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lunedì 2 novembre 2015

Tre Odi di Prosa di un ultimo Poëta romantico

I. Maturità senescente

Selva di pruni, e di pioppi, e di sàlici
con me la sera allùmina, e le spoglie
frasche, e le ignude fronde, ombre di Notte,
e gli irrequieti faggi, e i tetri càrpini,
e queste nubi in sul far della Luna
che viene pàllida
dopo il passàr
del mio meriggio,
come argento àrido,
specchio d’un mar,
dove sta un riccio
che èsule dell’autunno è, e del castagno,
qui, in sulla via che io percorro in affanno,
io rimembrando l’ùltima mia estate,
e sconsolando il cuor nel mio sognare,
e gemendo io di làgrime infinite,
e allor d’indefiniti àttimi, e speni,
perché ‘l so: piàngere
debbo io a’ perduta
mia giovinezza,
il vespro d’ìncubi,
la fonte muta
della sua ebbrezza; e
perché io fantàsima
passeggio e ascolto
fosco silenzio,
tra i scialbi plàtani,
ricordo un volto:
labbro d’assenzio.
E così un altro giorno va a morire,
un dì che ho in meno da vìvere, e Morte,
e Fato, e Tempo d’intorno mi vàgolano,
dove so che beltà non fu che un sonno,
e Idëàle l’Amore, vero il duolo. E
come le Norne ròride
del pianto dei defunti,
e come le mie Sìlfidi
danzanti a’ piè congiunti,
e Villi, e Gnomi, ed Elfi,
fantàsimi dei Guelfi,
io corro a tramontàr.
E questo mio tramonto è una pena
che mi fa inquieta l’Anima, e convulsa
la mente, e bieca la cura, e inaudito
il petto. E per la mia campagna corro
a raccògliere gli ultimi miei fiori. 

II. Il Lamento del Bivacco

E canterò io alle fiamme della Luna,
mesto e perduto, e sepolto in mia Notte,
e urlerà il cuore mio agli astri che muòiöno,
nell’orizzonte oscuro di un Idillio,
e piangeranno gli Elementi indòmiti,
e ombra d’un sàlice
l’orma mia copre,
e il fuoco scialbo,
ombre fuggèvoli,
di Dèmoni opre,
presso il prunalbo.
Non temèr, folle! Non avèr paüra!
Un’ombra ha mai umiliato un uomo? Forse?
Ma canta! Canta! Qui spensïèrando
tu, in vêr la Luna del tuo focolare,
e della tua arpa, e dei sogni tuoi estremi,
màschere vagolanti e sempre inquiete
di Mostri di tue attese, e di Titàni
ribelli ai giuramenti orditi ai fùlmini,
e di questa giovinezza svanita,
e dell’indefinite speni tue!
E io urlando canto; io, ràpsodo
della melliflua Notte, e
del suo sudario fùnebre,
come Orfeo per le grotte
del più lùgubre lupo,
che da un fosco dirupo
qui lamentando ei sèguita
mestamente a ululàr.
Perché è questo che resta: questo dono
maledetto da Dio, la Poësia,
lungo questa giovinezza che muore,
e questo mio tramonto in una Vita
dove è peccato amare, e sognare ancora.

III. L’ultima Rosa dell’Estate

Ripenso: gli àttimi, e i tuoi, e i miei e orbi sogni,
e l’Alpe in fùlmini,
le rugiadose
perdute cime.
La vetta a un tùrbine ululava oscura:
roccioso ràpsodo,
e silenziosa
valle sublime.
E tu? Rosa melliflua, un dì piangevi,
tu prevedendo questo mio tramonto,
e questo mio silenzio, e questa Sorte,
portando tu nel cuore un tuo mistero,
che non volli io discèrnere. E fu un sogno.
Ricordo: i pàlpiti
del delicato
tuo giòvin seno,
che m’era un pètalo
tosco del Fato,
Destìn che temo.
E la Notte sovvenne, e giunse il tetro
sguardo dell’astro di una Luna cupa,
e poscia questo vespro, mi inghiottì
l’alba, e il sognàr mio, e l’ìride
dei tuoi singhiozzanti occhi,
e gli àttimi miei e gli ìncubi,
e il bronzo e i suoi rintocchi,  
l’eco pe’ i mesti vàlichi,
e il cuor a singhiozzàr.
E tu, pìccolo stame, rosa mia,
come il sogno tu fosti, e come il vento.
il più ràpido, e spenta sei alla fine;
e io - folle! - non t’ho mai il labbro baciato,
e nàüfrago in Dio.   


Massimiliano Zaino di Lavezzaro





In Dì Martedì XIX, Mercoledì XX Gennaio AD MMXV

sabato 7 febbraio 2015

Idillio romantico d'Encomio funebre alla Cantatrice Maria Malibran

Tra le brine e le tenebre
e i sassi lugubri,
e nel mar degli estinti e muti avelli
e in tra le affrante roveri
‘ve un fiore si tramonta, e agli arboscelli
che l’alba Luna n’agita
cogli occhi funebri,
e a un Angiolo di rame -
la croce ferrea -
‘ve la bruma ne dà l’estrèm sudore,
e al vespro di pallore
s’addormenta una cerula
tomba di spasimi,
in cui sen sta l’ossame
di donna terrea.

