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lunedì 30 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VIII. Preludio poetico. L’Idillio delle Vette

E Freya e l’Elfo sen vanno verso il Regno
dei monti degli Dei e delle lor Dee,
dove grida la lancia dei superni
patti di Wotan, e di Fricka il pianto
sui folli ardori dell’infedèl sposo.
E vanno… e vanno per sentièr ombroso,
timidi e muti, l’un l’altra d’accanto,
e i vàlichi ne sàlgono - quei eterni -
tra i lieti boschi e i stagni di ninfee,
l’Elfo compiendo il meritato pegno.
E nessùn conosce dell’indegno
Alberico le gesta oscure e ree,
e vèggonsi dei scorsi e antichi inverni
d’intorno i ghiacci, e gli imi e tenui colli;
e tra le nebbie e le nubi dei monti
l’ombra s’ammira del Reno divino,
donde le Ninfe lamèntano invano. E
quest’ombreggiàr or sen va più lontano,
e svanisce tra il faggio, e il sterpo e il pino.
E a Freya e all’Elfo si schiùdon gli orizzonti
delle montagne primigenie e molli.
Sempre silenti e con i passi folli
costòr pàssano or gli antri e i lignei ponti.
Così d’intorno non hanno che cime
lievemente innevate e maëstose,
e ora sàlgono… e sàlgono più in alto.
Sulla vetta più immensa sta lo spalto
degli Dei fatto di grotte e d’ombrose
pietre; ed è il Regno divino e sublime. E
scòrrono i rivi e i torrenti sull’ime
vallate e sulle foreste rocciose.
Così Freya ammira le montagne, e muta
l’Elfo seguendo coi passi procede
senza fatica sulla pietra, e scruta
l’alpìn sentiero che dinnante ei incede,
roccia selvaggia che è ancestrale e cruda.
D’in su’ un dì solo ell’è nata e vissuta,
e allor meravigliata intorno vede,
e i monti apprezza, mentre l’Elfo sputa -
affaticato or dal vino e dal piede -
selvaggiamente sulla terra ignuda.
E Freya contempla i castagni e gli ontani,
e i faggi e i canti dei lor uccelletti,
e nei boschi gli alberghi dei buon Nani,
i divi Gnomi sotto i salci freddi. Ed
è questo il loro bosco: i bassi aspetti
le fanno inchini e dìcono d’arcani,
e poi si còpron sotto i loro tetti,
le foglie antiche dei ramoscèl secchi.
E Freya ancòr sale… e sale e giunse al passo
dell’Alpe dove si geme pel lasso,
e qui si schiùdon tremende e funeste
delle Valchirie le triste foreste.

Sièdon le donne sulle rocce sante,
avvolte in manti di pelli e di penne,
e sopra i pepli tèngon l’armature,
gli usberghi ferrei sul petto e sul seno,
e con le destre impugnano e alabarde,
e fredde lame e irrisori pugnali,
e lungo i crini gli elmi della guerra,
e sotto, i volti guerreschi e gentili,
e altre bèvono le resine amare
delle querce fatàl, delle betulle,
e ivi cantano… e cantano alla Morte,
Furie soävi del truce Destino.
Ed esse sono belle e sono tante,
e brìndano coi corni delle renne,
e dòminano fiere queste alture,
ed esse son protettrici del Reno.
Hanno mantelli oscuri, e fulve barde
tinte del sangue dei Prodi mortali,
e solo un loro sguardo un Eroe atterra.
Apprezzano i valenti e non i vili,
e allòr sàlvano i primi dalle bare,
terrificanti e furiose fanciulle
che agli orizzonti e su’ in ciel son assorte,
Figlie di Wotan, possente e divino.
Còrron pei boschi e sèllano i destrieri,
e vanno… e vanno alla caccia dei cervi,
e dei cinghiali, in man gli archi funerei,
dove le fonti zampillano quiete,
all’ombra dei castagni di montagna,
affamate di vittime e di fiele.
Saltèllano… e saltèllan pei sentieri, e
i desti sensi son qui i loro servi,
occhi acquitrini e celesti e cinerei,
e fiuto che di sangue ha sempre sete,
e labbro che di sangue ognòr si bagna, e…
e questo sangue è come ambito miele.
Ma pur costoro s’inchìnano a Freya,
ed Erda, Erda - oh Erda! - più truce ne abbaia.

