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martedì 6 ottobre 2015

La Ballata dell'Ondina del Reno

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
tra le nebbie del Reno i vapori,
Ondina la fanciulla del re delle onde,
la bella ninfa, e il dolce cuore suo,
quando canta con l’arpa delle Norne
sotto lo strale della scialba Luna.

Perché volete sapere di lei?
Chiunque la ha scrutata è presto morto.
Perché volete sapere di lei?
Ella dòmina il vento e ogni Destino.
Orsù! Chiedètelo al mio pescatore,
è uno spettro che vaga nella Notte,
è stato ucciso da uno sguardo amabile
di questa Dea che lievemente arpeggia.
Chiedètelo al mio pescatore morto,
se mai incontrate la sua Anima oscura.

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
ci dicono che è bella e che è bionda,
Ondina argentea dell’oro delle acque,
la selvatica ombra che racconta i suoi
spasimi antichi, nelle orrende Furie
dei tremuli naufragi della sera.

Tacete, ignari, di questo mistero!
La sua bellezza dischiude la tomba.
Tacete, ignari, di questo mistero!
È meglio non udire le sue nenie.
Domandàtelo al figlio del prìncipe,
è uno scheletro bruto sulle sponde,
lo hanno affogato le Ondine ribelli,
mentre rideva la vostra fanciulla.
Domandàtelo al figlio del prìncipe,
quando inciampate nelle sue ossa orrende.

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
del canto che dischiude il suo labbro,
Ondina cara alle nubi del vespro
e agli irrequieti sogni dei barcaiuoli,
estasi folle del senso notturno
di chi viaggia confidando nel buio.

Di qua fuggite, prima che sia tardi!
O moriremo tutti al suo bel trillo.
Di qua fuggite, prima che sia tardi!
Sol io ho il potère di intènderne il canto.
Ma se la Ninfa mi vede con voi
mi annegherà nel vortice di un ballo,
e muterò in uno spettro blasfemo,
muto e insepolto e non avrò riposo.
Ma se la Ninfa mi vede con voi,
mi attoscherà con il suo crine inquieto.

Raccòntaci di Ondina nel suo ninfale,
il letto delle rive del Reno,
Ondina sacra agli Dei degli stagni
che è la figlia di un sogno sofferente
nel visionario tramonto del cielo,
dove la Luna emerge dal Nulla del monte.

Voi disfidate la Sorte iraconda,
non vi son che sepolcri che ci inghiòttono.
Voi disfidate la Sorte iraconda,
sentite il trillo: è la Morte che incombe!
Raccontiamo di Ondina nel suo ninfale:
siamo spettri nella tomba delle tenebre!  


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì VI Ottobre AD MMXV

La Ballata del Sogno di Ottobre

Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!
E valica egli le cime dei monti, e…
e delle selve dove un dì ei gridava.
Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh! E
sogna agli eterni e incogniti orizzonti, oh
cuore di Anima ignava! E
sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!

Perché sognàr mi dico quand’ei è vano, e
mentre la brina e fredda e scialba scende, e… e
sognàr remoti sensi, e il mio lontano
avvenire? E il mio cuore attende, e attende
istanti più felici; e allòr lo prende
un sentìr di tristezza mai finita. Eh!
Che? Per vent’anni fuggì la sua Vita? E…
e dunque geme, e grida, e si vergogna.

Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!
E lambisce le montane e vecchie fonti, e…
e i suoi alpini sentièr che valicava.
Sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh! E
sogna vagàr per gli irrequieti ponti, oh
cuore di Anima ignava! E
sempre nebbie: è l’autunno, e il cuor mio sogna, eh!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì VI Ottobre AD MMXV

martedì 12 maggio 2015

La Ballata dell'ultimo Addio

A un tetro sguardo delle nubi oscure
che tra le frasche la Luna argentava,
presso un cupo castello s’inquietava
un’ombra che lagnò d’aspre sventure.

