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mercoledì 14 gennaio 2015

La Battaglia di Patay, ovvero L'ultima Confessione d'un Cavaliere

Pe’ campi di maggese, e a’ boschi e a’ pietre
e pegl’ansi ruscelli e l’erbe fresche,
e all’orizzonte, e all’incognito e all’etre
in tenzon seguitavan le guerresche
schiere, e all’empio certame e in maglie tetre
n’andavano i messeri, e alle donnesche
chiome alle furie del vento ostinato
di Giovanna volgevan, più che al Fato,

e in tra’i cardi e i covòn e i fiori primi
d’opposte direzion venìa l’affronto,
e i prodi e i paggi, e i destrieri e i sublimi
balestrier or n’andâr, e in sul confronto
coll’inimico in furie e presso gl’imi
cespi pugnâr or in fino al tramonto,
e intorno si coprìa la trista terra
d’urla e di sangue, di strazio e di guerra;

e così si celava in rea boscaglia
l’Anglo che a pugna or funereo moveva,
e presso le betulle e l’alba paglia
de’i rival le masnade omai cingeva,
e quest’insana e meschina plebaglia
crudelmente le schiere trafiggeva,
e al vessillo del rege e folle e avaro
qual folgore n’andava ‘l fiero acciaro,

e in cielo si lagnava ‘l truce dardo,
e un urlo s’irrorava a un spoglio faggio,
quivi che un prode scontava l’azzardo
della brama del lauro e del coraggio,
e un balestrier gagliardo e pur testardo
d’umori ne colmava ‘l campo in maggio,
e la possa struggea la vil campagna
or de’i Plantagenesta e di Bretagna.

Fûr lupi al spalto d’un misero ostello,
terribili le belve, ora i Normanni,
e omai s’insanguinava un pio ruscello,
e in fin de’i nembi tersi i scialbi vanni,
e l’Anglia ne spargea un immenso avello
su cui i suoi figli sedettero in scranni,
e ‘l prode un antro n’ebbe in sull’usbergo,
ma ‘l vile nel sepolcro ‘l freddo albergo;

e all’aër che soffrìa or gli ansiosi squilli
delle diane n’andavan cupi e irati,
e lungi se ne stavan di vessilli
colme le tende de’i duci infuriati,
e anco i Franchi or volgendo in truci trilli
bramarono cangiar gli avversi Fati,
e volsero a mirar la lor Pulzella
come un mendìco all’alba in su’ una stella;

ed ella allor co’ prodi e in triste posse
l’albo destrier spronava, e in man le lame
trepidamente andava e si commosse
pur nel versar del sangue in sul certame,
e al ciel ergendo or l’acciaro le fosse
febbrilmente schiudea al perduto ossame,
e ‘l brando che immergea ne seguitava
a punire ‘l rival che sgomentava.

Ma due messer iniqui e in su’i destrieri
contra costei n’andâr e i brandi in mano -
come fean i valenti cavalieri -
ergevano nel nome or del sovrano,
ed eran crudi e spietati e sì altèri
che opporsi forse sarìa stato vano.
Eppure la fanciulla li esaudiva,
e anch’ella brando in mano or li assaliva:

l’un a destra e a mancina, ed ella in mezzo,
e d’ambo i fianchi ‘l colpo or si vibrava,
e questi la miravan co’ disprezzo
mentr’ella fieramente ‘l disfidava,
e ‘l vento a lei e a’ capei or compiva un vezzo
come un segno divin che s’agitava,
e allorché questa calava ‘l cimiero,
già presso e tetro stava un cavaliero

sicché ‘la in freddo acciaro ‘l trafiggeva
nemmanco col cozzar dell’arme antìche,
e sguainato un pugnal, mentr’ei gemeva,
schivando ‘l colpo dell’altro, e alle spiche
ora ‘l disarcionava e ne immergeva
la lama nelle carni, e l’inemiche
n’ebber sgomento - e tanto! - l’orbe schiere
che si retrocedettero or men fiere.

