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lunedì 17 aprile 2017

Pasquetta

Tanto mi è amaro il meriggio dell’Angiolo,
e il dì trascorso della festa santa,
e la notturna sera, e i vecchi áttimi
de’ i ripetuti Sogni e della noia,
e il vano disperàr per spenta gioia,
o per lontana requie, oppùr pe’ il sonno
che dopo tanta illusïone viene
a togliere dal giorno la mia spene,
pur non appena il Sol tramonterà.
Ah! sì ch’io piango a che so che alle ripe
dell’Arbogna mia quieta i pescatori
assaporano il vento dell’aprile,
e saltano i monelli per i campi,
e corrono i mastini per i boschi,
e all’onde nel scintillio in specchio al Sole,
cinti i capelli di rose e vïole,
come Ninfe, fanciulle lietamente -
o come belle Sirene del Reno -
sguazzano co’ i velami opachi al seno,
fino a che sera non si mostrerà.
E come pianto, e poi päura, e dubbi
il cuor mio assalgono i Ciel delle pievi,
convinte effigi di ghiaccio e di nevi!
severe impronte di severo Genio,
dove a me ignoti Santi con lo sguardo
gl’indici érgono alle falbe nubi,
e mi rimproverano a che son vinto
da Sogni, e speni, da’ il senso e da istinto,
e mi dìcon che tutto è Vanità.
E in questo Caos primordiale e furente,
quasi impazzito tra infinite scelte,
e ‘ve la Vita ne richiede poche,
allor io fuggo la festa e l’altare,
non voglio abbracci, né abito talare:
m’è conato di vomito pensar
a donna e a baci, e dispiacer m’è poi
non averli, e m’è sprezzo l’èsser prete,
e trista doglia questa eterna sete
d’andar oltre le vane ombre in vêr Dio;
e mi vergogno di vìver, sognare,
d’essere figlio della schiatta d’uomo,
come indeciso, serpeggiante atòmo
che dopo tanti scontri svanirà.
Eppure ho gelosia di quanti colgono
presunta gioia nel meriggio che scorre,
e che accettano il vìver per quel che è,
Vanità eterna! alti superomisti
che bevono l’Eterno presso i talami,
o sugli altari, e rìdon fino a sera
e si accontentano or d’una preghiera.
Ma dinnanzi a Iddio, chi si salverà?....


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Dante Gabriel Rossetti, Arcangelo, Pittura Pre-raffaellita, Tardo Romanticismo inglese, Epoca vittoriana, Seconda Metà del Secolo XIX


In Dì di Lunedì dell’Angelo XVII del Mese di Aprile dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.


venerdì 10 marzo 2017

La Primavera

Vedo che sorgono,
che si risvegliano
pur dopo gli incubi
del scorso inverno,
a mille, a mille
s'alzano, vengono
le viole mammole;
libere crescono
sotto le pallide
ombre del Sole,
sbocciano, ridono,
splendono in placida
vita che genera
più bianche nuvole,
cieli più limpidi,
la Primavera.
Soffiano, danzano
i freschi petali
nel vento tiepido
che bacia i platani,
frassini e roveri,
lungo le docili
vie delle selve,
come gli Spiriti
che si lamentano
sorti dai loculi
tra balli candidi,
che sono l'Anime
delle più vergini,
come Proserpina
le Villi meste.
Sento che scorrono
i fiori serici
pur fermi e immobili
nel quieto ètere;
e intorno a me
saltano, riddano,
prendermi vogliono,
gettarmi in vortici
di balli apatici
per queste nevi
che ora si sciolgono,
dov'erbe crescono
mute, selvagge.
Vedo le rondini
che ora dall'Africa
festose tornano
anche se il turbine
del mar terribile
molte ha sepolte,
Natura infame;
e qui edificano
i nidi ceruli
sotto le tegole
delle più tacite
cascine, cantano,
vòlan, cinguettano;
e i campi stuzzicano
corvi famelici,
merli che fremono
d'Amore e fregola,
e che moltiplicano
in uova e nido
le inermi vittime
le miserabili
bestie che vivono
d'un ciclo orribile
fatto di Vita,
di spene e Morte
cui qui soggiacciono
i germi e gli esseri,
i vermi e il loculo,
nessun ne fugge.
E se negli attimi
che già ne fuggono
d'un nuovo marzo
scorgo la gioia,
un senso lieto
di quiete e pace,
se i fior che nascono,
quei che germogliano
i rami tremuli
mi sono dolci,
co' uno starnuto
guardo e saluto
i biechi pollini
che mi ricordano
di ogni mio limite,
della mia schiatta,
che nulla è vero,
che è Poesia.
E piango e lagrimo
per l'allergia.



Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Jean-Léon Gérôme, Un Campo di Tulipani, Tardo-Romanticismo francese, Seconda Metà del Secolo XIX

martedì 7 marzo 2017

Un Cinguettio

È appena giunto il vespro, e vien la cena,
mentre fuori le nubi si incupiscono,
e si spartiscono il Sole che muore,
e svaniscono poi in più nuova Notte,
e mentono a’ i miei Sogni, e allor scompaiöno,
sì che le sento tacere per sempre.
Ma in quest’attimo a me risuona come
una parola strozzata dal cuore,
come un mio labbro che mormora muto,
ben altra cantilena che mi sembra
essere un inno a una Vita rinata,
o specchio delle speni mie o dei miei
pensieri, o pur d’inconscio mio sognar:
un cantar d’uccelletti per i boschi
che va a’ i foschi arboscelli che germogliano,
e che ora intendo, fatto prepotente
nell’aër della mia Anima irrequieta,
come se fosse un invito alla gioia
in un istante di melanconia,
e che va via e si propaga nell’eco
delle mie orecchie che qui lo ricordano
e che lo tengono avvinto e ben stretto.
Non mi fu mai mellifluo un sìmil canto,
quasi una sinfonia della Natura,
la qual perdura anche nei suoi silenzi,
catturata dal mio spirito ardito!...
e mi è vano, del resto, chièder quale
uccelletto cinguetti così, forse
un passerotto, un pettirosso o un picchio,
forse una rondinella che ritorna,
o un’allodola, un piccolo stornello,
o un beccaccino d’in su la campagna.
A che chiederlo se so che è il mio cuore?....
Ma ecco che ritorna il vento dell’inverno.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Daniel Ridgway Knight, Un Circolo in Campagna, Tardo-Romanticismo inglese, Epoca Vittoriana, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Lunedì VI del Mese di Marzo dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.

sabato 4 marzo 2017

Grande Elegia al Vento di un Giorno di Marzo

Come mi è o furia o sprezzo questo vento
che dal mattin che va a risoffiar sento,
mentre gelida grida una Tempesta,
che urla funesta!...
e come mesto mi sembra il suo sguardo,
d’eterne guerre invincìbil baluardo,
con il suo labbro che durante il giorno
dà fiato a un truce corno,
e ordina forse il preparato assalto,
mentr’io lo intendo chiuso nel mio spalto!...
e come piega, soffiando là, fuori,
i primi fiori!
Mi sembra sia una possa che crüènta
sempre mi scruta, e dopo mi spaventa
qui, lievemente alzandomi da terra,
e che poi ovunque afferra
le polveri a me d’intorno, e in suoi vortici
le prende e le trascina, e come forbici
la Primavera che viene e sorride
bruto recide.
Mi sembra che ei percuota anche il mio cuore,
con le sue attese, tra i Sogni e il torpore…
che lo prenda e lo stringa e che lo scagli
qua e là, gridando ragli
per la campagna ora da lui vessata,
e per i campi arati. E mai placata
è la sua Furia, il suo fischio irridente
e irriverente
che di se stesso inghiotte l’eco, e il muto
chiasso, e il tacito aspetto; e che perduto,
come l’Anima mia, di marzo spegne
e Sole e nubi indegne.
Fors’ei non è che l’ultimo discorso
guerresco dell’inverno, tra il rimorso
di rinunciare al gelo delle nevi
o aver più lievi
zefiri, e il canto di una vana impresa:
che il verno vinca! e spenta e vilipesa
resti la Primavera, e s’allontani
co’ il suo cuor, le sue mani;
e vada oltre. Chè codesto Pöèta
non la deve conoscere! E si allieta
questo vento a ripeterlo alle curie
delle sue Furie,
mentre d’intorno io scorgo le campagne
‘ve vanamente l’äirone in lagne
riscagliato qua e là prova a volare,
e forse per scappare,
e dove i rami impiccano i germogli
penzolanti al soffiar dell’aër, spogli
appena, appena, e la terra apre pozze
di piogge sozze,
e le ripe riposano, chiudendo
in sé le foglie dei fiori, spendendo
le loro prime posse contro il Fato
che con loro è infuriato,
dove presto vedrò forse il fraseggio
rosso dei rossi papaveri, e il seggio
degli uccelli del bosco sulle querce
ancora guerce;
e dove, adesso, il Sole che risplende
fa risaltar di smeraldo le bende
delle ferite foglie, in mezzo a’ soffi
di quest’eteri goffi.
Oh come mi cattura questo verde
contrasto di ombre e fuochi, e che si sperde
negli orizzonti donde si ritira
il verno, e spira!
E così presto la Tempesta muore,
e il vento scema, e sboccia un altro fiore,
in un nuovo ritorno eterno, e santo
nel mezzo del mio canto.
Sì, un eterno ritorno! Dove l’aria
di questo vento è la stessa che varia
più volte io respirai, e d’altri polmoni,
e che ora è in tuoni,
dove rinasce il fiore che io raccolsi
lo scorso anno e cui un pensier ne rivolsi,
e tutto scorre, e riappare, ma è nuovo
come il germe di un uovo.
Rimane solo quella campanella -
sulla strada - che or giace e ferma, e bella,
e sospesa nel vacuo aër di un vento
che più non c’è.
Or sta suonando gli anni di mia Vita,
in una nenia silente e infinita,
e sempre è immobile, e pendente in suo
andare e ritornar.
Sta piangendo perché non ho più vento!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