«Freya, non temère! Presto arriveremo!»
l’Elfo sogghigna alla tremante Dea.
«Freya, non temère! Presto arriveremo!»
ancòr aggiunge ei a quel fior di ninfea;
e poscia il bosco di queste Valchirie
ulula un lupo che vive di giorno. Uh! Uh!
Ella ingenuämente ha un po’ paüra, e
d’ogni Valchiria e del ghigno ululante.
Ma nel frattempo d’ogni senso è amante:
di ciò che mira e sente, e di Natura.
Forse va rimembrando il fresco Reno,
e le tenzoni con Lorelei, e i canti;
ed ecco che qui v’è l’arcobaleno
che degli Dei le annunzia e l’antro e i vanti.
E l’iri è bella, e ordita d’adamanti,
della Notte e del giorno è una lucerna,
d’Erda la creätura più superna,
d’Erda infame, ingannatrice oscura.
Or Freya contempla la vicina altura,
delle divine grotte il soglio urlante.
Oh quant’è ingenua, e lieta ell’è dinnante,
ella, sì, delle Dee la Dea più pura.
«Vedi quegli antri che stanno sul monte?
Sono le regge dei nostri fratelli.
Vedi quegli antri che stanno sul monte?
Degli Dei sono i sassi ardenti e belli».
E poscia il bosco di queste Valchirie
ulula un lupo che vive di giorno. Uh! Uh!
E Freya s’appresta a conòscer gli Dei.
Erda, Erda, oh tu Erda! Libera i tuoi Rei!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Lunedì XXX Novembre AD MMXV

domenica 22 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VII. Melodramma: La Maledizione di Alberico

«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
esser mia sposa, e con me la regina, e
condividere e regno, e trono e letto,
dove la nebbia regna ed è impetuosa?
Vieni, oh tu, oh dama, qui, tra le mie braccia,
qui… coperta dai baci miei gaudenti!»,
dice Alberico, il crudèl, cuor impuro
le nuche divorando delle Ondine,
famelico sentìr d’istinti e sensi,
e ripensando ei le forme gentili; e
già esse, le Ninfe, pensano a uno scorno,
e follemente Erda ora le addestina
a vendicarsi del Re orrendo e schietto.
Oh Possa infame, tremenda e furiosa!
E il Nibelungo in cuor ripete: «A caccia!»,
e i ghigni suoi si mostrano irridenti,
spettro vivente d’un insieme oscuro
di tenebre e di notti, e nebbioline,
e ignobili sorrisi e sguardi intensi,
ombra dell’ombre, egli è il Re dei più vili.
«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
fònder sue carni con le mie voraci, e
godèr nel cielo della Nebbia eterna,
essere primigenia d’una schiatta?
Oh Ninfe, a che tacete? Non son degno
forse dei vostri visi angelicati? O
solo temete la mia barba lunga
e folta? Anch’io ho il diritto dell’Amore, e
ebbro inebriàr il cuor sul vostro cuore;
e qui m’aggiro. Non v’è Nibelunga,
e non ho spose, io, Re dei disprezzati
Gnomi del vespro, di Nebbie il vil Regno;
e Re, Re! schiavo sòn di brama matta:
ghermìr la vostra carne, la superna
bocca delle onde, oh boccucce di baci!»;
e ascoltando le Ninfe in disperata
posa, serene fanno una risata.

