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lunedì 1 dicembre 2014

Immagini e Sensazioni della Natura che riposa nell'Autunno

Se al finestrel e al far di questa sera
e alle pallide nubi ‘l guardo i’ volgo,
tra’i nugoli ‘l tramonto in tetra cera
terribilmente veggo, ond’io men dolgo,
e l’Ecate fatal pe’ una riviera
de’i torrenti s’irrora, e al ciglio i’ accolgo
l’orba pietra tombal del ciel che annotta
‘ve de’i sogni irrequieti ‘l cor n’ha rotta.

Allor nel mar furioso or delle brume
che di neve frammisto a’ stenti mòve
e che si fulgoreggia in scialbe piume
in sopra i tetti, e i muri e l’ansie alcòve,
qual pallida candela ‘l fero lume
della Luna vegg’io, e che immerge altrove
del suo core medesmo ‘l bianco aspetto
nel nugolo ch’annera al suo cospetto,

e forse ch’è la Notte o ch’è funereo
quest’orizzonte ombroso ch’è in tra’i venti,
omai nel senso insonne e al gelo etereo
nell’alma mia sen van de’ Sentimenti
che di paüra sono, e un fior cinereo
di brine si discende, e i ghiacci lenti
di nevi ancor presagi stanno e ‘l vello
ondoso ne ricopron d’un ruscello;

e i’ che le selve ammiro in tai foschie
e che i campi contemplo in falbe vesti,
e i sentieri ghiacciati e l’orbe vie,
e i gelidi covòn dell’erbe agresti,
d’in quest’autunno novo or Poësie
soävemente attingo, e i cieli mesti
or crudeli mi sono e arcane Furie
or d’in sulle cittadi e in sulle curie.

Così quasi spasmando n’odo i mori
dell’aspra Notte i fiocchi, e va la pioggia
d’in su’i nugoli carchi, e i suoi fragori
com’eco se ne vanno  - e in sulla roggia,
e in sopra a’ boschi attigui, e a’ debil fiori -
e l’acqua fredda e ombrosa omai s’appoggia
in su’ tegole in alto ‘ve si gronda,
in urli di gargolle; et iraconda

co’ un tintinnio di spettri a terra cade,
e qui fatt’è dell’onde, e lì di neve,
e i suoi granel funerei d’albe biade
alle pozze si cadon ‘ve sta lieve
un acquitrin solingo, e pelle rade
‘la i monti e i rivi asperge e un’orba pieve,
e ‘l ciel ognor si spreme l’aspersorio
che all’autùn benedice e al ghiaccio ustorio;

e i’ qui di gelo n’ho la sensazione,
e un brivido all’ischiena mi percòte,
e al labbro si raggela la canzone,
e mie tuttor si ghiaccian l’albe gote,
e le brine mi son e dolci e bone
in su’i muschi gementi e antiche e immote,
e di novembre pascon or quest’occhi
in timor e piacer de’i scialbi fiocchi.

Alfin nell’aër denso ‘l campanile  
i’ n’odo che ne sòna l’ore in ghiaccio,
e ‘l bronzo si lamenta e parmi vile
quest’acciaro che strilla, e quivi taccio,
e pur in uggia ansiosa or mai l’aprile
in membranza ne veggo, e in requie giaccio,
e sibben mi produca un po’ d’ischerno
in ansie folli attendo che sia ‘l verno;

e forse chè la neve è fresca e molle,
o forse chè rimembra ‘l russo oriente,
e forse chè la steppa è un fiore folle
or dicembre a me lice, e l’aspre e spente -
or l’albe mattutine - in sopra a’ un colle
mi giovan tanto e sempre all’ansia mente,
e in men d’un mese ancor dell’Immortale
dolcemente ne sarà ‘l giorno natale.