Una finestra rifletteva un fosco
lume, e il verone alle molli candele
si giaceva, e infiammava il cupo bosco
e il pruno al pioppo spergiuro e infedele;
e l’espèo ciel spandeva un fior di miele
alle lontane vette, e l’ombra urlante
dalle pietre fuggiva, e spasimante
canzoni bieche ne gridava e dure.

Presso un cupo castello s’inquietava
un cavalier che lagnò aspre sventure.

Al venir dell’aurora una fanciulla
discinta lo seguiva, e scalza e mesta.
Braccia gli avvinse al collo e a una betulla
singhiozzando ‘l baciava; e la foresta
le piogge ne gemea d’una Tempesta,
ed ei sorrise, ed ella al labbro ‘l pose
l’indice e disse: «Taci!», ed ei le rose
delle gemme - ei! - baciava albine. E pure,

presso un cupo castel che s’inquietava
e al cavalier che lagnò aspre sventure,

nel silenzio albeggiante e in questo nulla
ella lagnava, e ‘l zittiva, ed ei a questa
mano di donna or piegava, e la culla
dell’Amor si scorreva, e l’alte gesta
ei le cantava, dond’ella funesta
udìa forse un presagio di tormento,
ed ei ‘l placava, ed ella al fresco vento
dell’alba si commosse; e le radure
gemevano, e la Luna or tramontava.

Presso un cupo castello s’inquietava
un’ombra che lagnò d’aspre sventure.

Il cavalier, allor, di tante cure
al veniente mattin si tormentava,
e costei al volto estatico mirava,
ed ella sospirò tra l’ombre impure;

ed ei la prese ai fianchi, ed ella in punte
tra i sterpi alzava i piedi, e il volto al petto
dov’era il cuor gentil del suo diletto
follemente posò, e le man congiunte

s’accarezzàvan reciprocamente,
ed ella udiva i palpiti, ed ei ardiva
berle il sospiro del labbro sveniente,
ed ella rise, ed ei beò, ed ella ambiva
i battiti baciargli; e si tradiva
un respir di paüra, e l’onde intrise
di pianto ei ne crollava, e un dito mise
al suo labbro, e costei ‘l baciava e, funte

l’ore del duol co’ sopraggiunte speni,
ambedue si miravan nell’aspetto,
e scendevano inquiete al lor cospetto
le piogge dalle nubi in ciel disgiunte,

e a lei solleticò un tremore i seni,
e le mancàvan la forza e il detto.

Presso un cupo castello s’inquietava
un cavalier che lagnò aspre sventure.

Frattanto l’orizzonte si brillava,
e la Notte scendeva, e l’alba svelse,
e nell’abbraccio il messer seguitava
a calmar la fanciulla; e l’ombre eccelse
dei valichi lontani contemplava,
ed ella il guardo posava a quest’else
d’arida Morte; e costui si scioglieva
dall’amplesso soäve, e si piangeva…

e stava per scostar quand’ella colse
la sua destra fuggente, e in soffio ‘l prese,
ed ei allor si voltò: e un guardo li avvolse
perdutamente estremo, e un urlo intese,
e gridò il Fato, e furioso si dolse (in)
timidi sguardi! E la Notte or si arrese,
di lui l’occhio contro il suo, e contro il mondo,
fulmine invitto d’Amore iracondo.

Angeli d’occhi parlavano intensi,
e le pupille baciàvansi, e il liuto
risuonato dal vento in suoni densi
cantava una romanza; e il suo perduto
cavalier ne spargeva i baci, incensi
d’Amore sacro a un capello svenuto
della madama che piangeva intanto,
molle ricordo dell’udito canto.

Egli tornava alla dama perduta,
e l’occhio la incontrava, e nel sottile
strale dell’alba schioccava febbrile
un ultimo baciar, la spene muta.

