Un’onda alta otto piedi. Il mare bolle.
Urli di pesci-donna e scogli neri.
Tornavamo dalle albe dune, al Sole
della Nubia gettate dagli Dei.
Tutto finì nel mare: l’oro il dolce
balsamo dell’incenso le pregiate
pelli di serpi e pantere le zanne
dei giganti che regnano sull’Africa.
Anche il mio amato equipaggio perì,
volti di amici ben noti che più
non rivedrò nemmeno per le tombe.
No.. non so come mi salvai. Ero anch’io
tra i flutti irati del Dio degli Abissi
marini. Persi conoscenza… E quando
ripresi i sensi ero seduto ai liti
di un’isola deserta. Ma le palme
grondavano liquori mai gustati
ed, ebbro di costoro, m’inoltrai
per osservare una via di salvezza.
Però, d’un tratto, una serpe tutta oro,
che come il Sole luceva, m’apparve
e stritolandomi in tra le sue squame
mi minacciò.
“Umano, come sei giunto sull’isola?...
Dimmelo! Ma se non me lo dirai
in fretta, io ti mangerò tutto intero!”.
Raccontai la mia storia ed essa fu
sazia
sì che mi fece grazia e mi lasciò.
“Ora la mia isola è anche la tua, umano.
Non temermi! Vivevano con me
altre serpi, anch’esse oro, erano i
miei
amici, erano i miei cari, i fratelli.
Una notte una stella furibonda
cadde sui nostri covi e ci ammazzò.
Come tu ti salvasti dal naufragio,
io mi salvai dalle fiamme assassine,
gli estinti lagrimando per gran tempo.
Ora in te ho ritrovato un nuovo amico,
qualcuno che mi faccia compagnia
in questa solitudine inumana.
Qui c’è tutto quello che più desideri,
potremmo raccontarci storie fino
a sera: tu per come da te vivono
gli umani, io ti svelerò il cuore
arcano
dei serpenti.
Ma anche se prima ti minacciai, oh amico,
non lasciarmi più sola su quest’isola,
o piangerò che la stella non mi abbia
assassinato!”.
Chiusi gli occhi. Mio figlio sul Nilo.
“Mamma, quando vedrò tornare il babbo?”.
La mia sposa dal seno - al Sole- nero.
Il mio mercato.. le ombre delle vette
delle sacre piramidi da lungi.
Di quella serpe avevo pietà. Ma io
non potevo restare su quell’isola.
Mentre ridevo con il mostro al fuoco
della sera, di giorno di nascosto
edificai una cimba.
Ma mi soprese.
“Tu, dunque, ingrato, mi lascerai sola,
mi farai piangere il mio Fato orrendo..
vorrai sapermi chiusa nel silenzio
a cercare un amico con cui ridere”.
“Amica mia, sul Nilo ho un figlio
piccolo
che da mesi non parla col papà,
ho una moglie che piange perché non
sono ancora tornato,
i miei amici, i miei fratelli la mia
terra
sono lontani.
Amica mia, vieni anche tu con me,
conoscerai le bellette del Nilo,
vedrai attonita come una bambina
il riposo degli ibis sacri a Ra.
Parlerai con mio figlio, riderai
con lui.. giocherete insieme coi gatti,
ti porteremo ad ammirare l’Occhio
di Ra dalle vette delle piramidi.
Amica mia, sali anche tu sulla cimba
e viaggiamo sul mare fino al Nilo!
Vedremo i pesci-donna che ci cantano
canzoni, piangeremo insieme sopra
l’Abisso che ha inghiottito i miei
compagni,
ti porterò a vedere il bel deserto…!”.
“No!... No! Non posso!... Leggi arcane
e sante
di lasciare quest’isola mi vietano.
Va’.. torna.. possiamo solo dirci
addio!”.
Mi voltai. Un forte rumore di tuoni.
Una fievole voce moribonda.
Un mormorio di metallo che crolla,
come scroscio di spade scintillanti
sui campi di battaglia dell’Etiopia.
“Portami ora con te!”.
Rigiratomi, vidi enormi pezzi
d’oro massiccio. Preferì la Morte.
Povera amica!...
Non dev’essere bello vivere soli,
istigare la forza inanimata del vento
a rispondere effimere parole,
né piegarsi alla legge più severa.
Amica mia, potevamo davvero
vedere il deserto!... Ahi, che
ricordo!...
Destini infami!
Tornando invece a noi,
ora, mio Faraone, hai ben compreso
perché quest’oro.. io voglio tenere
solo per me?...
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