«Oh voi irridete, lische, il Sentimento
mio, che in ira si muta e vi percuote!
Qui, qui nell’onde verrò: e già vi afferro, e
non potrete sfuggìr ai baci miei, e
nude Sirene senza cuor! Oh pietre!»; e
sì il Nibelungo urlando e lento, lento
quasi s’addentra tra l’acque più immote,
e verso le fanciulle va, lo sgherro,
bestemmiando il Destino e pur gli Dei,
avvolto in spire nebulose e tetre,
e nel suo guazzo fùggon impaurite
le meste Ninfe, le man sue evitando,
polpi ghermenti, e furia animalesca,
e scagliandogli fredde onde di sprezzo,
mentr’egli grida rabbioso e baldante.
Così le Figlie del Reno fluttuante
ben più scaltre ne fùggon ogni vezzo,
ma ora fuggendo mòstran la donnesca
forma che certo il bruto non fa blando,
e hanno le guance umiliate e arrossite;
donde non svàmpan le brame infinite
del Nibelungo più rozzo e nefando.
E quegli è terso, e il sacro fiume infesta,
impunito dal cielo e dagli abissi,
e preme i santi scogli e i suoi cristalli.
Preme i fondali con i tristi calli,
e sulle sue fuggenti gli occhi ha affissi,
e tra quest’acque corre, ombra funesta.
E solo il senso sta nella sua testa,
e le conchiglie schiaccia e i loro ricci.
Ma le fanciulle, andando or con più flemma, e
ora arrestando, hanno uno stratagemma.

Qui Woglinde s’immerge e chiama il crudo,
e lo persuade con voce maliarda:
or lo chiama per nome, lui, Alberico,
e provocante gli porge le scuse,
e vêr di lui distende il suo mancino
braccio, e col destro - ahi lui! - se lo accarezza,
oh delicatamente! e tante volte,
e ora gli mostra le spalle e le ascelle,
e tra una sua carezza e un’altra il petto,
e cantando e cantando, oh fior soäve,
il bruto attira, e ‘l porta a sé dinnante.
Allor lo Gnomo verso questo nudo
e folle inganno s’inchina. La guarda!
Ella ripete: «Alberico! Alberico!»,
e canta, e canta… sulle cornamuse
del fresco vento, un inno che è divino;
ed egli non comprende che ‘l disprezza,
e a lei avvicina le chiome sue folte,
e quasi le solletica la pelle, e…
e finalmente ei giace al suo cospetto,
e l’ammira… l’ammira, le dice: «Ave!»,
sogna ingannato d’esserle l’amante.
«Alberico! Alberico! Vieni! Oh vieni!
E ti darò sul labbro un dolce bacio,
come tu sogni nel tuo desiderio; e
ti cingerò con queste braccia mie,
e tu mi prenderai, e mi porterai
nel tuo Regno di Nebbie, e io sarò sposa
tua, e per sempre, oh Alberico! Vieni! Oh vieni!
Perdona se ti ho offeso! Vedi? Giacio
solitaria e piangente, e tu, lì, serio
tosto mi scruti. Ah perdona le rie
gäie parole! Guarda! Senti! I lai
della mia bocca, odorata di rosa!»;
e così il Nibelungo ora le crede,
e a lei vicino s’avanza contento,
e cammina… cammina, e qui procede;
e Woglinde gli soffia un dolce vento
con le sue labbra di fiori d’aprile,
un fumo, esso, un vapore che sul mento
del Re brutale si posa gentile;
ma ecco che il Fato conosce quel vile!
La Ninfa, allora, la barba gli afferra,
e tira… e tira, lo scaglia per terra,
e poscia un poco lentamente scappa
lungi dal folle dalla negra cappa.

