C’era in Catai un giovine Imperatore
che cercava per prendere una sposa.
Venne la figlia di un dei Mandarini,
gli si prostrò e regalando oro e
argento
disse: “Signore, se mi reputaste
degna d’esservi moglie mai - lo giuro -
vi mancherebber simili tesori!”.
Ma il giovinotto sedeva annoiato
sul trono e forse non la udì nemmeno
sì che ella uscì con mille scuse e
inchini.
Giunse la figlia dello Scià di Persia
con un’intera carovana e tante
danzatrici: “Signore, il Re, mio padre,
vi manda i suoi saluti e vi vuol dire
di accettarmi qual sposa; allor dei due
Regni sarà uno solo e un sol tesoro”.
Ma il giovinotto non sembrò colpito,
cosicché congedò tutti. Poi venne
ricolma d’arme la figlia del Khan,
che gli promise in dote mille e mille
guerrieri per conquistar tutto il
mondo.
Ma ancora l’Imperator più non scelse.
Così passarono da lui le figlie
degli shogun, dei samurai, del Moghul,
le pallide fanciulle degli Czar,
dei Boiardi e costor portavano oro,
adamanti, tesori, arme, gioielli;
ma egli tutte quante ben disdegnava.
Venne una contadina, mal vestita,
con in spalla una scimmia tutta bianca,
con dei sacchi di riso e dei cestini
di germogli di tè: “Vengo a te e porto
questi poveri frutti di campagna,
le uniche cose che ho e che ti dò
volentieri, e con questa scimmia bianca
che mi aiuta il tè a raccogliere quando
germoglia. Sono doni molto poveri,
ma una volta io ti vidi e mi piacesti
e, volendo ascoltare i Sogni insani,
ho voluto venire a te per dirti
che ti considero saggio e che ti amo”.
L’Imperatore molto fu colpito
da simili parole e dalla povera
fanciulla, che gli sembrò anche
stupenda
e che dinnanzi a lui non si inchinava
e che non gli portava tesori e oro,
sicché decise di sposarla. Poi,
ai Mandarini, ai fieri ambasciatori
di Persia, di Kiev, dei Khan, degli Czar
che mormoravano or disse: “Le vostre
figlie mi hanno chiamato Imperatore,
mi hanno coperto del loro superfluo,
costei mi ha data la sua essenza e ha
detto
quel che nessuna di loro osò dirmi,
ossia che mi ama”. Ma quegli altri
andarono
avanti a mormorare. Allora il Re
li condannò all’esilio; e se mai
fossero
ritornati sarebbero finiti
in prigione a marcir co’ lor tesori.
Dipinto di Tranquillo Cremona (1837-1878), Marco Polo alla Corte del Gran Khan, Tardo-Romanticismo, Accademismo, Scapigliatura italiana, 1863. Olio su Tela. Galleria Nazionale d'Arte, Roma. |