Ma quest’è Notte torva e ‘l ciel è negro,
e gli spettri nebbiosi a’ cimiteri
spasimando sen vanno e un canto allegro
di risorgenti speni e in su’i sentieri
di ciaschedun lamenta ‘l labbro d’egro,
e questi son lamenti e infami e fieri,
e più funeree in vespro son le cime
del monticel lontan e reo e sublime,

e guerreschi fantasmi or sono gli orni,
e i salci ignudi e i pioppi e i tigli e i rovi,
e che spogli crudel piucché ne’ giorni
sono, e le querce ansiose e  - pria che giovi -
al lasso core ‘l grido d’empi corni
de’i cacciator nel sonno; e in stalle i bovi
si riposano or cheti in sulla paglia
mentre in sonno un somaro or spesso raglia.

Or scheletri ne sono gli arboscelli,
e che afferrano mani ‘l vento irsuto,
e le foglie si piovon su’i ruscelli
del carpino che ghiaccia ormai perduto,
e notturni e rapaci i feri augelli
pizzicano del rostro ‘l cupo liuto,
e pell’aura funesta e maledetta
tra queste brume canta la civetta,

e ‘l muschio in sonno attende l’alba brina,
e i cardi e le betulle e ‘l ceppo e ‘l bosco
qui dormono in eterno - e pur mattina
addormentati ‘l vegge e in ciel men fosco -
e ‘l verno sempre più e omai s’avvicina
co’ ghiacci suoi frementi al par d’un tosco
e la sera - al terror che giace ligia -
nelle tenebre nivee or splende grigia;

e i’ che questo contemplo e alla finestra
e al vetro che notturno in pioggia piagne
e all’aër che sospira alla mia destra
in sulle torve e cupe e ree campagne,
or siccòme ghiacciata la ginestra -
le rose assiderate - in vane lagne
a tanti spasmi sono or qui smarrito.
La Natura è un mister dell’Infinito!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Lunedì I Dicembre AD MMXIV

mercoledì 26 novembre 2014

Poemetto romantico - Il Martirio di Santa Giovanna d'Arco

Era Notte, e tacea lo sguardo in pianto
di questa dama, giovin prigioniera,
e nell’oscur del suo giaciglio affranto
inginocchiata stava e colla fiera
catena a’ polsi e a’ piedi, e un mesto canto
al Ciel strillava e bianca come cera,
e d’in su’ un finestrel splendea la Luna
in sulle pietre della cella bruna.

Come candida bruma questo strale
scendea gentile e lieto a’ sassi grezzi
del pavimento e del muro ferale
‘ve degli ossami giacevano i lezzi,
e questo raggio n’era pio e immortale
nell’orror cupo, un fior di molli vezzi;
e fuor strillava oscena una civetta,
cantando a’ scarni Inferni e alla vendetta.

Or tra questo cantar e questo insulto
la scialba Luna in Notte n’era alterna,
e nel suo cupo manto e nell’occulto
d’intorno ‘l nembo gemea una viverna,
e col foco represso in reo singulto
pendea dall’alto - in cella - una lanterna;
e sotto ‘l volto di questo bel lume
una fanciulla stava a orar il Nume.

Ella vestìa di bianche lane e avvinta
e prona giacque a dir preci al Divino,
le man congiunte al petto e alla discinta
spalla n’ebbe, dannata a reo Destino,
e la pupilla avea di Morte pinta,
onde finìa precoce ‘l suo cammino;
e al sòn mellifluo e dolce or d’una lira
celeste attese ‘l foco della pira.

Cupo e muto l’avel di questa pietra
di Notte orrenda e folle la copriva,  
e come un strale che indarno penètra
l’orba e candida Luna la feriva
chè dessa stava terribile all’etra
come un ossame, di tomba una riva;
e la fanciulla fu la pia Giovanna
e n’attendeva l’estrema condanna.

Dicea ‘l suo labbro in spasmo le preghiere
de’i morti inermi e pur dell’agonia,
e all’occhio suo n’apparvero le sfere
e i Ciel, le stelle e del Divin la via,
ed ella che fatal fu un cavaliere
piangea supina alla vergin Maria,
e lenta e santa e casta un pio rosario
urlava muta a un tristo reliquario.