Allor la dama in furia or l’arme ascose,
e aizzando i suoi guerrieri, si ritrasse,
e a mirar la tenzone a’ fulve rose
mestamente si volse, e all’erbe basse,
e le preghiere diceva armoniose
come se in core si mortificasse,
e quivi e in tra’ l’ortiche udì un bisbiglio
d’un uomo che moriva in gran periglio,

e in sul lontan brandir dell’ansie e oscene
spade, e a’ lagne guerresche e all’urla affrante
questo singulto or s’alzava e le pene
di guerra denunziava - ed eran tante! -
e un labbro ‘l sospirava, e nelle vene
l’umore si scorrea or più che spasmante;
e Giovanna si volse in direzione
sua, qual fanciulla al trillar di canzone,

e mentre s’infuriava ‘l campo ancora,
e ‘l certame gemea di Morte impura,
e intanto che cadea in sur d’una viora
un giovine guerrier, e l’armatura
al pugnal si dolea qual mai finora,
e mentre in lagne or n’andò la Natura,
e frattanto che ‘l cielo s’oscurava
presso ‘l sangue e le piaghe e l’ansia bava,

e intanto che fremeva a San Dionigi
un cavalier de’i Franchi e a San Martino,
e al balenar de’i torvi acciar e grigi,
e al disfidar insano del Destino,
e mentre ne celavan l’orbe effigi
i guerrieri al cimier, or presso un pino
ella scorgea un balestrier morituro
dell’Anglia ricoperto in manto oscuro.

Giacea tra l’erbe folte e in spasmi atroci,
e l’occhio si pascea di santa meta,
e co’ debili e indarne e vane voci
del Cielo supplicava or l’alta pièta,
e in duol dassen se ne stava feroci,
e insanguinata n’era in fin la seta
che all’usbergo s’alzava nobiliare
co’ uno stemma lontan d’immenso mare,

e al fianco si morìa un bruno destriero,
e ‘l core ei si cullava or colla destra
‘ve tra ‘l ferro guerresco e truce e nero
piagato stava ‘l motto: «Majestas Vestra»,
e privo ‘l volto al soffrir del cimiero,
a mancina brandìa fatal balestra,
e in tremiti n’attese e co’ un singulto
gli Inferi ambiti al peccar che fu inulto,

e ‘l scarno volto in ansia or stava e in pianto,
e in lagrime scorrea l’occhio funereo,
e sempiternamente e ansioso e affranto
or i nuvoli ambiva e ‘l Ciel etereo,
e lento sen venìa sempre d’accanto
l’orrido regno d’un verme cinereo,
e pel peccar temea or l’aspra condanna
sicché la pièta n’ebbe in fin Giovanna;

e costei, infatti, e svelta e a lui diresse
e abbandonava ‘l gentil palafreno,
e allor discesa a’ terra e in ciglia oppresse
a confortarlo andava, e a’ Nembi almeno
sincero e puro e sacro omai l’eresse
che in pregar s’inchinò al piagato seno,
e questi le sclamava: «I’ fui Guglielmo;
e cotanto peccai di spada e d’elmo!»,

e a’ stenti s’involava ‘l detto in duolo,
e al labbro ne sgorgava ‘l tristo cruore,
e in cielo de’i rondon mirava ‘l volo,
e all’orecchio n’andò ‘l guerresco ardore,
ed ella si prostrava al negro suolo,
e santa n’invocava ‘l sommo Amore,
sicché co’ membra inchinate e sì prone
dolcemente esaudì una Confessione.

Così dal volto sciolse ‘l ner cimiero,
e ‘l guardo ne mostrava or femminile,
e al morente n’apparve omai foriero
di requie ‘l Ciel ambito, e pur da vile
la pièta del Divin n’udìa, e ‘l mistero
d’un eterno e mellifluo e dolce aprile,
e la Pulzella or tranquillo ammirava
e i suoi peccati oscen ne confessava.

