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martedì 16 giugno 2015

1815 - Sabato. La Tempesta

I. Canto le tenebre,
veli piovani,
e l’aspre folgori,
grido di cani.

Le nuvole si fremono,
le piogge cadono,
e la Tempesta grida,
sospira e geme,
e mentre vien la grandine
che scende gelida,
il Temporàl disfida
l’ultima speme:

canto quest’ultime
ree confidenze,
baldanze insipide
delle coscienze,

l’ultima speme orribile
dell’Orco, dèmone,
e il fango qui si cresce
pel campo nudo,
del Mostro che desidera
regnar, uccidere,
e che il sangue ne mesce
a un nappo crudo,

canto del calice
l’insanguinato
vino che còlasi
in ode al Fato,

l’ultima speme attonita
dell’uom di Sàtana,
di lui che al tuòn s’estolle
e che è un Titano,
e le piogge s’infuriano,
l’erbe calpestano,
l’erboso e tristo colle,
e il ciel lontano.

Canto dell’Ecate
Furia immortale
i folli turbini
del Temporale.

Oh sì! I furiosi nugoli
cupi saëttano,
e il lor regno è la sera
dell’aspro e tetro
e tenebroso sabato,
un dì fatidico,
e i tuoni vanno in schiera,
e urlano e dietro

canto che scorrono
lungo le vie
che si tormentano
or d’amnesie

l’acque fredde, procedono,
lente s’infrangono
al suolo e in tintinnìo
e in tanti umori
in spettrali pozzanghere
quivi s’ammucchiano,
le sentenze d’Iddio,
celesti i cori.

Canto del Diavolo
la bocca: ei beve
lassù degli Angioli
il pianto e deve

chinar lo sguardo tremulo
ai tuòn che scoppiano,
la sua folle cervìce
sempre insistente,
e che deve procedere
là, verso il bàratro
che tanto non gli lice,
occhio furente.

Canto! Son ràpsodo
del suo Destino,
del suo crepuscolo,
torvo e ferino.

II. Canto l’immobile
Furia decisa,
la svelta Sorte,
i lampi spaccano
l’aria, e le risa
son della Morte.

Dovunque sono i fulmini,
empi si grondano,
signori del spavento,
fuoco sublime,
le tende e i campi illùminano,
gemendo piovono
e trascinano il vento
fin dalle cime.

Canto le cerule
ombre del bosco
che s’incupiscono
d’un sguardo fosco,

e canto i brividi
della betulla,
e della selva,
perenni tremiti
tra essere e nulla,
piange la belva.

Queste Notti promettono
saëtte e spasimi,
e si crescono i fanghi
lungo le rive,
e presso le casupole
che ancora ignorano
i guerreschi fandanghi,
lame corrive,

e canto il fremito
dei contadini
che ne patiscono -
ahimè, i meschini! -

il gelo ch’èrgesi
siccome un Mostro,
e canto i tocchi
di lor che gridano,
di pioggia gli occhi.

Son Forze irripetibili,
e inesorabili,
Elementi confusi
nel Caos che giunge,
le man d’Iddio ne plasmano
le posse formide,
che premono gli illusi,
l’ira li punge.

Canto degli Ussari
i manti aspersi
dal ciel che gròndasi
dai nembi tersi.

Canto pel fulmine
il vincitore
inno fatale,
canto nel vortice
del suo dolore
l’ode che assale.

III. S’erge quivi com’Ercole
tra l’acque il gran cimiero,
ne sfida il cimitero
e il ghigno è sempre altèr.

Sia lode! Lo ripetono
i nuvoli alterati,
che reggono i suoi Fati
all’anglo granatièr!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Domenica XIV Giugno AD MMXV


sabato 6 giugno 2015

1815 - L'Incognito oltre la Manica

Or che mai è oltre la Manica?

Forse gridano i fulmini,
forse i terribili,
flutti del disonore,
della vergogna
tetri ti seppelliscono,
Tamigi, o pallido
rivo di van rancore,
e la zampogna

alle campagne sibila,
canzoni belliche,
i flauti del soldato
che non partiva,
alle cieche casupole
dei bimbi miseri,
le miniere del Fato,
terra corriva;

forse i pallidi valichi
di Dover, flebili
urlano a una Tempesta,
a mezzanotte,
all'ombra degli spasimi
fatali e tremuli
della Luna funesta,
piove alle grotte,

e forse si riversano
nell'onde gelide
le labbra del silenzio
cimiteriale,
dove i Demòni spargono
i tristi calici
d'inebriante assenzio,
Orco fatale.

Or che mai è oltre la Manica?

Forse i lumi s’accendono
delle vie in tenebre,
si danza per la sala
d’un londinese
Sire, e i canti si muovono
e vanno e s’àgitano,
e intanto d’una pala
è il tuòn palese:

i sepolcri si schiudono,
le fosse scavano,
si prepàran le croci,
prive di nome,
e al cielo stanno i bàratri,
l’orbe voragini,
i Destini feroci,
e chiedo come:

or che mai è oltre la Manica?

La mia donna è una vedova,
piange al mio loculo,
ha in braccio il fanciullino
ch’è appena nato,
mi geme ad un’incognita
fossa terribile,
e grida il poverino
bimbo agitato,

ed ella ha in man la lettera
che scrissi - l’ultima -
la legge a un fosco ossame
tra i tanti uccisi,
la proclama a un anonimo
sasso, sarcofago,
tra l’estivo fogliame,
di pianto intrisi

le sono gli occhi, l’iridi
si stillicidano,
e il bimbo guarda intorno,
di croci un mare,
e gli orizzonti annerano,
cupi s’infuriano,
decade il caldo giorno,
è van sperare.

Or che mai è oltre la Manica?

Forse l’ossa mie posano
al suolo gelido,
e maledico il campo
della tenzone.
Presto dovrò combattere
un Mostro orribile,
è del Demonio il lampo,
Napolëone.

Sarà una guerra inutile,
crudele e in tremiti,
e a un tiràn ve n’è un altro,
pace beffarda,
e morirò tra i giovani
nel giuoco ignobile
d’un trono immenso e scaltro,
legge bugiarda.

Or che mai è oltre la Manica?

Con la sua rossa barda,
terribilmente combattendo muore
un uom che dice addio a Vita e ad Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato VI Giugno AD MMXV