Allor sognava i campi ‘ve piccina
iva a solcar la terra e ‘l biondo fieno,
il cardo e ‘l mirto, e la rosa e la spina
e del ginepro l’amato veleno,
e fuvvi un giorno antico ‘ve divina
or chiamava la Sorte ‘l suo bel seno,
ed ella n’ebbe una sacra visione,
la Francia e ‘l rege, i Cieli e la Passione.

Ansio ‘l ciglio di questo sogno beava,
e delle spade atroci e degli ostelli,
e in tra le nebbie notturne ammirava
in sul vagheggio le pugne e i duëlli,
e de’i trabocchi i sassi ne scrutava
come in cielo ‘l volar de’i negri augelli;
e poscia scorse l’infame Borgogna,
e ‘l tradimento, e la prigion, la gogna.

Sognò pregando in spasmi i fieri assalti,
e l’alte torri e i ponti e i cavalieri,
e gl’Inglesi crudel che dagli spalti
scagliavan dardi di Morte forieri,
e delle pugne i formidi ribalti,
e mai compiuti, i saccheggi sì altèri,
e ‘l dardo insan che la colpì in sul core
‘ve la salvò d’Iddio l’eterno Amore.

Ora tremava, e senza sonno giacque,
e smorta e bianca e inquieta in sulla cella
posava ‘l spento guardo, e poscia tacque
come spettro fugace, e a quella sella
che usò cotanto ripensar le piacque,
e nella Sorte orribile e rubella
pregando prona le nuvole e Iddio
alla sua terra dicea estremo addio.

Ma nel frattempo, in vicin monastero,
cantâr i frati oscuri ‘l Miserere,
e spettri orrendi e rei d’un cimitero
sclamavan cupi l’istesse preghiere,
e tristo andava e all’ombra d’un gran cero
contra la dama santa l’Avversiere,
e come un spettro ora la provocava,
e pel suo nome dolce la chiamava.

Era come un fatal chiaror di brume
in sul mador di questa Luna bianca,
e qual nottola n’ebbe l’ala implume
e la bocca feroce e trista e stanca,
e ne irrideva iniquo ‘l santo Nume
come ‘l ghigno di belva che n’abbranca,
e alla pulzella ‘l guardo torvo affisse
e sibilando poscia - e istrione - disse.

«Giovanna, ascolta!» sclamava ‘l Demonio:
«A me t’inchina e salva avrai la Vita:
come una fresca brezza in sullo Iönio
poss’io placar la fiamma e far sopita!».
Ma ella rispose: «Vattene, e ‘l tuo conio
alla mia Sorte mi lasci smarrita!»,
e allor l’infame urlando ne svaniva,
e col suo grido la donna colpiva;

e costei ne spasmava, e a’ questi gridi
a terra cadde e ansiosa, e Iddio pregava,
e sol poiché n’avea gli acciar infìdi
la sacra Croce al petto non segnava,
e ‘l reo Demòn d’in su’ suoi terrei lidi
crudo e bieco e ferino ancor n’urlava,
e intanto ‘l coro de’i Domenicani
cantava i salmi da’i chiostri lontani.

Più la fanciulla giacea in sua paüra,
e come larva n’era e si gemeva,
e del villaggio suo tornò la cura
e delle ripe amiche che perdeva,
e invan la tomba in mezzo alla Natura
a’ Santi, a’ Nembi e a’ Ciel tosto chiedeva,
e un stral di Notte le baciò la bionda
chioma pallente, e casta e pudibonda.

Stesa al suol ne pregava, e sue catene
vincer bramava sibben fosse vano,
e n’era assorta e strutta dalle pene
che le serbava degli Angli ‘l sovrano,
e malediva dell’Anglia l’arene
e di Borgogna ‘l duca e ‘l capitano,
e rimirava l’ansie e ree battaglie,
corti i capei e ricolmo ‘l sen di maglie.