Disse di guerre, e di stragi e di doglie,
come una Furia, la Francia percosse,
volse agli ostelli che strusse e alle soglie,
e sire fu d’inganni e di sommosse,
disse di Vite falciate qual foglie,
e tràttosi in vergogna or si commosse,
e sempre ne tremava all’Immortale
poiché gli anni passò da criminale,

e alla dama negòssi un cavaliero,
e le man le prendea, e ne lagrimava,
fu sol un crudo e fatal masnadiero
che ovunque e in nom del rege assassinava,
e al colpo estremo si seppe sì altèro
che di paüra insana or ne tremava,
e seguitando disse d’altre gesta
che la Morte rendevan più funesta:

corse a’ villaggi de’i Franchi e chiedeva
donne e danari, e bestiame e scudieri,
e quivi le capanne or spesso ardeva
a’ vivi in fin scagliando gli aspri ceri,
e al vespro e in sul tramonto si sedeva
dove una fiamma sen stava e a’ sentieri,
oppure si pascea d’un bel banchetto
tra’i vini e ‘l sangue e l’odi, e ‘l vil diletto,

e or che a un braccio fatal giacea lambito,
i crimini ei ne pianse e chiese vènia,
ma non come ‘l fa un crudel bandito
che a gabbare l’Eterno or pur s’ingegna,
e la dama ei implorava or più smarrito,
ed ella ne sclamò una mesta nenia,
e perduta nel Ciel e udendo un tòno
ben certa n’era di dargli ‘l perdono.

Ma d’un tratto ‘l cavalier si fece cupo,
e mesto si gridava in lamentanza,
e della Morte attesa in sul dirupo
sempre più ne piagnea, e siccòme avanza
l’ora temuta, or qual grido d’un lupo
spirante ei n’accennava una romanza,
e alla dama narrò dell’Inghilterra
che abbandonava un dì per far la guerra,

e così la Pulzella l’ascoltava,
e nel core or lo stava compatendo,
e anch’ella - la guerriera! - ‘l lagrimava
come Achille in sul piè del rege, e ardendo
di candida virtute ‘l consolava
esorcizzando a lui l’Inferno orrendo,
e come una nutrice ‘l prese al volto
e al seno lo posava e in vezzi e molto,

e la destra ansimante a’ suoi capei
in carezze volgea di caritate,
e come un figlio ‘l prese e in grazia, ed ei
febbrile ne lodò le chiome aurate,
e dolcemente s’erse ai Ciel costei
colle ciglia al Signore or consacrate,
e più non era ‘l duce che or credete
ma in femminil vestito un santo prete.

Allor ‘la ne cingea un picciol pugnale,
e in modo ‘l prese che fece una Croce,
e docile ‘l mostrava al spir fatale
di lui che svelto andava al verme atroce,
ed ei con questo volse all’Immortale
l’arida possa dell’ultima voce,
e mentre ‘l mirava, e in fin lassù,
mestamente inneggiò a Cristo Gesù,

e col guardo smarrito e sempre affisso
alla dama or temprò un recordo ameno,
e a costei lo diceva e al crocifisso
sibben dicendo stesse: «Oh quanto peno!»,
e sempre e più in sull’orlo dell’abisso
alla Patria rivolse ‘l cor sereno,
e in rimembranze scorse ‘l caro ostello
che poco visse col padre e ‘l fratello.

