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sabato 30 maggio 2015

Ode alla Malattia del Crepuscolo

Quest’è l’istante, l’attimo
tubercolotico
dei tetri Sentimenti,
dei patimenti,
del Fato inesorabile,
l’ora in cui sangue il cuore
versa al terrore,
la malattia dell’Anima
che geme e s’agita
che non so dove china,
forse a una spina,
cupamente al crepuscolo,
come al tramonto il Sole
muor sulle viole;

è il Tempo d’immutabili
doglie di femmine,
quando Iddio s’è perduto,
lo sconosciuto,
quando la Croce esanime
proclama eterna Morte,
la nostra sorte,
dei singulti che passano
torvi e frenetici,
l’ora dei folli canti,
d’insani pianti
che dall’occhio si cadono,
dall’iride malata
che giace orbata,

come Notte d’immobili
ciechi di tenebre,
nel petto ansioso e aperto
abbiam sofferto,
al labbro muto i farmaci
bevuti e singhiozzati,
i freddi Fati,
quel che si scorre, il vivere,
l’incauto attendere
l’ambita guarigione
d’una passione,
e i Tempi si compiacciono,
e fuggon pei ruscelli
dei tetri avelli.

Allor irremovibili
i bronzi squillano
le lagne dei defunti,
veli trapunti
di nudo ferro e spasimo,
la malattia,
la Poësia
sono tutt’uno, e scorrono,
e s’accompagnano,
e all’orizzonte muore
debol l’Amore,
e noi… e noi, i miserabili
siam loculi viventi
in preda ai venti,

siam gli spettri spasmodici,
gli eterni epìgoni,
i vermi della fede,
caduti al piede
del veleno di Sàtana,
il ventre putrescente
del Ciel vivente,
la tosse ombrosa e tisica
degli aspri gemiti
che in mesto e crudo pianto
al camposanto
curva scioglie la vedova,
del Fato nostro adorna,
furiosa Norna.

È il Tempo degli Spiriti,
occhi deïstici,
morbo della Ragione,
senza canzone,
dove son vani i rapsodi,
i parroci e i profeti,
dove gl’inquieti
Orchi, i Demòni sorgono,
donne seducono,
uomini il sangue a terra
spingono in guerra,
per l’impotente nugolo
che minaccioso gira
in negra spira.

È l’ora delle tremule
febbri malariche,
di stare stesi a letto,
dubbio e sospetto,
come un scialbo cadavere,
i verdetti aspettando
e spasimando
del fuoco incontestabile
truce degli Inferi,
è il momento dei smorti
animi assorti
nei sepolcrali e lugubri
cancelli, le candele,
cero infedele,

l’attimo d’urla e d’orridi
sospiri spastici,
d’esser mangiati inermi
dai nudi germi
delle selve desertiche,
di urlare e di soffrire
all’avvenire,
dove regna l’incognito,
l’inconoscibile,
malattia che si vive
nelle corrive
Furie fatal del Dèmone,
morbo spirituäle
dell’Ideäle,

una vampa che flebile
gemendo spasima,
una ragna sdrucita
d’incauta Vita,
quando nell’ira d’Ecate
strappa del spiro il sajo
all’arcolajo
la Dea, geniàl Proserpina,
Ade salmodico,
quando giova la strega
l’aspra congrega,
la setta dei diabolici
intrugli della scienza,
fioca demenza. 

Malia oscura e anonima,
serpe satanica,
la nostra stirpe cade,
le tombe invade,
e viene tardi il medico,
non ha la medicina,
e si declina,
e i mari delle lapidi
tosto ci inghiottono,
e in nero e tristo dòmino
ci stringe il Diavolo,
in questa sofferenza,
senza coscienza,
siam destinati a un tumulo
di questi urlanti ossami,
secchi fogliami.

Sàtana egli è, è Lucifero
il Distruttore incauto,
lingua di vipera,
voce di flauto….
È giunto il crudo, il Mostro,
spalanca il rostro.
Ma in tanti e folli brividi,
d’intorno giace un farmaco:
a Te, o Croce, mi prostro,
e sono atòmo,
e Ti contemplo, o Dio,
e sono salvo,
e sono domo.
Ed ecco l’Uomo.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XXX Maggio AD MMXV

venerdì 27 marzo 2015

L'Elegie del Crepuscolo

Riflessione sulla Vita

A’ monti tempestosi, o mendicante,
come un falco t’innalzi, e se’ ansimante,
l’ime convalli n’ammiri e ne tremi,
nevi di sciolte spemi.

Non un covo alle piogge, un antro oscuro,
non una fonte al labbro morituro,
nulla ne trovi che ti sia un conforto,
e ‘l Sole è morto.