Le pietre delle lapidi
a’ Notte scendono,
e i bronzi delle statue e i lumicini
notturni e mesti splendono
all’ultime doglianze, e pe’i Destini
or serpeggiano tremuli
come fantasimi,
e freddo e oscuro ‘l vento
e in Furia oscena
e alle cripte silenti e a’ fiori insani
e a’ scheletriche mani
febbrilmente si sibila
d’un soffio putrido,
e ne balza un lamento,
la scialba vena,

e i muti e negri tumuli
eterni tacciono,
ciechi di speni e di Vita e di giorno,
e truci e biechi gelano,
e uno spettro sen va di Morte adorno,
or cieco e lamentevole,
e lento e rorido
nel silenzio perenne
delle ghirlande,
e alla destra ne tiene e al collo i teschi
e mira i cieli freschi,
e in sulle cupe nugole
ora dispàrvesi;
e colei che si svenne
in queste lande

placidamente dòrmesi
nel tetro loculo.
Allor da questi spettri omai infestata
la queta bara mormora,
e giace nel sopor l’illagrimata
e cara spoglia e giovine,
e muta làgnasi,
e nell’Eterno posa -
sotto ‘l sudario -
col muschio che ne bacia ‘l ciglio d’osso,
e ‘l smorto labbro rosso,
e del sepolcro ‘l vortice
d’angosce grìdasi,
al braccio un’ansia rosa,
man di rosario.

Or quivi ‘l Tempo orribile
le fiere e pallide
de’i defunti le ragne inquieto ordisce,
e a’ tersa e trista polvere
la misera che dorme or compatisce,
e aspre l’urla si strisciano
i vermi increduli,
e l’eco infausta piagne,
e prega indarno,
e qui perpetuamente ‘l vespro regna -
insiem a’ Sorte indegna -
e l’astro sono i languidi
pepli de’i miseri,
la Luna l’orbe lagne,
e l’osso scarno.

Così a codeste maschere
d’inesorabile
Morte crudele che i corpi divora
e a’ quest’ossami taciti
che ‘l perenne mutar orrendo infiora,
e alle larve terribili,
e a’ germi fetidi,
e al fatal cimitero,
e a’ terra ultrice,
in scheletro mutata una fanciulla
or s’inebria del Nulla,
e un giorno fu la tisica
fauce dell’Opera,
sepolta al fior d’un cero,
la cantatrice;

e al fianco un’arpa flebile
di melanconiche
corde d’argento, del Fato la voce
s’addormenta e ne pizzica
del rosario l’eterna e falba Croce,
e a’ Ciel divini e a’ nugoli,
e all’alme candide
tepidamente canta
quasi gemendo,
e ‘l sòn etesio intende una preghiera
di quest’ossame in cera,
e sempre s’erge stridula
e qui ripètesi
chè d’eco omai s’ammanta
in suol tremendo.

Oh tu, Maria, una docile
dama di cantici,
forse in sonno or sognando vai i perduti
allori e i palchi eroïci,
e i melliflui e soävi e dolci liuti,
e i delicati cembali,
e i flauti fragili,
e l’arsa gioventude,
e i vani ardori,
quando al petto scendean bruni i capei,
e quest’iride e i bei
occhi di Vita ergèvansi,
beltà inconsutile,
e casta per virtude,
e sanz’Amori,

e sogni ancor la Musica,
gli alti pentàmetri,
e presso le Tragende e alla tua destra
di sòni e canti formidi
melanconica e tenue l’ansia orchestra,
e che le note andavano
meste e gradevoli,
e ‘l viver di Teätro,
e l’avvenire
che l’etade schiudeva a’ tuoi desiri,
e i dolci e pii sospiri,
e ‘l core privo d’incubi,
e d’altri gemiti,
in pria un dì di quest’atro
e reo morire,

e gemi al suol italico,
e al mare e a’ Napoli,
e alla Patria e a’ Parigi or piagni mesta -
oh tristo cenere! -
e nobile ne sogni una Tempesta,
e sogni i fior che davano
gl’immensi Musici,
ore primaverili
che un morbo uccise,
e ‘l vivere non fu che un spettro vano,
un reo Destino arcano,
una condanna a’ spasimi,
eterno un brivido,
e molli attese e vili
che ‘l Nume elise.

Allor d’obbrobrio or foderi
quell’ingannevole
Fato che a Londra t’addusse alla Morte,
oh turbinosa indole,
pel destriero che svelse l’empia Sorte,
e ne canti all’ispanica
terra e a’ suoi valichi,
e chè ‘l cantar mai svelga,
in lamentanza
dolcemente rimembri i monti baschi,
e i calli bergamaschi,
e le beltà di Màdride,
e l’onde sicule,
e la foresta belga -
crudel doglianza! -  

e ora qual oboe esanime
ne lagni, e gelida
freddo t’infiammi l’arcano del core,
e tramontata giovine
come le Villi ti strazi d’Amore,
e i tuoi pensieri vergini
or serri al loculo,
oh Vita dissipata,
oh Spirto cesio,
e morta, e bianca e tetra a’ nembi gemi
privata delle spemi,
osso in su’un velo funebre,
oh pianto in scheletro,
e mai tu fosti amata -
un sogno etesio -

e qui al sepolcro rorido,
e al suolo e all’umida
pietra non viene una fiamma a donarti,
né un’ansia rosa o un glicine
or niun de’i Musicisti; e tu che parti
a’ pii e divini nuvoli,
e a’ Cieli liberi
or forse ne disperi,
e l’osseo pianto
alle tombe ne volgi, e niun t’ascolta,
e alla lugubre volta
ne doni un fero gemito,
fatto in fantasima,
e sol d’oscuri ceri
vola ‘l tuo canto;

e nel funereo manto
tra le pene si spegne a te ‘l pio core,
e alma in Cielo ti taci, e ‘l sogno muore.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato VII Febbraio AD MMXV