Così ben si giovò del suo paëse,
e del grano maturo in sull’Estate,
e della sua famiglia - e fu gallese -
e pur di Canterbury ‘l sommo Vate[1],
e de’i campi e de’i boschi e di maggese,
e delle fitte selve un dì adombrate,
e degli stemmi antichi e dell’effigi
e dell’acque ridenti in sul Tamigi,

e dolce rammentava i gran tornei,
e le cacce a’ cinghiali e a’ cervi e a’ tordi,
e de’i certami altèri i buon trofei,
e del liuto i cortesi e molli accordi,
e pur tra questi ‘l guardo di colei
che gli fu sposa e cui i sensi fûr sordi,
e abbandonato un giorno ‘l queto tetto,
e la donna, e le serve e un pargoletto,

e quivi che in immenso e reo dolère
morituro giacea, in quest’ansio detto
tremendo mormorava ‘l dispiacere,
e pallido n’andava omai d’aspetto,
e fioco n’ansimava le preghiere
com’uom che già sen va d’Iddio al cospetto,
e ancora rammentò la gioventude
‘ve quasi gli mancò ogni gran virtude,

e in pianto rimembrava una riviera,
e all’orizzonte etesio i scoti monti,
e di Dover la scialba e pia scogliera,
e del Galles le ripe, e i boschi e i fonti,
e l’Inghilterra in fior di Primavera,
e i bei e cavallereschi e gaudi affronti,
e sconfinata e gentil la campagna
che l’anglo fiume biancheggia e che bagna,

e del torneo gioviale l’alte iscuse,
e del Nord le perenni e fredde nevi,
e l’iscozzesi e sacre cornamuse,
e i rustici palagi e l’albe pievi,
e ‘l nunzio della guerra che l’illuse,
e de’i vascelli i legni e torvi e grevi,
e immobili le spume or d’empio mare
che non potea tuttora e più ammirare,

e a rammentar piagnea della Tempesta,
e della tremolante e pia marina,
e i peccar ripeteva e l’egre gesta,
e la Furia che ‘l mosse ognor meschina,
e tetro rimembrò ‘l Plantagenesta
dell’Anglia eterna Notte e non mattina;
e Giovanna che quivi ‘l compativa
dolce e maternamente or l’accudiva.

Alfine ‘l sire or disse: «A me l’acciaro
sicché quest’alta Croce or n’abbia al petto»,
e la fanciulla ‘l diede, e al cor e amaro
ei sel mise sereno e pien d’affetto,
ed ella a terra pose or questo caro
che al pugnal or volgea ‘l dolente aspetto,
e poscia un guardo solo ei ne spirava
col sangue al labbro aperto e colla bava.

Allor Giovanna or disse: «Vi perdono»
e segnandosi, in pianto or stette e molto,
e all’occhio suo n’apparve un fior d’un tòno,
e ‘l Paradiso apparve al mesto volto,
e all’orecchio n’udì un festoso sòno
che dir parea a costei: «L’abbiam accolto!»,
e intanto l’Anglo altèro ne fuggiva,
e pietoso ‘l Francese or nol seguiva.

Così la santa dama al suo Divino
l’impresa ne compìa, e pure in misfatto
santificata pose e al gran Delfino
un serto che gentil concluse ‘l patto.
Ma l’Inferno segnava a lei ‘l Destino
nel vendicar se istesso; e allor d’un tratto
Satana a’ Franchi or ne diè ‘l tradimento,
e a lei una Curia infame un patimento.

Ma d’eterno momento
Giovanna in Ciel si pasce e al suo Signore
d’eterno e puro e vero e santo Amore!

In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XII, Martedì XIII, Mercoledì XIV Gennaio AD MMXIV





[1]  Cioè Geoffrey Chaucer.

mercoledì 7 gennaio 2015

Ricordanze invernali all'Orizzonte alpestre

All’ombre dell’aurora e all’orbe brume,
e all’etere che cupo si lamenta,
e alle nenie d’un gallo e veglio e implume,
e alla pallida brina a un fior di menta,
e a’ boschi e a’ cardi ‘ve làgnasi un fiume
e a questi scialbi ciel che ‘l Sole attenta
febbrilmente ne volgo ‘l guardo avvinto
e a un nembo che si sta d’argento tinto,

e spaziändo ‘l vento all’orizzonte
co’ un nostalgico cor sempre discerno
gelide e in neve le vette d’un monte
che sublime si splende in ghiaccio eterno,
e intorno ne contemplo or nubi appronte
a versar altre nevi, e quasi a ischerno
della bufera intendo un’egra lagna
che un rimembrar m’ispira di montagna.

