Proemio - Un
Inno alla Luna
Oh tu che t’addormenti in cielo, o Luna,
in questa Notte bruna
e che soävemente un’ansia cuna
allumini nel bosco,
ahi quanto se’ pallente, e quanto ispiri
questo cantar tra’i carpin e i desiri,
e in sotto a un nembo fosco;
sicchè di te ‘l Poëta i’ son, e in cura
pella tetra radura
questi canti ne soffio, e d’arpa oscura
perennemente attosco,
e scialba m’apparisce or sempre l’iri,
volto di te che pe’i cieli ne giri,
e in un notturno chiosco.
Figlia de’i Numi se’ tu, oh l’alba Luna,
tra l’aura e fresca e bruna,
e qui soävemente un’ansia cuna
allumini nel bosco;
e quanto se’ pallente, e quanto ispiri
questo cantar tra’i carpin e i desiri,
e in sotto a un nembo fosco!
Canto per te le tenzoni e la cura
che in cor mi sta, e in radura,
gemo le corde dell’arpa che oscura
di lagrime n’attosco,
e lagno alle dorate guance e all’iri,
volto di te che pe’i cieli ne giri,
e in un notturno chiosco.
Diva de’i Cieli se’ tu, oh mesta Luna,
pallida, e falba e bruna,
e qui soävemente un’ansia cuna
allumini nel bosco;
e quanto se’ pallente, e quanto ispiri
questo cantar tra’i carpin e i desiri,
e in sotto a un nembo fosco!
Un Canto dinnanzi
al Cenere degli Eroi
Tremulo ‘l piede calpesta l’ossame
‘ve i prodi si pugnavano, e la Notte
di perenne ed eterno e reo fogliame
scialba ne copre pell’orride motte.
Allor qui mi sovvien del cener muto
de’i guerrier e de’i bardi, e in forme nere
bieca la
Luna n’avvolge, e ‘l perduto
usbergo si rimane in tetre cere,
e in ossa omai ne son le cieche schiere,
pendon da’i rami gli spettri romani,
e ‘l vento ne disperde de’i sovrani
i teschi e le lagnanze in cupe lotte.
Orme di sangue ne veggo e di rame
presso le querce, e le farnie e le grotte;
e un perenne ed eterno e reo fogliame
scialbo ne copre pell’orride motte.
Pallido Arminio rimembra le lame,
cupo l’intendo: lamenta l’irrotte
aquile indarne, di lauri n’han fame,
ma del Fato ne son le daghe indotte;
e così al suo membrar in man n’ho ‘l liuto,
e ‘l pizzicando canto all’orbe, e a’ fiere
lugubri spoglie ne volgo ‘l mio fiuto,
e alle fronde pallenti e torve e altère,
e le tombe si stanno e lusinghiere
copron le chiome de’i tristi Germani,
e intorno non vi son che sassi arcani
a gridar le ferite - e a Morte! - indotte.
Eppure de’i rival le truci brame
vane ne fûro, legioni in ree frotte;
aquile indarne, di lauri n’han fame,
ma del Fato ne son le daghe indotte,
e ‘l cener n’è sol Notte,
e ai sepolcri si volge, ed è chirurgo
d’alme che spirano, e fia Teutoburgo.
Un Canto a’
Piè delle notturne Sponde del Reno
All’argento ondeggiante - in ciel la Luna -
un guardo ne rivolgo, e l’arpa accordo,
l’onde ne fendo pell’agile cruna
dell’aëre che tace, un labbro sordo.
Ora si scende la lagna del canto
a’ fanghi indefiniti e agli alvei incerti,
e trilla - come l’astro al negro manto
dell’acqua che singhiozza - ‘l sòno, e aperti
i fondali si stanno, e l’ôr e i serti
di Notte brillano, e d’arcobaleno
or lo Gnomo si splende, e ‘l freddo Reno
qui dolcemente ghiaccia in tetro fiordo.
Così e ancor ne declamo un’ansia runa,
saga d’ignoti cui vivo è ‘l recordo,
l’onde ne fendo pell’agile cruna
dall’aëre che tace, un labbro sordo.
Narra ‘l Poëma che gemo alla bruna
Notte: di cimba sen stavano a bordo
i trepidi guerrieri, e a vaga cuna
un’ondeggiar s’ergeva, e folle e ingordo.
Voce di dama spremé un Temporale,
lugubre ‘l cielo pioveva la Morte ,
e a un scoglio che infuriava - e fu fatale! -
si giaceäno or meste e ignude e accorte
d’ansia Sirena le forme; e la Sorte
gli incauti ne ferìa, e l’onde schiudeva,
e ‘l legno or qui natante omai scendeva,
e ‘l flutto sen restò di grida or lordo.
Allor all’acquitrina e scialba duna
per paüra le nubi e ‘l ciel ne mordo;
e furono i guerrieri, e a vaga cuna
un’ondeggiar li prese, e folle e ingordo.