Tendeva il corpo suo al seno suo, al manto
della veste sua falba, e lo guardava
ella che pianse, e al collo suo affranto
le braccia ancor gli avvinse, e lo chiamava,
e le mani piccine gli posava
alle guance, e ‘l baciava, ed era stretta
di costui nell’abbraccio, e la saëtta
del bacio si schioccava ormai voluta:
ed ei le morse il labbro, ed ella il mento,
i denti sulle labbra, e i mordicchianti
sguardi, i respiri confusi nel vento,
cuor contro i cuori dolci e spasimanti,
e i respinti spergiuri, e le promesse,
l’aspettative all’Ignoto dimesse.
Nel bacio si passò l’ora temuta!

Egli tornava alla dama perduta,
e l’alba s’avanzava orba e febbrile.

Allora tra le nebbie si svaniva
come un’ombra d’un spettro il cavaliere,
e nell’Ignoto costei lo seguiva
oltre le smorte del cielo le cere,
e le pupille or piangevano fiere.
Alla guerra partiva il Trovatore,
un bacio solo, una Notte d’Amore,
‘la tra le fronde s’udiva svenuta.

E venne l’ora da sempre temuta,
l’ultima sera d’un sogno d’aprile;
ed ei n’errava, ed ella a un bosco vile
pianse, lagnava, e morì… alma perduta!

Perì per le doglianze dell’Amore,
al suol distesa qual foglia cadente,
e spirando sentiva la canzone
dell’arpa trobadorica nel vento.

Ma eternamente nel sogno ghermiva
un bacio sempiterno, e l’annegava
la foresta irridente, e la divina
Natura; e ancora lenta s’allontana
nella Morte feroce la madama,
e urla, grida e s’infuria al ciel infausto,
d’osso il crine disotto argenteo nastro,
e il grido suo l’orizzonte ne intende.

‘La spirando sentiva la canzone
dell’arpa trobadorica nel vento.
Perì per le doglianze dell’Amore,
al suol si giace qual foglia cadente.

Folle, o tu che cammin, vagabondando d’Amore,
ell’è tua muta tomba, misero Trovatore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XII Maggio AD MMXV

martedì 3 febbraio 2015

Corona di Ballate romantiche - I Canti d'un Bardo in una Notte di Germania

Proemio - Un Inno alla Luna

Oh tu che t’addormenti in cielo, o Luna,
in questa Notte bruna
e che soävemente un’ansia cuna
allumini nel bosco,

ahi quanto se’ pallente, e quanto ispiri
questo cantar tra’i carpin e i desiri,
e in sotto a un nembo fosco;

sicchè di te ‘l Poëta i’ son, e in cura
pella tetra radura
questi canti ne soffio, e d’arpa oscura
perennemente attosco,

e scialba m’apparisce or sempre l’iri,
volto di te che pe’i cieli ne giri,
e in un notturno chiosco.

Figlia de’i Numi se’ tu, oh l’alba Luna,
tra l’aura e fresca e bruna,
e qui soävemente un’ansia cuna
allumini nel bosco;

e quanto se’ pallente, e quanto ispiri
questo cantar tra’i carpin e i desiri,
e in sotto a un nembo fosco!

Canto per te le tenzoni e la cura
che in cor mi sta, e in radura,
gemo le corde dell’arpa che oscura
di lagrime n’attosco,

e lagno alle dorate guance e all’iri,
volto di te che pe’i cieli ne giri,
e in un notturno chiosco.

Diva de’i Cieli se’ tu, oh mesta Luna,
pallida, e falba e bruna,
e qui soävemente un’ansia cuna
allumini nel bosco;

e quanto se’ pallente, e quanto ispiri
questo cantar tra’i carpin e i desiri,
e in sotto a un nembo fosco!

Un Canto dinnanzi al Cenere degli Eroi

Tremulo ‘l piede calpesta l’ossame
‘ve i prodi si pugnavano, e la Notte
di perenne ed eterno e reo fogliame
scialba ne copre pell’orride motte.

