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sabato 4 aprile 2015

Poesia di Preghiera e di Laude - Risurrezione

Per te, Anima mia, che sei l’unico sguardo di cui ebbi paura nel guardarlo, perché il volto di se stessi o d’una stella luccica dei volti degli altri. Ho avuto paura perché ero nudo d’Amore, e mi sono nascosto.

C’era una volta una favola vera,
un racconto tra quelli che ti riempiono
al lègger della fine il cuor di lacrime….
Ricordi tu la brezza d’una fiaba
che per la Notte andava, quando tu
perennemente avevi la paüra,
fauci di tenebre immote e furiose?....
Un tintinnio nel petto, sì, un solletico
breve sussulto d’una gioia inaudita,
e tu ridevi, e tu piangevi, e tu
eri la Stella padrona del Fato.
C’era una volta un Uomo che ti prese
come una madre tra le dolci braccia,
ninna nanna per te, un flebile suono
che coprì le percosse e l’empio sputo,
l’incùdin ferrea degli azzimi chiodi,
alle spalle ti pose, perché tu
non ricevessi nulla di quel Male,
aprì le mani per squarciarti il velo
del Tempio del tuo cuore, culto eterno;
e morì, e ti inondò di Vita immensa….
E tu, tu ne piangevi, sì, perché
era arrivata la fine festosa
della favola letta al vespro occulto,
gaudio indelebile e pio e immacolato.
C’era una volta un Morto; e si svegliò
nel sepolcro d’un sogno che è più vero
del Sole che si brilla, vero come
quello che senti, che provi, che esprimi,
come un «T’amo!» schioccato dalle labbra
d’un bacio che ghermì l’attimo fuggente,
irripetibile… e insognabile,
perfettamente ùnico, stupendo,
giorno senz’alba, una Notte di luce,
la freschezza dei monti all’albeggiare.
Volto a volto, e un timido e bel guardarsi!
Guardati! Sei l’immagine di Lui,
lo specchio del Dio vivente ed eterno,
l’occhio simile al suo, i capelli, il mento,
un giovane per sempre. Guarda! Tu
sei il suo conforto, il ginocchio che piègasi
a baciare il perdono… afferri la Vita!
Non arrossire, ascolta: il suo labbro
vola un mellifluo baciare, un abbraccio,
rondine lieta per i cieli in festa;
e nel tuo sguardo ameno riconosco
nel naufragio dei sensi, somma gioia,
l’impronta ch’è infinita, eternamente,
l’impronta della Vita, in un Ocèäno…
palpita!
Tu grida!
Tu giubila!.... Esulta!....
…. In un Ocèäno… in un Ocèäno, d’Amore!

*****

Va’; e annunzia alle genti che è risorto,
vinse la Morte, i peccati e il Demonio,
Cristo Signore, un fiammeggiar del Cielo.
L’ho visto… l’hai veduto! Nel madore
dei veli nuziäli della grande
Sposa che esulta nel cantico immane,
il suo volto al mio volto, al suo il tuo viso,
il mio sguardo al tuo sguardo, un fiammeggiare
di occhi perpetui che qui si ripetono
nei silenzi dei canti eccelsi e santi,
e siamo fusi in Lui al volo dell’incenso
È Notte! Ho raccontato questa favola
al tuo sonno pesante, al cuore tuo.
Chiudi gli occhi! E n’annunzia ai sogni: «È risorto!».
Domani ti risveglierai e sarai felice:
non più lacrime, non guerra,
tramutata in letizia la doglianza,
trasfigurato in miele ogni soffrire.
No!....
Non è un sogno: è la Potenza dell’Amore!

*****

Gloria a Te, oh Padre, e al Figliuolo e al Santo Spirito,
ora e per sempre, e nei secoli dei secoli.

Amen


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì Santo VI Aprile, Sabato Santo VII Aprile AD MMXV

giovedì 2 aprile 2015

Due Elegie sacre

Elegia romantica e sacra - Il Cantico di Maddalena

Addio, mio Amore perduto in eterno,
volto che geme nell’ultimo ischerno,
guancia che soffre nel sangue che cola;
e ‘l Ciel, no! no’l consòla!

E tu mi scorgi, e piagni, e mi conforti,
in tra l’ombre del vespro e i nembi morti,
tu!... che bevi ‘l silenzio, ‘l labbro muto
del mio core perduto.

Perché - dimmi! - ho mertato ‘l tuo lamento?....
Ve’, non son che urlo, uno spettro nel vento,
un verme che ne soffre le passioni,
de’i sensi le canzoni.

Perché ‘l labbro ne posi come un bacio
dolce e novello alle rocce ‘ve i’ giacio?....
E dovrò sopportare ‘l tuo dolore -
sta iscritto! - oh insano core!

È mellifluo ‘l tuo sangue, e ‘l corpo ameno,
calice eterno. Ah! ti stringa al mio seno!....
Fa’ che i’ ne beva una stilla, le vene,
la coppa dell’Imene!

E tu mi parli, e lagni, e ne proclami
santa una donna, una misera, e la ami…
tu! che al vespro salvasti questa Vita
che vagava smarrita.