Ei sta per maledire ed è infuriato,
e quasi muove i suoi piedi a vendetta;
ma Flosshilde ora emerge, e porge il seno:
prende una stilla, una goccia dell’onde
che sulle forme va scendendo, e lieta
con l’indice fatale l’accompagna,
lungo le carni montuose di dama,
e accompagnata la goccia nel fiume,
veloce immerge la nuca e riemerge
ella, divina, e sorride allo Gnomo
che tanto ha fame, e non scorge ei altro inganno,
follemente perduto e istintivo.
Ella, Flosshilde, nuota e sguazza, e il rivo
agita - e molto! - e si finge in affanno,
e fissa il Mostro, l’Orco, il putrido uomo, e
con una goccia ancora il sèn si terge,
e il suo occhio azzurro brilla d’un bel lume,
bellezza primitiva, e ingenua, e arcana;
e sguazzando… sguazzando ancòr si bagna,
‘ve nel suo cuor non v’è grazia né pièta,
poscia si aggiusta le trecce sue bionde,
e già ai piedi del bruto sta. Ahimè, oh Reno!
Ed ella è dolce, soäve e diletta,
ed egli ancora si mostra stregato.
Flosshilde è giunta, e sul petto si stride,
con la man destra, ove palpita il cuore,
appena sopra il seno, e alzando il volto
dice: «Alberico! Alberico! Ah! Qui bacia
dove m’ha punta un’ape con il miele;
qui, dove il fuoco si acceso impetuoso
per le tue labbra che vogliono amare!
E sarò grata per sempre, e verrò
a Nibelheim con te, oh Re, io tua regina!».
Così Alberico lieto le sorride,
e già s’infiamma di funesto ardore,
e allor s’immerge e a lei vicino molto
al suo bel seno avvicina la faccia,
e ancor non sente il profumo del fiele,
e sul labbro prepara un tempestoso
bacio su quelle pelli che son chiare,
e già lo schiocca, egli, il beffardo. Oh no!
E Flosshilde si mostra più meschina.
Presa dal fiume una rigida perla,
prima del bacio, ecco! Gli dà una sberla.
E fugge… fugge, lo Gnomo irridendo,
il qual sogghigna malvagio e tremendo.

Giace Wellgunde su uno scoglio ignuda.
Con dei capelli e con quattro legnetti
ha appèn plasmata un’arpa leggiadra,
che lieve suona amoreggiando all’aria,
e l’orizzonte inebria d’un suo canto
che verso il Nibelungo accenna un suono
forse di grazia e di compatimento,
gorgheggi molli, melliflui, donneschi,
ditirambi agili e festosi carmi,
distici quieti, labbra urlanti, e carni
gentilmente danzanti, ed elegie:
«Weia! Waga! Waga! Amòr che infame Dio!».
Giace Wellgunde su uno scoglio e cruda
più delle sue sorelle. Oh i divi aspetti!
Di caldi sensi ella - oh sì! - ella la ladra,
interamente emersa e solitaria,
e col suo ignudo corpo trae d’accanto
il Nibelungo, al qual l’ultimo tuono
s’appresta; e allegro, allegro… e lento, lento
ei lì s’avanza a quei sèn che son freschi,
ancora vinto, e senza ira e senza armi,
ascoltando le gaudie Poësie,
ignorando l’estremo, ultimo fio.
Wellgunde è forse la più bella Ondina,
fors’anche ancor di più di Lorelei,
e qui cantando il labbro a bacio muove,
giuocando con il vento e con il Mostro,
e il corpo mostra, ella, divinamente.
Vanno i suoi versi delicatamente
per tutto il Reno, inebriato di mosto.
E tu Alberico, ancor, ancor li udrai!
Erda frattanto governa e destina!
Ecco: Alberico viene e s’avvicina,
e intenso ascolta i caldi e urlanti lai.
Allo scoglio s’aggrappa, e bacia il ventre
di Wellgunde che finge e che l’äiuta
ad andàr presso il viso. Oh Gnomo, il nano!
Ei le bacia le braccia e poi la mano,
e l’arpa prende, scaglia, ed è perduta,
e il labbro pone alle labbra sue; e mentre
il bacio sta schioccando ella lo morde
e nell’onde lo scaglia tra l’ansie orde.
E il Nibelungo ora la maledice.
Ma ecco del Sole una fiammata altrice!