Allor qui mi sovvien del cener muto
de’i guerrier e de’i bardi, e in forme nere
bieca la Luna n’avvolge, e ‘l perduto
usbergo si rimane in tetre cere,
e in ossa omai ne son le cieche schiere,
pendon da’i rami gli spettri romani,
e ‘l vento ne disperde de’i sovrani
i teschi e le lagnanze in cupe lotte.

Orme di sangue ne veggo e di rame
presso le querce, e le farnie e le grotte;
e un perenne ed eterno e reo fogliame
scialbo ne copre pell’orride motte.

Pallido Arminio rimembra le lame,
cupo l’intendo: lamenta l’irrotte
aquile indarne, di lauri n’han fame,
ma del Fato ne son le daghe indotte;

e così al suo membrar in man n’ho ‘l liuto,
e ‘l pizzicando canto all’orbe, e a’ fiere
lugubri spoglie ne volgo ‘l mio fiuto,
e alle fronde pallenti e torve e altère,
e le tombe si stanno e lusinghiere
copron le chiome de’i tristi Germani,
e intorno non vi son che sassi arcani
a gridar le ferite - e a Morte! - indotte.

Eppure de’i rival le truci brame
vane ne fûro, legioni in ree frotte;
aquile indarne, di lauri n’han fame,
ma del Fato ne son le daghe indotte,

e ‘l cener n’è sol Notte,
e ai sepolcri si volge, ed è chirurgo
d’alme che spirano, e fia Teutoburgo.

Un Canto a’ Piè delle notturne Sponde del Reno

All’argento ondeggiante - in ciel la Luna -
un guardo ne rivolgo, e l’arpa accordo,
l’onde ne fendo pell’agile cruna
dell’aëre che tace, un labbro sordo.

Ora si scende la lagna del canto
a’ fanghi indefiniti e agli alvei incerti,
e trilla - come l’astro al negro manto
dell’acqua che singhiozza - ‘l sòno, e aperti
i fondali si stanno, e l’ôr e i serti
di Notte brillano, e d’arcobaleno
or lo Gnomo si splende, e ‘l freddo Reno
qui dolcemente ghiaccia in tetro fiordo.

Così e ancor ne declamo un’ansia runa,
saga d’ignoti cui vivo è ‘l recordo,
l’onde ne fendo pell’agile cruna
dall’aëre che tace, un labbro sordo.

Narra ‘l Poëma che gemo alla bruna
Notte: di cimba sen stavano a bordo
i trepidi guerrieri, e a vaga cuna
un’ondeggiar s’ergeva, e folle e ingordo.

Voce di dama spremé un Temporale,
lugubre ‘l cielo pioveva la Morte,
e a un scoglio che infuriava - e fu fatale! -
si giaceäno or meste e ignude e accorte
d’ansia Sirena le forme; e la Sorte
gli incauti ne ferìa, e l’onde schiudeva,
e ‘l legno or qui natante omai scendeva,
e ‘l flutto sen restò di grida or lordo.

Allor all’acquitrina e scialba duna
per paüra le nubi e ‘l ciel ne mordo;
e furono i guerrieri, e a vaga cuna
un’ondeggiar li prese, e folle e ingordo.

Ma d’un’arpa si sente un solo accordo,
un cupo canto al fiordo,
e i’ son che la percòto a un nembo sordo,
e al Reno or pien di lai;

e chiedendomi vò se sia nel sonno
colei le cui canzon dannar ne ponno,
la bella Lorelei!

Un Canto d’Elegia alle Villi

La tenebra si brilla, e l’astro annera,
e un cerbiatto s’asconde, e fugge mesto,
e lugubre ne grida or l’orba sera,
pallido un astro si lagna funesto.

Funebre un mirto ne’ tristi querceti
in tremore si giace, e un cener vago
d’empi arboscelli ne copre e gl’inquieti
di vergini gli ossami, e l’aër pago;
e la Luna ‘l trafigge - è scialbo un ago! -
e un’ombra si dischiude in tanti strilli,
mesta fanciulla, la preda alle Villi,
nelle fauci di Morte un dolce incesto;

e tra l’altre compagne e tetra e fiera
danza alla Notte che viene qui presto,
e lugubre ne grida or l’orba sera,
pallido un astro si lagna funesto.