Anatèmi di spasmi! E ‘l tuo sentiero
s’erge alle vette d’un valico altèro,
e ‘l passo s’affatica e all’erta piagne.
Orizzonte di lagne.

Scruti tremando le rocce d’un bivio,
un sasso in pane d’un fatal convivio.
Bèviti l’acque del prisco sudore,
l’aspro dolore!

Cos’è la Vita, oh stolto, se non l’ali
del misero sospir che qui n’esali?....
Una Morte perenne a un ghiaccio sciolto,
cranio d’umano volto.

Allor dinnante al tron del sommo Iddio
vedrai i tuoi cari che portan l’addio!

I Sensi

Un senso di mestizia all’occhio viene
al Sole che si crolla, e all’ansia spene
che nella Notte oscura si confonde
pelle nubi errabonde.

Senso di muti silenzi all’orecchio
febbrilmente si giace, e al canto vecchio
de’i monti si tramonta l’orizzonte,
d’inquieto ‘l fonte.

Sensi di sprezzo e di crudel fetore
cupi e tremuli vanno a un dolce fiore
che nella Morte dorme e che si grida
pella montagna infìda.

Oh viandante, assapora al tatto ‘l vento,
l’ossa de’i nembi in eterno tormento,
un senso di morir nell’ansia Vita,
trista e infinita!

Allora ne vedrai che cola ‘l miele
dal tramonto che infuria in tetro fiele;
e coglierai pel labbro un tosco infame,
la Luna in tra ‘l fogliame.

Sensi di sonno perenne e confuso;
e la spene, oh viandante, oh spirto illuso!

La Vanità dei Sogni

Ma tu, Poëta, un dì dassen udivi
i giubili de’i sogni, i più giulivi?....
Altro non son che l’ombre delle pietre
nella Notte e pell’etre!

Come ‘l Sol si tramonta al vespro oscuro,
così d’ogni sognar è perituro
l’eterno torneamento; e ‘l soffri e ‘l gemi,
non hai le spemi.

Tacito ‘l labbro rinunzia all’Amore,
e ‘l volto si lamenta, e grida ‘l core,
cadon le stelle, e una Musa svanisce,
e una strige guaïsce.

Disse ‘l mortal: «Vanitas Vanitatum»,
e io ne dirò: «Odio somnium, odio Fatum»,
sprezzo le grazie de’i sogni confusi,
e disillusi.

Non un fiore, una rosa, un gelso scialbo,
non le dolcezze d’un queto prunalbo,
non ho la requie attesa, e ‘l gaudio antìco
e ‘l ciel diurno e aprìco.

Oh Poëta, su’, di’ al Signor sovrano:
sogno si muore, ‘l tuo vivere vano!

Dinnante al Tramonto

Ah perché, oh sommo Iddio, ‘l ciel ne pingesti
di questi nembi e dolci, e rosei e mesti?....
Perché questo tramonto è dolce al volto,
ma d’allegria disciolto?....

Vanno le nubi dorate nel mare
del Sole che si cala, e a lamentare
la Notte che sen viene un nembo mugge
la pioggia, e ‘l sugge.

L’oro del cielo, l’argento e la bruna
impronta della sera e l’alba Luna
s’infrangono alle chiome delle cime
in un morir sublime.

Allora e quivi di melanconia
un senso indefinito e in frenesia
a’ lumi ottenebrati omai m’assale,
torvo e fatale.

Presto sarà la Notte; e svelto tace
l’orizzonte che morto e oscuro giace.
Scialba la Luna ne sarà ‘l madore
del tuo volèr, Signore!....

E sopporti che qui crudel perdura
la tenebra perenne alla Natura?

Al Sole che muore

Oh tu che muori alfin, oh tenue Sole,
in su’i campi e i capei di prische viole,
a che giova ‘l coprir di questo cupo
manto d’eterno lupo?....

Fioco discendi le vette de’i monti,
tacito baci le stille de’i fonti,
e te saluta allor che tramontato
un ululato.

Hai paüra del vespro oscuro e inulto,
al mio guardo ne tremi, e co’un singulto
da un’altra parte volgi e in sul Catai
pria dell’alba n’andrai.

Ma me che resto in Notte non ricordi?....
Sono i tuoi strali a me istesso sì sordi?....
Or m’invade la Notte e i’ son perduto.
Oh Sole, ajuto!

Privo di posse d’attendere l’alba
a te lamento e alla Luna in ciel scialba.
Ma ‘l ciel d’oscure forme ognor s’ammanta,
e una nòttola canta.

Sempre tenebra n’avvolge le grotte:
è sempre più dolor, sempre più Notte!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XXVII Marzo AD MMXV