Riflessione
sulla Vita
A’ monti tempestosi, o mendicante,
come un falco t’innalzi, e se’ ansimante,
l’ime convalli n’ammiri e ne tremi,
nevi di sciolte spemi.
Non un covo alle piogge, un antro oscuro,
non una fonte al labbro morituro,
nulla ne trovi che ti sia un conforto,
e ‘l Sole è morto.
Anatèmi di spasmi! E ‘l tuo sentiero
s’erge alle vette d’un valico altèro,
e ‘l passo s’affatica e all’erta piagne.
Orizzonte di lagne.
Scruti tremando le rocce d’un bivio,
un sasso in pane d’un fatal convivio.
Bèviti l’acque del prisco sudore,
l’aspro dolore!
Cos’è la
Vita , oh stolto, se non l’ali
del misero sospir che qui n’esali?....
Una Morte perenne a un ghiaccio sciolto,
cranio d’umano volto.
Allor dinnante al tron del sommo Iddio
vedrai i tuoi cari che portan l’addio!
I Sensi
Un senso di mestizia all’occhio viene
al Sole che si crolla, e all’ansia spene
che nella Notte oscura si confonde
pelle nubi errabonde.
Senso di muti silenzi all’orecchio
febbrilmente si giace, e al canto vecchio
de’i monti si tramonta l’orizzonte,
d’inquieto ‘l fonte.
Sensi di sprezzo e di crudel fetore
cupi e tremuli vanno a un dolce fiore
che nella Morte dorme e che si grida
pella montagna infìda.
Oh viandante, assapora al tatto ‘l vento,
l’ossa de’i nembi in eterno tormento,
un senso di morir nell’ansia Vita,
trista e infinita!
Allora ne vedrai che cola ‘l miele
dal tramonto che infuria in tetro fiele;
e coglierai pel labbro un tosco infame,
Sensi di sonno perenne e confuso;
e la spene, oh viandante, oh spirto illuso!
Ma tu, Poëta, un dì dassen udivi
i giubili de’i sogni, i più giulivi?....
Altro non son che l’ombre delle pietre
nella Notte e pell’etre!
Come ‘l Sol si tramonta al vespro oscuro,
così d’ogni sognar è perituro
l’eterno torneamento; e ‘l soffri e ‘l gemi,
non hai le spemi.
Tacito ‘l labbro rinunzia all’Amore,
e ‘l volto si lamenta, e grida ‘l core,
cadon le stelle, e una Musa svanisce,
e una strige guaïsce.
Disse ‘l mortal: «Vanitas
Vanitatum»,
e io ne dirò: «Odio
somnium, odio Fatum»,
sprezzo le grazie de’i sogni confusi,
e disillusi.
Non un fiore, una rosa, un gelso scialbo,
non le dolcezze d’un queto prunalbo,
non ho la requie attesa, e ‘l gaudio antìco
e ‘l ciel diurno e aprìco.
Oh Poëta, su’, di’ al Signor sovrano:
sogno si muore, ‘l tuo vivere vano!
Dinnante al
Tramonto
Ah perché, oh sommo Iddio, ‘l ciel ne pingesti
di questi nembi e dolci, e rosei e mesti?....
Perché questo tramonto è dolce al volto,
ma d’allegria disciolto?....
Vanno le nubi dorate nel mare
del Sole che si cala, e a lamentare
la pioggia, e ‘l sugge.
L’oro del cielo, l’argento e la bruna
impronta della sera e l’alba Luna
s’infrangono alle chiome delle cime
in un morir sublime.
Allora e quivi di melanconia
un senso indefinito e in frenesia
a’ lumi ottenebrati omai m’assale,
torvo e fatale.
Presto sarà la Notte ; e svelto tace
l’orizzonte che morto e oscuro giace.
Scialba la
Luna ne sarà ‘l madore
del tuo volèr, Signore!....
E sopporti che qui crudel perdura
la tenebra perenne alla Natura?
Al Sole che
muore
Oh tu che muori alfin, oh tenue Sole,
in su’i campi e i capei di prische viole,
a che giova ‘l coprir di questo cupo
manto d’eterno lupo?....
Fioco discendi le vette de’i monti,
tacito baci le stille de’i fonti,
e te saluta allor che tramontato
un ululato.
Hai paüra del vespro oscuro e inulto,
al mio guardo ne tremi, e co’un singulto
da un’altra parte volgi e in sul Catai
pria dell’alba n’andrai.
Ma me che resto in Notte non ricordi?....
Sono i tuoi strali a me istesso sì sordi?....
Or m’invade la Notte e i’ son perduto.
Oh Sole, ajuto!
Privo di posse d’attendere l’alba
a te lamento e alla Luna in ciel scialba.
Ma ‘l ciel d’oscure forme ognor s’ammanta,
e una nòttola canta.
Sempre tenebra n’avvolge le grotte:
è sempre più dolor, sempre più Notte!
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Venerdì XXVII Marzo AD MMXV