Alberico in sgomento sta in disparte,
e va a una riva, e scruta e guarda e attende,
dei suoi inganni pensando all’orrida arte.
Dall’alto il Sole sul Reno discende,
e illumina i fondali ov’è l’argento,
e il luccicàr dell’oro il nano apprende.
Erda invisibile, Erda, dice al vento
che l’onde sposti, il tesoro mostrando,
e le ubbidisce allor ogni Elemento.
E così ad Alberico, empio, il nefando,
del Reno l’oro compare in fulgore,
e nessun lo difende con un brando.
Del Nibelungo nel lugubre cuore
non v’è più la passione ma il furore;
ed egli chiede: «Oh Ninfe, dite: or come
avèr si può così tanta opulenza,
com’io possa ghermirla e lì portarla
a Nibelheim, al mio regno di brume!».
E le Ninfe, distratte, ed ebbre quasi,
dal Destino incantate, oh Erda la belva!
gli rispondono insieme: «Oh Nibelungo
maledicendo la Possa d’Amore!
Colui che avrà il coraggio di tal gesto
libero avrà ogni varco a questi argenti,
e seminando l’Odio, invitta serpe,
ei godrà d’un Potèr che sarà immane,
più forte questo d’ogni Dio possente,
e il mondo intero, frutto di Erda, avrà.
Oh Nibelungo, non la maledire!».
Ma egli Alberico alle commosse chiome
delle fanciulle inebriate e in demenza,
furiosamente va, e va… va a invocarla -
la Possa santa - e senza senno e acume,
e verso gli ori dai suoi sguardi invasi,
e ivi chiamando a testimòn la selva:
e ogni suo fiore, e ogni salce, e ogni fungo,
ecco, egli maledice, ahimè, l’Amore.
Le Ninfe si ridestano e hanno mesto
lo sguardo ora impietrito, e intorno i venti
con lor combattono e le vìncon. Serpe
oh Erda, oh Erda sei! e le Ninfe son lontane,
e lo Gnomo s’avventa irriverente
sull’oro che gli spetta. Ahi, oh eredità!
E scansano le Ondine ei va a frinire.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
veloci accorrono e contro il crudo
vanamente combàtton. E ombre in nebbie
d’Anime morte dei re Nibelunghi
accorrono al servizio d’Alberico,
lasciati i lor sepolcri, e rùban l’oro.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
fuggire scòrgon con i suoi, lui, il crudo,
verso il dominio della Notte in nebbia,
nell’antro fosco dove i Nibelunghi
i servitori sono d’Alberico,
piangono, e piangono insieme e qui in coro;
e cercano di urlare ai loro Dei,
pallide in volto, scomposti i capei.
L’empio ha rubato il sacro oro del Reno.
Ahi qual s’appresta del Fato il veleno!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXII Novembre AD MMXV

venerdì 20 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VI. Preludio poetico. Le Fanciulle del Reno e Alberico

