Un giorno un acero osservò un abete
che era cresciuto vicino a lui e con
un sogghigno irrisorio gli diceva:
“Sei buffo con quegli aghi penzolanti,
e che sanno d’asprigno e che
allontanano
gli uccelletti, che dondolano al vento
e che si riempiono anche di quell’ambra
colante e appiccicaticcia!... Ma guarda
me, invece, così bello ed elegante,
con queste foglie, con questi miei rami
sui quali i passeri accorrono a fare
il nido!... Non so proprio perché a me
vicino sia cresciuto tale mostro!”.
Venne poi Autunno e l’acero si fece
uno stupor di tinte accese e fulve,
sì che ancor più vanitoso derise
dell’abete il virente ramoscello:
“Guardami! Anche le Ninfe mi
desiderano,
non sono che il più bello tra i viventi,
gli Olimpi mi incoronano di luce..
e tu.. guardati! Sempre così, oh
mostro!”.
Ma venne il verno e a una a una quest’acero
perse tutte le foglie e allor rimasto
spoglio si vergognava, il fitto gelo
sofferendo. “Mio abete, caro amico,
non avrai forse del rancore, vero?...
Vedi: ora io sono nudo e tu hai le
foglie;
a me ne presteresti due o tre, quanto
bastano per coprirmi e non gelare?”.
“Nessun rancore” rispose l’abete:
“ma questa è la Natura: entrambi alberi
abbiamo foglie diverse; le mie
resistono all’inverno e non raggelano.
Ahimè, potessi darti qualche mio ago!
Ma non posso… Però voglio dir questo
a te che ti vantavi, ed è che il cuore
dei vanitosi soffrirebber freddo
anche d’estate, quando fosse chiaro
il disinganno della vanità.
Inoltre, a tutti son dati virtù
e difetti: se sei sì bello quando
la Natura si sveglia, accetta d’essere
infreddolito e nudo quando dorme.
Ben fosti vanitoso, non far dunque
che ti roda perfin la trista invidia!”.
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