Così al ciel che mellifluo e queto albeggia,
e a’ valichi lontani e al giovin giorno,
or mentre l’astro in tra’i nembi rosseggia
e in tra’i spogli arboscel d’un trèmul orno,
d’un trapassato dì or in su’ Craveggia
nella mente ‘l recordo in gaudio adorno
pallidamente e in core mi sovviene
come un brivido insan che m’è alle vene,

e per questo ammirando ‘l ciel lontano,
e sospirando alle candide cime,
e al fragile sentier torvo e montano
e all’incognite rocce e vaghe e all’ime
valli, e all’albe foreste e a un clivo arcano,
e singhiozzando alla pietra sublime
su cui d’estate e al suol del Nibelungo
timidamente cresce ‘l muschio e ‘l fungo,

e lagrime spremendo all’occhio - e tanto -
più dell’acque del rivo all’Alpe cara,
e all’elvetico calle e molle e affranto
che ‘l Sol serenamente ne rischiara,
a rimembrar m’accingo in questo canto
la beltà della roccia e ignuda e avara,
poiché meco quest’Alpi n’ebber pièta
che alfin sacro ne sono ‘l lor Poëta.

Allor nell’alba fresca e come in sogno
or nostalgicamente e in rimembranza
mi si presentan liete di Vocogno
le vette che ammirai d’in su’ una stanza,
e ‘l monte che silente: «Mi vergogno!»
timidamente disse a’ mia romanza,
e in sospir ne rimembro in su’ una via
l’alte pievi montane e un’osteria,

e le felci rupestri, e i prati scialbi,
e delle nevi or l’argento e soäve,
e i gelidi sentier e pe’i prunalbi
del verno che soffiâr quest’aure ignave,
e pelle stalle i fieni e tersi e falbi,
e le fauci perenni or d’empie cave,
e quel che più non veggo e non affronto
tra le cime e le balze, alpin tramonto, 

e pe’i boschi e i dirupi e in spoglia pelle
le roveri e i cipressi e i bagolàri,
e le querce montane e oscure e snelle
e de’i pioppi dormienti i reliquari,
e a valle ‘l cardo in fior, le roverelle
e a’ ciottoli e a’ sentier i bei viäri,
e le lagrime ignude in chiome a’ salci
e ‘l superstite campo all’empie falci,

e i spasmodici spettri a’ cimiteri,
e le betulle d’immobili foglie,
e l’aquile tra’i nembi e gli sparvieri
che la vittima al vespro omai n’accoglie,
e i vestiboli smorti e i monasteri,
e gli ostel antichi che giacciònsi in doglie,
e gelide a soffiar in tra’ le pietre
tempestose e funeste e cupe l’etre.

Ma ancor che queste selve e questo vento
e al mattutin mirar degli albi monti
su cui scendon le nevi in torneamento
in formidi e furiosi e biechi affronti,
un recordo si volge in Sentimento
agli innevati marmi e a’ nivei ponti
‘ve ghiacciati mirai i gentil ruscelli
e di quest’acque i vetri e frali e belli,

e alle gemme dell’ansia e terrea strada,
e de’i ghiacci al terribile adamante,
e all’argentata e innevata contrada
che tuttora mi pingo a me davante,
e all’arida e montana e fredda rada
‘ve un ceppo si lamenta tremolante,
e d’òpale de’i pini or n’ho membranza,
dell’ebano d’un lupo or che s’avanza,

e mestamente scorgo la montagna
che rorida m’ispira una canzone,
e ‘l putrido rubìn d’una castagna,
e l’esule sentiero del Sempione,
e un queto rivo che un calle ne bagna
e che ferocemente al ghiaccio oppone
la furia di quest’acque e terse e ombrose
che cadon dalle vette in ciel montuose,

e irrequieto rimembro un casolare
che rustico e di pietre n’era fatto,
e l’ara etesia e santa e tutelare
d’un borgo abbandonato eppur intatto,
e dell’egra bufera all’incalzare
la possa arcana or che s’ebbe d’un tratto,
e in cima a un monte e in negro e tetro vello
le torri d’un consunto e spento ostello.