George Inness, Un Paesaggio in Scozia, Romanticismo scozzese, Seconda Metà del Secolo XIX, Epoca Vittoriana



In Dì di Sabato IV del Mese di Marzo dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.

giovedì 2 marzo 2017

Marzo

Ïèri era l’inverno, ‘ve io vidi e ghiaccio e neve.
La nebbia prepotente copriva di ombre i miei occhi,
e sepolcral silenzio mi si schiudeva. Lieve

mi era il giorno, sì corto, debolmente. Rintocchi
di funebri campane portava la bufera,
nell’eco sua, tra i gemiti dei suoi più nivei fiocchi.

Ma oggi, or che mi destai, ho scorto nuvole in schiera,
che mi sembrano liete, delicate. E sottile
mi è l’àër loro, nunzio che arriva Primavera.

Così da marzo ammiro le prime erbe di aprile,
sbocciar le margherite, con le quiete vïòle,
e ravvivarsi sùbito le stalle, i buoi, e il fienile.

Allor le speni cuciono con le leggere spole
Sogni e sospiri nuovi. Vorrei un raggio di Sole.



Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Robert Gallon, Un Paesaggio inglese, Tardo Romanticismo britannico, Seconda Metà del Secolo XIX, Età Vittoriana



In Dì di Giovedì II del Mese di Marzo dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.

venerdì 17 febbraio 2017

La mia Terra, ovvero Immagini di Borgolavezzaro tra Nostalgia e Ricordo

Immagini borgolavezzaresi - La Cascina della Chiusa

Quand’ero un pargolo - oh gentil membranza -
lieto n’andai vêr l’onde dell’Agogna,
e de’i pastor mi suonò una romanza,
dolce zampogna,

e allor che fui privo d’inquiete cure,
e illuso là ero da un sogno di Vita,
miravo i campi, e i sentieri e l’alture,
l’acqua fiorita,

e nulla seppi di dolor, di Musa,
ed ammiravo la rude cascata,
e la campagna, e ‘l torrente e la chiusa,
ninfea indorata,

e un vecchio mùr scorgea d’una cascina,
e in tra le foglie - e secche e vive - un forno,
e ceppi e legni v’eran, la cucina
in sotto un orno;

e dalle ripe mirai più d’un pesce,
e scorrea il turbine in su’i pescatori,
e in mezzo all’erba crescèvan le vesce,
dolci sapori,

e v’eran querce, e platani, e castagni,
e pioppi e roveri, e frassini e rose,
ed olmi e peschi, e l’impronte de’i ragni
su’ pietre ascose,

e assaporavo l’odor delle trote,
le lente resine, e in fiore l’ortiche,
e vedea bionde dalle rogge immote
le pronte spiche,

e contemplavo il profumo de’i funghi,
e più le chiocciole, e i scuri porcini,
e questi giorni mi sembràvan lunghi,
senza Destini,

e a’ i piè pregavo d’un’imago eletta
che fioca e spenta parea di Maria,
e il casolar fatto di pietra schietta
sembrò abbazia.