E mentre Freya agli Dei sale e ai fratelli,
rimàngon sole le Ninfe del Reno,
e Lorelei si lagna e si tormenta,
e alla Dea canta un carme di dolore.
Così giuocando trascòrron quest’ore,
e vêr il mezzogiorno un nembo in lenta
dolcezza piove, e il gemere suo è ameno,
e scorre ei su quei sguardi e freschi e belli, e…
e poscia questa pioggia i venticelli
solleticano ansando ogni bel seno.
Lorelei si ritira nella grotta,
dove sovente piange il suo Destino,
e molte Ninfe la seguono meste.
A scherzàr tra quest’acque rèstan leste,
col crine all’onde asperso e vôlto e chino, e
coi nudi seni e la scialba guanciotta,
e dentro il petto un cuor, un cuor che scotta,
e che è Figlio del Reno, egli, divino,
sol le tre primigenie Ninfe e bionde.
Ecco: Flosshilde, Woglinde e Wellgunde.
E son Sirene, esse, tra le più belle,
eterne e bianche, e guance seducenti,
lievemente arrossate dal lor senso,
ardendo incensi di rose e di viole,
e sorrisi leggiadri, e solitarie
ombre di Notte, allegre eternamente.
L’una fa un scherzo all’altra, e poi si pente,
e la terza danzando e l’acque e l’arie
in vortici dischiude, e ride al Sole,
oltre il nugolo oscùr che mugge immenso;
e son fanciulle divine e ridenti,
nate da un solo grembo, e son gemelle.
Ora scherzano e vanno sugli scogli,
e vanno… e vanno cantando una saga,
e la pioggia finisce, ed è il sereno.
All’orizzonte sta l’arcobaleno,
e la Natura intorno è dolce e paga,
e in fior si càngian i freschi germogli.
Ma a frànger quiete vièn ora un nemico,
da Nibelheim il Re infame, Alberico.

Egli è lo Gnomo delle nebbie oscure,
pìccolo e rozzo, di pelli coperto,
vestito d’orsi, e di lupi sgozzati,
la folta barba fin sul suo ginocchio,
e i capei negri di Morte e di sprezzo;
e qui sul Reno, lo muove una possa,
il Fato di Erda, che muta l’ha fatto
suo nel silenzio d’una Notte infame,
sussurràndogli arcani di Potere,
e promettendo una sposa al suo istinto.
Allòr costui contempla quelle pure
Ninfe che scorge, e tiene in capo un serto,
d’oro e di ossami biechi e trapuntati;
e corrivo… e corrivo sen va il suo occhio
su queste forme di donne e di vezzo,
ed ei per poco qui già non s’addossa,
furioso e incline al senso, e scaltro e matto.
E gli sta intorno d’insetti uno sciame,
e tanto ei odora di vin che va a bere,
e dalle sue Sirene - pensa - è vinto.
E così appena e appena qui nascosto,
Alberico contempla queste carni
di fanciullette natanti, e i loro scherzi,
i canti ingenuamente detti, e i trilli
delle onde quiete e delle lor conchiglie,
solleticate tutte dai bei piedi
danzanti delle Ninfe; e vede ei e ammira
le bianche mani gettàr l’acque in fronte,
e d’acque i lor capelli rigonfiarsi,
e saltellàr i ventri, e i seni tondi.
Egli le vede, e le vuole a ogni costo,
estasiäto dai lor molli carmi,
volti ridenti, e belli e sempre eterni,
i capei saltellanti come grilli.
Le brama tutte… tutte ghermìr Figlie
del sacro Reno. Oh Erda, oh Erda, oh Tu, non vedi?
E il Nibelungo or folle più sospira,
e quietamente va di ninfee a un ponte,
e il suo cuor ne ribolle e sta a infiammarsi,
s’incammina furtivo a’ qui crìn biondi.
Erda, oh meschina, è dunque tuo il meschino
che compirà l’infame e orbo Destino?