Allor a queste pietre or nuovamente
un incubo ne schiudo al cor che ‘l serra
e che sempre m’inebria questa mente
al membrar d’un’antica e insana guerra
che un dì e in sul ghiaccio e pallido e insolente
a insanguinar si mosse or questa terra,
e per questa rupestre e rea riviera
in sogno ne discerno infame schiera,

allorquando alle selve e all’ore tarde
e a’ tremuli bastioni i cavalieri
avvolti in bruni velli e in triste barde
e all’indoli guerresche i gran cimieri,
n’andavan cogli acciari e l’alabarde
di quest’ostel a strugger i messeri,
e in mezzo a’ ferrei e a’ nivei e argentei fiocchi
pe’i sentier trascinâr i rei trabocchi,

e al vèspero al cantar d’un vano grillo
e al piè della fortezza e al foco infame
allorquando s’alzò un fatal vessillo
che i prodi n’involò al cieco certame,
e pe’i monti innevati andava un squillo
che pur intimoriva un pio fogliame,
e all’orizzonte in Notte urlava l’eco,
e ‘l braccio del messer pugnava bieco;

e la pugna s’ergeva in grida e in foco,
e di giovin baroni or fu un massacro
e i duci ridacchiavan quale in giuoco
all’evocar de’i Ciel del Nume sacro,
e poiché si versò di sangue or poco
la strage proseguiva e tosto e all’acro
merlo del ner ostello a istranie schiere
i dardi ne scagliava un balestriere,

e così e in fin di Notte e in su’i sentieri
tra ‘l cozzar delle spade e degli usberghi
cadevano pugnando i gran guerrieri
a’ rival rivolgendo incauti gerghi,
e all’alba dell’ostello i falconieri
col sire trapassâr ne’ vani alberghi
che tra le fiamme e la magiòn violata
bruciavano funerei e in Morte irata,

e al sorgere del Sole e a’ boschi oscuri
i vincitor sen stavan co’i trofei,
e una pira s’ergeva a’ volti impuri
de’i cadaveri in sangue e altèri, e pei
sentier degli ansi calli e a piè securi
un cavalier pregava in gloria Dei,
e del borgo sen stava un sol cancello
al canto del funereo e cupo augello.

Ma d’un sìmil sognar non m’accontento,
nemmanco rimembrando ‘l loco alpino
‘ve passando i’ sentìa eterno ‘l tormento
d’uno spettro guerresco e serotino,
e ignaro i’ calpestava ‘l paramento
d’un balestrier sepolto a’ piè d’un pino
e l’altre e fosche e terribili fosse
tra gli sterpi feroci e terree l’osse,

e quivi ne sognai gli uman sciacalli
che degli estinti vollêr l’arme e opìmi,
e tra le nevi or di scialbi cristalli
gli elmi e gli affranti usberghi e torvi e infìmi
e che al terzo cantar de’i freddi galli
svanîr tra gli orizzonti in ciel sublimi;
e intanto i monti scorgo e veggo ancora,
e un villaggio dell’Alpe or m’innamora.

