioventù, non resta che la Notte.
Ma è un regno troppo oscuro
per essere compreso.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Jacques-Louis David, Il Primo Console Napoleone varca le Alpi al Gran San Bernardo, Neo-Classicismo francese, 1801



In Dì di Giovedì XXIX, rivista in Dì di Venerdì XXX del Mese di Dicembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.