Tonò ‘l cannon funereo e al baluärdo
correan i prodi e altèri in su’i Normanni,
e smorti questi fuggìan ed Edoardo
contra la dama ne tramava danni,
e in tra le feste ‘ve sonava ‘l bardo
ei ne commise terribili inganni:
corse fiera la dama alla Borgogna,
e qui tradita fu e n’ebbe vergogna.

Or la pulzella in codesti pensieri
ne passava la Notte estrema e negra,
e vani i freddi sogni e i cavalieri
erano sempre e la tenzone allegra,
e ancor del Male i gridi atroci e fieri
tornâr funesti all’alma sua ottusa, egra;
e questa volta in sembianza di donna
l’empio Demòn le provocò la gonna.

Come bella e melliflua e pia fanciulla
apparve un spettro nobile vestito,
al velo un fior di docile betulla
e al labbro e schietto e dolce un detto ardito,
e su’ un’impronta di pallido Nulla
or n’aleggiava per magico rito,
e palesando a Giovanna un reo letto
sclamò gentil aggrottando l’aspetto:

«Quivi si dorme ‘l rege Carlo, e imene
invan n’attende da sterile sposa.
Spezzar saprei le tue crudel catene
se fossi tu del re la dolce rosa.
Ore di lusso, e molli e pie e serene
n’avrà colei che con costui si posa;
tu saresti felice e più divina,
di Francia spada santa, e poi regina!».

Ma la pulzella ‘l guardo al spettro volse,
e gridava severa un gran scongiuro,
e questa larva in petto allor lo colse
come un dardo scagliato d’alto muro,
e tosto e in beffe nell’aër s’avvolse
come nebbia fatal nel cielo oscuro,
e Giovanna lodava ‘l santo Amore
che ‘l mondo regge e i Ciel, Cristo Signore,

e sempre bianca in volto udiva ‘l coro
che d’in sul chiostro andava e salmodiante,
e pel letto ferin e cupo e moro
della prigione ne stava tremante,
e rosso come un foco e come l’oro
il labbro suo piagneva ed era orante,
e la Notte spremeva orrendo gelo,
le ragne bianche al muro, e l’occhio al Cielo.

Scorse nel sogno l’antica capanna
e sicuro e fulgente ‘l focolare
‘ve un prete un dì chiamòlla - e pia - Giovanna
e della Patria amena ‘l sacro altare,
e i fior de’i boschi amici e l’orba canna
del malto e l’orzo, e ‘l Tempio tutelare,
e in mezzo a’ fanghi ‘l dorato frumento,
tra le spiche un passaggio e ‘l quieto vento,

e vide ‘l gregge stanco e i suoi pastori,
e i rigàgnoli freschi e i bei prunalbi
onde allegri e sereni i lor cantori
cantavan odi a questi armenti scialbi,
e sotto ‘l nembo, del Sole gli ardori
posavan dolci in su’i pii campi falbi;
ed ella poscia orava assorta e ancora,
ed era presso ‘l venir dell’aurora.

Cantava ‘l gallo ‘l fiore antelucano,
e più tremava ansiosa la pulzella,
e poscia un’ora da Domenicano
Satana ‘l crudo ancor tentò la bella.
Ei, infatti, schiuse ‘l porton - chiave in mano -
e mentre in ciel splendeva la sua stella
volle ingannar la mesta in confessione
presso l’istante della sua Passione.

Or dassenno ei pareva un uom di Fede,
‘l manto negro e lungo e ‘l capo raso,
la Croce in man e ‘l sandalo in sul piede,
e in lui nulla sembrava fosse invaso;
ma non si puote ingannar mai chi crede
quando si vien dall’infernale baso,
chè questi adesso n’ebbe l’ardimento
da chieder Morte oppure ‘l pentimento…

e, infatti, ‘l bieco e ‘l reo benediceva
e la Scrittura tenea in man negletta,
e alla fanciulla preghier ne diceva
con voce orrenda, e bruta e maledetta,
ed ella udiva e perplessa taceva
e ‘l fraticel l’era un’ombra sospetta,
ed ei sclamava: «Se ti fai pentita
confessa tosto, e salva avrai la Vita!».