Fu il tempo in cui la Vita m’irrideva,
e n’avea indarne speni e bei desiri,
quando l’Amor - ingenuo - m’attraëva,
repressi spiri,

e pensai il mondo sereno - un amico -
e molli guardi donavo alle bionde
dame, e il cammin - Destin ti maledico! -
m’erano l’onde,

e i rossi muri, e il rudere e la fonte
mi dàvan sangue, speme giovinetta,
e scorgea lungi la cima d’un monte,
una saëtta,

e mi fu grato il cinguettar d’un passero -
forse un’allodola - al cielo d’estate,
e segnò il Fato in sul volto d’un cassero
non più che un Vate.

Oh quieta Arbogna! Oh cascina defunta!
Oh chiusa inerme! Oh estinti e miei boleti!
Oh forno antico! Oh roccia alfin consunta!
Quai sogni inquieti!

A voi io ne andavo, e vi contemplavo un fiore,
e molti dì passai di gioventù,
e sognai amici, e Vita e sposa e Amore,
tempo che fu!

Immagini borgolavezzaresi - La Chiesa di Santa Maria

È lieve il calle che oltre i tetti sale
e tra le nebbie si ergono sue cime,
ed è cotanto che pe’ il borgo vale
che dopo appàr un portento sublime.

Ivi - ai suoi margini - un chiostro spettrale,
un casolare giace, e verso l’ime,
mostra le pietre - rovina immortale -
che a’ suoi piè giacciono perdute e infìme.

Lì in tra le nevi si erge un campanile,
e a lui dappresso un tempietto barocco,
e quando il bronzo lamenta, è sottile -

triste nel vento - l’ansimante tocco…
e che sia verno o che sia aria di aprile
del mio villaggio è pieve in niveo fiocco.

E in soffiar di scirocco
codesto è il calle di antica abbazia,
fu dedicato alla Santa Maria.

La bianca pietra e il profumato stelo
dell’arso incenso olezzano pe’ il colle,
e ai simulacri ne palpita il Cielo
ove la statua di un Santo si estolle,

e in tra le brine e nell’orrido gelo,
e in su’ il ghiacciato portone che è folle
di questa Vergine or splende il pio velo
che vola agli Angioli e che è caro e molle.

Qui un flèbil suono si espande söàve
di un organello che canta al Signore,
e offende immobile ancor le arie cave.

E pe’ il cortile, di ghiaccio sta un fiore…
e si alza ai nembi un rosario ed un Ave,
e il borgo intiero è un religioso ardore.

Oh monaster d’Amore,
sei dell’airone il consacrato lito,
e speme santa di un mìser smarrito.

Lì santo sta d’orrore,
al freddo muro e alla parete affisso,
l’ombra possente d’un gran crocifisso.

De’i ceri il pio bagliore
bacia d’Empiro il quieto pavimento,
e vêr l’altare sen sta un paramento.

Ed io vi udrò dolore:
a me dinnanzi la Vergin fanciulla,
Iddio mi scruta, e nel cuor sempre è il Nulla.

Sonetto saffico con Caudo - La Pieve

Vi fu un dì ove io là andavo, a’ i boschi freschi,
e a’ vicìn campi, e in vêr una cascina,
e il mio cuor si bëàva in tra’ bei peschi
di rosea spina.

Lì, e lungi, un marmo con occhi donneschi
mi si splendea, e un’effigie fu divina.
A lei d’intorno stàvan arabeschi
di rosellina.

Allor giungevo a questo crocevia,
dove stanno i sentieri de’ il Gesiolo.
Lì pieve candida ammiravo, e pia

croce in su’ un piolo.
Sì che allor ligio e in tanta cortesia
pregavo gli Angioli inchinato al suolo.

Ma in preda a ignoto duolo
gemevo assorto una lode a Maria:
«Abbi pietà della miseria mia!».

Sonetto saffico con Caudo - Un Fior di Papavero

Sempre andavo a un boschetto a mirar fiori
dove le querce ombreggiàvan gentili.
Là mi pascevo di flebili odori,
e di cortili.

Mi piacquero cotanto i bei colori -
e il verde, e il viola e il giallo, e l’erbe in fili -
i dolci campi, i pioppi, e i pruni mori
e i quieti asili.

Ma che più mi piaceva era quel stelo
che del papavero il petalo irrora,
e rosso e bello, sotto il bianco cielo

lo ammiro ancora:
mi sembrò una ridente dama, un velo,
un occhio rosso che ancor m’innamora.

Ma un rovo, ombra di mora
a lui vicino crescea e il soffocava,
e un venticel lo stame scompigliava.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Daniel Sherrin, Dopo una Tempesta, Tardo-Romanticismo anglosassone, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Martedì XIV del Mese di Febbraio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII. Revisione di mie Poesie composte nel febbraio dell’Anno MMXIV.