I’ ‘l scarno ne contemplo ‘l volto in cera
candida, e ‘l spettro si scalpita lesto,
una dolce e perduta Primavera,
un frutto del morir che qui detesto.

‘La giovine morìa, e in pria dell’imene,
una vipera ‘l morse, e in Fato reo
cerula scese alle terre ‘ve spene
non è che un sogno incerto, un van trofeo;
e di questo fantasma or qui mi beo,
e alla destra ne porta i truci teschi
delle vergini antiche e i cener freschi,
sicchè a tremar cotanto omai m’appresto;

e sibbene ne sia e spasmante e altèra,
bella m’appare; e alle Dive contesto
una dolce e perduta Primavera,
un frutto del morir che qui detesto.

Uditemi, oh Asi; e presto
a quest’alma che vaga ognor smarrita,
date una spene, donate la Vita!

Un Canto in un Istante di Tempesta

Dönner si lagna, da un nembo ne gronda
la lagrima d’un Nume in furie oscene,
come le stille del sangue alle vene,
e alla Luna che ascosta e rea rosseggia
una nube di pece ormai lampeggia,
e ne fia la Tempesta e rea e iraconda.

Negra di lampi e lontana una cima
e a valle si lamenta in Notte falba,
e in tra l’aspre saëtte or si sublima,
fulva d’un Sole che tace in fin l’alba,

e la selva le piogge or beve, e intòna
la Furia che divina si compiace,
e ora e quivi quest’arpa al cielo sòna
meco la lagna del nembo rapace,
e a’ tòni e al grandinar manca la pace,
e un lampo si difforma, e disumano
splende in sul bosco del rege germano,
e in sulla torva vetta e oscura e balba.

Allor i’ ne contemplo i strali all’ima
selva che in lampi si làgnasi scialba,
e in tra l’aspre saëtte or ‘la sublima(si),
fulva d’un Sole che tace in fin l’alba.

Dönner s’acqueta, e la landa fia d’onda,
e la grandine posa a’ malto e avene,
e un’iri si traluce in lieta spene;
e alla Luna che piena e pia biancheggia
una nube di quieta ormai lampeggia,
e ne fu la Tempesta e rea e iraconda,

e la saëtta bionda
ancor lungi si splende e si tormenta,
ma quivi omai la calma, qui, s’avventa.

Un Canto d’una Valchiria

«Fendo le nubi del vespro, e ‘l destriero
segue degli astri di Morte ‘l sentiero,
svelta i’ rapisco lo spirito fiero
del prode che in tenzone e in lagne muore!»,

canta la trista e fatale Valchiria,
pel cielo che lampeggia or della Stiria,
la Regina de’i Morti e del Dolore;

e bionda di capei e giovin d’aspetto
un bruno palafren galoppa, e attende
di rapir con femmineo e molle affetto
quei che lo spirto al Destino ne vende.

Così pe’ nembi veste al sen l’usbergo,
e l’elmo di rubin il crin raccoglie,
e perenne in sul ciel ne trova albergo
e alle Vite de’i prodi, or fragil foglie,
e al Vallhalla ne corre, e come in moglie,
all’ossa e a’ teschi e al cener or si dona,
e mentre la tenzon feroce tòna
un guerriero lo spettro al Nume rende.

Allor ‘la ne discende e a passo schietto
le man di tristo acciaro al miser tende,
e ‘l fere con femmineo e molle affetto,
ei che lo spirto al Destino ne vende.

«Scalpito svelta al fatal cimitero,
scialbo rapisco lo spirto guerriero,
balzo nel cielo del vespro ch’è nero,
e in tra’i morti si giova ‘l mesto core!»

canta la trista e fatale Valchiria,
pel cielo che lampeggia or della Stiria,
la Regina de’i Morti e del Dolore.

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì II, Martedì III Febbraio AD MMXV