«Weia, Waga, Waga!» càntan le fanciulle:
«Oh Reno, oh Reno, custodisci il tuo oro!
Abbi tu a cuore, oh tu, le nostre perle,
e il nostro argento, degli Dei custode!
E vieni qui a cullare i scherzi nostri,
e le canzoni che cantiamo insieme,
sorelle in festa della tua Natura!
Weia, Waga, Waga! Riddiamo felici!»
càntan le Ninfe all’ombra di betulle:
«Oh come il flutto tuo s’è fatto moro,
acque raggianti tanto dolci a berle;
e il nostro scoglio lentamente erode
le sue pietre e i suoi sassi, e i freddi rostri!
Sorelle in festa: ora cantiamo insieme!
Oh acqua, oh acqua, fresca, eternamente pura!».
Ma qui procede con l’ombra sua oscura
il Nibelungo dal Regno di brume,
che ovunque porta la Notte sua orrenda,
nebbioso spettro del Nord dei Folletti,
ammaliäto da quel canto udito
che è misterioso e che è voce di dama; e
ei s’avvicina… s’avvicina e azzarda
lo sguardo ancora sulle femminine
forme, non visto - lo scaltro! - e sorride,
perverso come una Furia indomata,
e spia le schiene sedute allo scoglio,
pelle dorata d’estatico lume.
E alfine il bruto si fa avanti udendo
la paüra sconvolta delle Ninfe,
e i loro acerbi sospìr e i lor detti,
e sempre ei più le mira, ed è smarrito,
e nei lor sguardi lievemente sfama
la sua brama brutale; e poscia guarda
tra l’acque sacre le sue fanciulline,
riparate nell’onde, la spogliata
pelle lì proteggendo… lì, sul soglio
del santo fiume, fino al collo immerse,
e arrossite per tanta lor vergogna,
e maledìcon quest’infame Gnomo
il qual sogghigna e poi se ne rallegra,
inchinàndosi ai flutti, vêr di loro.
Così gli vèdon il sembiante moro,
e questa lunga barba ansiosa e negra,
e lo sprèzzano queste: «Non è un uomo!»,
e gli lànciano un’onda. Ahi quale rogna!
E qui dal Reno sono sempre asperse.
Ma egli, Alberico, porge le sue terse
mani, e non sa ei che è come su una gogna.
«Fanciulle belle» egli soävemente dice:
«Ah perché nascondete l’alme forme:
i seni vostri, e i ventri, e l’anche, e i fianchi?».
E le Sirene vòlgono i lor bianchi
volti, si guàrdan, e invòcan le Norne,
e già un silenzio ora le maledice.
«Fanciulle belle!» sclama l’infelice
che sulla terra lascia piccole orme.
Ma più fatale d’una cupa runa
chi gli risponde, ahimè, se non nessuna?

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì XX Novembre AD MMXV

sabato 14 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

V. Senso, Bellezza e Desiderio del Reno

Erda ha giurato: vendetta sia! E fugge,
Erda, alle nebbie svanendo nella Notte. E
qui Ygdrasìl trema oscuro e inferocito,
e le alte fronde del Fato son ombre,
lì, tra l’argento della Luna impura, oh
quercia, sotto cui si radunano i lupi, i
famelici Orchi della sera invitta, e
manti di Morte affamati di ragne.
E qui segretamente e lento rugge,
ei, il Regno del Destino, e alle sue grotte
ogni Norna lamenta. E l’infinito
aëre delle Furie, ei, orrido e informe
va. E fuori il cielo sempre più si oscura, e
domina i monti, e i vàlichi, e i dirupi.
Ogni Elemento danza una sua ridda,
e l’orizzonte fa eco alle sue lagne.
Erda, Erda è Spettro che vaga ululando,
e alle sue cure paziente provvede,
Erda, la Dea invidiosa. Oh la Ribelle!
Ed ella avvolta in Tutto va pensando,
e qui terribilmente più non cede, e
delle Valchirie vuol forse le selle.
Così lenta vien l’alba, e il nuovo giorno!
Tenebre fitte s’aggìran d’intorno.