Così ne ricontemplo i clivi e l’erte,
e i vegli cacciatori or passeggeri,
e ‘l corno che le cerve a’ caccia avverte,
e i spogli e freschi pruni e i mirti e i peri,
e le valli d’intorno e in sotto aperte
e i grigi nembi e in neve lusinghieri,
e ‘l camoscio che ‘l ghiaccio alfin incontra
e al ruscello d’un piano l’ansia lontra,

e l’alci d’oro che al muro impagliate
un giorno n’ammirai e pella locanda,
e all’Alpi le cascate un dì ghiacciate
e da un timido fonte l’acqua blanda,
e l’agili e festose passeggiate
pel mercurio del ghiaccio e pella landa,
e ‘l sapor vespertino e a fiamma spenta
del cervo e della morbida polenta;

e ancora ne rimembro: all’ora nona
un crepuscolo torvo allor veniva,
e fiocamente in ciel l’alba Latòna
d’iri spettrali le nubi assaliva,
e del Sole la luce or n’era prona
e qui velocemente affievoliva,
e quest’orba e melliflua e casta Luna
di spirti ne tergea la Notte bruna,

e alle tenebre un monte pur lontano
de’i valichi l’impronta n’era mesta,
e l’ombra assomigliava a un reo Titano,
e la vetta sen stava or più funesta,
e ‘l guardo si brillava e fioco e arcano
siccòme un lampo al furor di Tempesta,
e a mirarlo i’ passava ‘l vespro insonne
a sognar le Valchirie, etesie donne.

Tuttor, del resto, e al recordo impetuoso
queste cime mi parlan d’alte saghe,
quando ‘l canto funereo e doloroso
d’un bardo si balzava a queste vaghe
rocce, e cantava ‘l certame mostruoso,
e i scaldi le foreste delle maghe,
e sol i Numi varcavan i monti
di sangue abbeverando l’egre fonti,

e quando alle montagne ‘l salce cupo
le ghirlande intrecciava all’ossa e a’ prodi,
e coll’eco tremenda in su’un dirupo
le funebri volâr, funeste l’odi,
e pelle selve giacevasi ‘l lupo
di vittime ‘l signore e d’orbe frodi,
e quando in tra’ le nubi l’empie Norne
sibilavan di Morte e strazi adorne,

e allorquando lo spettro all’erte antiche
perfino strangolava e l’uomo e ‘l germe,
e come un mietitore all’ansie spiche
la Vita prosciugava al folle e inerme
prode guerrier che alle schiere inemiche
spirando si mutava in stolto verme,
e brindavan contenti i gran sovrani
degli invitti e seren, crudel Germani;

e come allor sognai, ne sogno ancora
le germaniche nenie al fior del vischio,
e al labbro che del sangue n’assapora
del vento eterno or l’orribile fischio,
e in affràlite brume e in Notte mora
e d’una pugna insana al truce rischio
tinte di cruore e d’oro e poscia d’ambre
ne veggo l’egre lame un dì sicambre.

Ma ancora ne recordo or d’altre nevi,
e ‘l sentier del gentil pattinatore,
e le discese valli, e l’albe pievi,
e ‘l vento al festeggiar conciliatore,
e i ghiacci in tra’i torrenti e ombrosi e grevi,
e un appassito e ghiacciato e bel fiore,
e alle selve e dappresso i maëstrali
la selvatica caccia a’ vil cinghiali,

e i falchi sibilanti e i negri tordi,
e ‘l cinguettante e ferin pettirosso,
e gli stornelli al gelo e a’ miei recordi
l’orizzonte montano al ciel commosso,
e i nembi alpini e freddi e tetri e sordi
che temprâr ghiacci e insani e fieri addosso,
e tai membranze e in quest’alba ne veggo
e a cantarle alle nubi allor mi seggo.

Ma or nostalgicamente al ciglio un pianto
di proseguir ancor mi proïbisce,
sicché qui si tramonta questo canto
che al cor mi si lamenta e mi ferisce,
e ‘l montano ruscel che ammiro intanto
forse contento e pio mi compatisce,
e alle cime in memoria e qui cantate
sempre ne son, dassenno, ‘l sacro Vate.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì VII Gennaio AD MMXV