Ma Giovanna ne tacque e nulla disse,
e a lui davante ‘l Ciel pregava - e solo! -
e poscia al Mostro ‘l guardo santo affisse
e riconobbe ‘l sovrano del suolo,
e dianzi a lei che poco alfine visse
questi irridendo ne spiccava ‘l volo.
Allora un raggio di Sole n’entrava
e la pulzella di Luce abbracciava.

Ella stava tuttor inginocchiata
e coll’occhio scrutava ‘l ciel schiarito,
e parea assorta e quieta ed estasiata,
e molle l’era ‘l lembo del vestito,
la chioma bionda e bella all’ombra guata
del spettro istrione appen spento e smarrito;
e santi e belli e casti stavan gli occhi
del campanil al sonar di rei tocchi.

Sognava i dolci fior del suo villaggio,
e l’ampie pievi e la chiesetta antica
‘ve un dì chiamata fu a tanto coraggio
mentre giacea in sul grembo d’una spica,
e l’aër lieto che nel pìcciol maggio
andava a’ campi d’una rada aprìca,
e questa imago al finir della via
le parve allegra e sana e pia elegia.

Or della cella l’antro si dischiuse,
e sgherri d’arme n’entravan furenti,
presêr la dama pelle chiome sfuse,
l’alzâr e questa ne avanzava a stenti,
e l’orrende catene e brute e ottuse
n’eran cagion d’orribili tormenti,
e dell’Anglia funesta ‘l segno amaro
di costor sen giacea in sul torvo acciaro;

e la donna tra’ braccia avvinta e stretta
tremava tanto e le sfere implorava,
e tra quest’oste terribile e gretta
al suo supplizio di foco n’andava,
e di quest’Angli n’era la vendetta
che dalla Chiesa pur trista tonava,
ed ella giunse alfine in sulla piazza
tra un stuol d’armati e di picca e dell’azza.

Salì la pira e la legâr a un legno -
le man congiunte e pie e dietro l’ischiena -
al collo un laccio e un ferro e un drappo indegno
e ‘l boja infame a preparar la pena,
e or venìa un sacerdote, e ‘l santo segno
posò alla fronte smorta e sanza lena;
e mentre un bruto n’alzava la fiamma,
ella pregava al padre e alla sua mamma.

Divampava l’incendio, e gli aspri fumi
velâr la dama di nebbiosi spasmi,
e i legni in foco e di pruni e d’agrumi
divènner fiamme d’infernal fantasmi,
e della pira in sull’alba i rei lumi
n’andâr furiosi co’i loro miäsmi,
e la fanciulla bruciando pregava
e ‘l nom di Cristo soffrente gridava;

e la folla sen stava a queste verba
or spaventata, e or lieta e divertita,
e i tronchi, e i ceppi e i legni e ‘l fieno d’erba
cangiâr in foco, e uccidevan la Vita,
e poscia un’ora in sulla pira acerba
la pulzella non fu chè incenerita.
Morì l’incendio; e tra’l cener d’orrore
un osso in sangue e un non bruciato core.

Ma all’alma santa s’aprìa ‘l Paradiso,
e lieta n’era e immemor de’i martìri,
bianca vestita come un fiordaliso
co’i piedi in sulle tinte - e pur! - dell’iri,
e ne stava lo sguardo al Ciel conquiso,
eterno e fresco stral di bei respiri.
Ave, oh Pulzella di Francia! Oh Signore,
Re della Terra, e Messagger d’Amore!

Ave! Ave! Ave!


In Gloria Dei Christi et Sanctae Joannae Arci, Sanctae Galliae et cordis mei.
Amen  



Venerdì XXX Maggio AD MMXIV

Massimiliano Zaino di Lavezzaro