Ora, mentre la Notte s’abbandona
a un mattutìn riposo, e dorme, e mentre
il primo Sole dà un bacio alla Luna,
e intanto che Ygdrasìl esausto trema
con le sue foglie in preda alla rugiada,
e quando tra le sue onde splende l’oro
del sacro fiume, specchio della stella,
tra gli Gnomi custodi, ebbri di vino,
Freya a uno scoglio si siede; e all’acque dona
un suo sorriso, un sospìr del ventre
che il seno muove nell’aurora bruna.
Ed è un sèn che non sa l’empio anatèma
che Erda gli ha ordito, Erda, la Dea sprezzata;
e che bello si erige, scialbo, e moro
dove un dì sarà il latte. Oh Freya, la bella!
Ed ella è Vita, Infinito divino,
e specchiàndosi a un’onda, ora innocente
si pettina i capei con la conchiglia
che in mano tiene: lì i riccioli biondi,
e qui le trecce presso le orecchie
che come baci scendono alla gola
solleticandole il corpo che ride,
e qua, lisci alla nuca, e ora là, dietro
il collo a ricoprirsi un po’ di schiena, e…
e una ciocca alle spalle. Oro… oro… e Sole!
E le pupille azzurre sulle viole
presso una riva si posano, amena
Dea di Bellezza e Gioventù. E sul vetro
delle sacre acque, ella, il suo sguardo incide,
un volto che nel vìver si consòla;
e lungi scorge gli scogli e le vecchie
foreste antiche, e in ciel i vagabondi
rondoni inquieti. E ha bionde ciglia,
nuda e selvaggia, qui, innocentemente;
e annoda ai fianchi un drappo falbo e intenso,
a ricoprirsi il femminino senso.

Oh mai veduta beltà, e mai Dea attesa!
E mai cantata giovinezza e donna!
Ella sta muta, e accarezzando il crine,
e poi solleticando il fianco, trae
le gambe sullo scoglio, e i piedi appoggia
dolci sul Reno, sensualità casta,
e con lor dita arpeggia l’acque fresche,
e canta le canzoni delle Ninfe,
un giorno prima apprese; e sotto i rai
del Sole vive, e le Ondine ridesta.
Tiene i capelli, e non lascia la presa,
e ride verso la pìccol sua gonna,
e ammira le lontane e bianche cime
dove l’attèndon gli Dei, e protrae
a queste il canto suo, rorida pioggia
d’insolite ansie; e ignora la nefasta
Sorte, e le Norne, possanze donnesche.
Ed ella sola tiene alle sue grinfie
il corpo suo, e ora scherza. Lorelei[1]
canta con lei, e l’invita a fare festa.
E Freya la segue, e qui cantano insieme,
e l’orizzonte si apre alle lor voci e…
e Freya cantando soffia aliti caldi
alle sue braccia e agli zefiri primi,
desiderosa di Vita e di gaudi; e
desiderosa di Vita e di gaudi
ell’è dassenno, coi sguardi sublimi,
col sensuale torace, e i sembianti alti,
labbra assassine dei venti più atroci,
e ricca di Bellezza, e poi di speme. Oh
desiderosa di Vita e di gaudi!
Ora le Ondine vanno alla sua cetra,
e le pòrgono i seni, e i ventri e gli occhi,
e come Lorelei, càntan con lei.
E questi suoni sentono gli Dei,
e codesti soävi e bei rintocchi,
e allor un Messaggèr màndan dall’etra.
E allora un Elfo scende, e va sul Reno,
e fulminato vièn da questo seno.

Ei si presenta alla Dea e dice poscia:
«Vieni con me: gli Dei ti vòglion presto,
e a te son io mandato. Sali ai monti!
Scherzerai dopo con queste Sirene;
ora sèguimi, andiamo. Ecco una veste!»;
e detto questo ei le dà un peplo e un drappo,
e poi le mostra le valli divine:
«Lorelei, oh Lorelei, canta per lei
che tra di noi festosamente inciela!».
E Freya lo ascolta, e il collo, il sen, la coscia
febbrilmente ricopre. Oh peplo mesto!
E con quest’Elfo sale agli orizzonti,
e invitte ha nel suo cuor le giòvin lene,
e guarda e ammira le tetre foreste.
E intanto l’Elfo gode e beve un nappo,
Messaggero fatale, al ber inclìne.
E così Freya a conòscer va gli Dei.
Ahi qual sciagure non sa, ahimè, costei!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XIV Novembre AD MMXV



[1]  Lorelei, si pronuncia Lorelài, è la mitica Sirena del Reno. Regina delle Ondine, con il suo canto affascinava chiunque la ascoltasse.