Ma d’un’arpa si sente un solo accordo,
un cupo canto al fiordo,
e i’ son che la percòto a un nembo sordo,
e al Reno or pien di lai;
e chiedendomi vò se sia nel sonno
colei le cui canzon dannar ne ponno,
la bella Lorelei!
Un Canto
d’Elegia alle Villi
La tenebra si brilla, e l’astro annera,
e un cerbiatto s’asconde, e fugge mesto,
e lugubre ne grida or l’orba sera,
pallido un astro si lagna funesto.
Funebre un mirto ne’ tristi querceti
in tremore si giace, e un cener vago
d’empi arboscelli ne copre e gl’inquieti
di vergini gli ossami, e l’aër pago;
e la
Luna ‘l trafigge - è scialbo un ago! -
e un’ombra si dischiude in tanti strilli,
mesta fanciulla, la preda alle Villi,
nelle fauci di Morte un dolce incesto;
e tra l’altre compagne e tetra e fiera
danza alla Notte che viene qui presto,
e lugubre ne grida or l’orba sera,
pallido un astro si lagna funesto.
I’ ‘l scarno ne contemplo ‘l volto in cera
candida, e ‘l spettro si scalpita lesto,
una dolce e perduta Primavera,
un frutto del morir che qui detesto.
‘La giovine morìa, e in pria dell’imene,
una vipera ‘l morse, e in Fato reo
cerula scese alle terre ‘ve spene
non è che un sogno incerto, un van trofeo;
e di questo fantasma or qui mi beo,
e alla destra ne porta i truci teschi
delle vergini antiche e i cener freschi,
sicchè a tremar cotanto omai m’appresto;
e sibbene ne sia e spasmante e altèra,
bella m’appare; e alle Dive contesto
una dolce e perduta Primavera,
un frutto del morir che qui detesto.
Uditemi, oh Asi; e presto
a quest’alma che vaga ognor smarrita,
date una spene, donate la Vita !
Un Canto in
un Istante di Tempesta
Dönner si lagna, da un nembo ne gronda
la lagrima d’un Nume in furie oscene,
come le stille del sangue alle vene,
e alla Luna che ascosta e rea rosseggia
una nube di pece ormai lampeggia,
e ne fia la Tempesta e rea e iraconda.
Negra di lampi e lontana una cima
e a valle si lamenta in Notte falba,
e in tra l’aspre saëtte or si sublima,
fulva d’un Sole che tace in fin l’alba,
e la selva le piogge or beve, e intòna
e ora e quivi quest’arpa al cielo sòna
meco la lagna del nembo rapace,
e a’ tòni e al grandinar manca la pace,
e un lampo si difforma, e disumano
splende in sul bosco del rege germano,
e in sulla torva vetta e oscura e balba.
Allor i’ ne contemplo i strali all’ima
selva che in lampi si làgnasi scialba,
e in tra l’aspre saëtte or ‘la sublima(si),
fulva d’un Sole che tace in fin l’alba.
Dönner s’acqueta, e la landa fia d’onda,
e la grandine posa a’ malto e avene,
e un’iri si traluce in lieta spene;
e alla Luna che piena e pia biancheggia
una nube di quieta ormai lampeggia,
e ne fu la
Tempesta e rea e iraconda,
e la saëtta bionda
ancor lungi si splende e si tormenta,
ma quivi omai la calma, qui, s’avventa.
Un Canto d’una
Valchiria
«Fendo le nubi del vespro, e ‘l destriero
segue degli astri di Morte ‘l sentiero,
svelta i’ rapisco lo spirito fiero
del prode che in tenzone e in lagne muore!»,
canta la trista e fatale Valchiria,
pel cielo che lampeggia or della Stiria,
e bionda di capei e giovin d’aspetto
un bruno palafren galoppa, e attende
di rapir con femmineo e molle affetto
quei che lo spirto al Destino ne vende.
Così pe’ nembi veste al sen l’usbergo,
e l’elmo di rubin il crin raccoglie,
e perenne in sul ciel ne trova albergo
e alle Vite de’i prodi, or fragil foglie,
e al Vallhalla ne corre, e come in moglie,
all’ossa e a’ teschi e al cener or si dona,
e mentre la tenzon feroce tòna
un guerriero lo spettro al Nume rende.
Allor ‘la ne discende e a passo schietto
le man di tristo acciaro al miser tende,
e ‘l fere con femmineo e molle affetto,
ei che lo spirto al Destino ne vende.
«Scalpito svelta al fatal cimitero,
scialbo rapisco lo spirto guerriero,
balzo nel cielo del vespro ch’è nero,
e in tra’i morti si giova ‘l mesto core!»
canta la trista e fatale Valchiria,
pel cielo che lampeggia or della Stiria,
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Lunedì II, Martedì III Febbraio AD MMXV
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