Mira! Mi graffio ‘l volto e queste gote
alle tue membra in duolo, ansiose e immote,
e teco e qui d’Amor nel tuo martiro
redenta alfin i’ spiro.

Elegia romantica di Laude - Te Deum

Un Sole si lampeggia all’orizzonte,
astro che lieto si splende a una fonte,
nel tramontar al di là d’ogni mare,
delle Tempeste care;

e Te lodiamo, oh eccelso, oh sommo Iddio,
Signore delle nubi, oh core pio!

Fors’è una nenia dolce, e a un sen materno
un mellifluo cullar che sembra eterno,
la Luna che rischiara l’orba Notte,
l’alveo e le grotte;

e un coro di Portenti in lieto pianto
a Te ne inneggia e Te proclama Santo!

Allor d’un queto volto ‘l ciel si pinge,
alle guance ansimanti un pane intinge,
guardo che soffre e che in tremiti langue
e che ne versa ‘l sangue:

un Uomo che soffrìa per noi e che fu,
d’Iddio l’imago pia, Cristo Gesù.

Non v’è che l’alba, non Notte, non cupo
manto fatale d’un formido lupo,
un perpetuo brillar d’un Lume etesio
pe’un nembo cesio.

Abbi pietade delle nostre pene!....
In Te la Vita, in Te la santa spene!

Amen


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Mercoledì I Aprile AD MMXV

sabato 28 marzo 2015

Una Canzone per il Triduo pasquale - L'Angoscia dell'Ulivo

Ei orava nel Tempio d’un prato,
spasimando a’ nembi superni,
piagneva all’estremo suo Fato
tra ‘l coro degli Angioli eterni,
e al volto tremava impaurito,
singulti di preci interrotte,
i salmi al fatal Infinito;
è sempre più Notte.

Tremava a’ compari dormienti
su’i sassi de’i tremuli ulivi,
solingo pe’i legni soffrenti
nel grido degli ultimi rivi,
e mesto aspettava ‘l Destino,
le scolte del tristo Demòne,
un sandalo a terra ferino,
la cruda Passione.

I tremiti al labbro irrequieto
spezzarono i santi lamenti,
un sorso di fiele e d’aceto
scendeva alla gola, e i tormenti
andavano folli e illusori
d’un Calice tolto e consunto.
Ma andranno i fatali aspersori
sull’Uomo defunto!

Batteva le mani a una pietra
in duolo che dir non si puote,
s’ergeva alla tenebra tetra,
le membra ansimanti ed immote.
Udiva nel petto un tremore,
un palpito alla Furia feroce,
un fior che si squarcia nel core;
è giunta la Croce.

Piagneva al recordo degli ermi,
al Sole del ciel nazareno,
i guardi, le speni, gli infermi,
il frutto d’un vergine seno.
Gridava alla Madre lontana,
al sonno de’i stanchi fratelli,
la spene ansimava sì vana
a’ queti arboscelli.

In lagrime stava a membrare
i queti villaggi redenti,
il lago, ‘l Giordano e del mare
melliflui e terribili i venti.
Membrava la mesta Maria,
dal sasso salvata e dai crudi,
che tolse dall’orrida via,
dal core de’i drudi.

Lagnàvasi a Lazzaro e a’ morti
che alzava dal sonno supremo,
a’ figli da’i morbi risorti,
le bimbe dal tumulo estremo.
Membrava colui che gli disse:
«Signore, ti prego: ch’io veda!»,
gli storpi che un dì benedisse
pe’i quali fia preda.

Nel core un dolor deleterio
temprava sudando nel gelo,
copriva le nenie e ‘l salterio
d’un funebre e lugubre velo.
Lagnava alla Sorte assegnata,
fremeva alle posse del Dio,
co’ voce tremante e ansimata
chiedeva: «Son io?».

Ansante chiamava i compari,
bugiardi ne’i giuri proposti
or quando agli altàr tutelari
il pane ei donava co’i mosti.
Ma questi sen stavano in sonno,
temendo pur essi la Vita;
né lagne spezzare ne ponno
stanchezza infinita.

Tremava all’udir che gemeva
un nembo tra gli astri e la Luna,
che trista la Notte faceva
se istessa più cupa, più bruna,
e a un ramo gli apparve una forma
d’un torvo Demòne irridente,
le fiamme alle gote e in sull’orma,
terribile dente.

Mirava che questi inghiottiva
le terre d’un negro sudario,
che al Spirto nel volo appariva
e al santo e divin reliquario,
che ‘l Tempio struggeva ridendo,
nel foco d’un cupo tremuoto,
al corpo d’un legno tremendo
avvinto ed immoto.

Scorgeva che un Calice aperse
le nubi del cielo notturno,
il sangue le terre n’asperse
dinnante al Demòn taciturno.
Piagnendo accettava la meta,
morire in tra immenso dolore,
del Nume appagare la pièta
per te, peccatore.

Allora ei n’udiva le scolte,
le lagne del misero Inferno,
le spade di tenebra avvolte,
maëstre di doglie e d’ischerno.
Giungeva l’estremo momento,
la Morte schiudeva le grotte.
Veniva ‘l mortal patimento;
e fuvvi la Notte.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì XXIII Marzo AD MMXV