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giovedì 2 aprile 2015

Le Ballate dei Coltivatori di Tè

L’Alba

Oh Tibet argentato in codest’alba,
mostra alle vette la neve più scialba!

L’ocra pelle del Sol a splender viene,
e flebile si brilla agli alti monti,
effluvio del mattin, e agli orizzonti
dolce l’aurora n’annunzia una spene.

Allor delle montagne più possenti
nel lume si ridestan l’alme cime,
e ombre di rocce zampillano a’ venti
e all’acque e alle riviere, e all’erte e all’ime
valli di fiori; e alla canzon sublime
del fringuello s’estolle a una radura
la Vita mattutina, e la Natura
di gaudi si rosseggia all’ansie vene.

Così in quest’alba a consumar le cene
le civette sen vanno, e a’ freschi fonti
l’aquila canta i melliflui racconti,
dolce l’aurora n’annunzia una spene.

Oh Tibet argentato in codest’alba,
mostra alle vette la neve più scialba!

Una Canzone d’Amore

Volto dorato di dolce fanciulla,
a che mai ti nascondi all’erme foglie
che la tua man sì prisca ne raccoglie?....
Allora ne berrò la tua fatica,
oh pelle d’ambra e di dorata spica,
tè che al tuo seno mellifluo si culla!

All’ombra del nocciuol ti scorgo, e al rivo
del mandorlo selvaggio, un legno bruno,
come un sorriso esterrefatto e vivo
che del Sol si lampeggia a un veglio pruno.

Vesti le sete d’un salce cinese,
i bachi che in sul tè sen stanno queti,
e l’occhio si distende pe’un paëse
dell’indiane convalli, e agli indi greti;
e raccogliendo i fior, degli alti asceti
con un brivido intendi ‘l sacro canto.
Ma no! Tu non discerni questo pianto
che sol per te in sul ciglio omai n’incruno!

Allor i’ qui non sto e mite e giulivo,
e i’ - brònzeo volto - non son che nessuno;
e chè del tuo sorriso i’ giacio privo,
conto i dolori, l’ardor di ciascuno.

Volto di Sole d’allegra fanciulla,
non se’ che gloria immensa a quest’Oriente,
l’occàso del mio cor che sofferente
tepidamente e lento e in duol si muore,
nel sognar insoluto dell’Amore,
tè che al tuo seno mellifluo si culla!

La Tempesta tibetana

Shiva ‘l furioso a questa Primavera
le folgori ne scaglia, e l’acque gronda,
nel pugno d’una cima orrenda e altèra
tetro ei ne tiene la roccia errabonda.

L’alma incarnata d’un noce alla neve
delle vette ne preca all’empia rota,
e alle grandini piega ‘l tè sì lieve,
giovine foglia eternamente immota;
e nel ruscel alpestre un’orba trota
l’aure de’i lampi terribile abbocca,
e Kàli, l’assassina, un dardo schiocca,
Luna di Morte, montagna iraconda.

Oh inqueta e lamentante bajadera,
al labbro ben ti giovi or questa bionda
di folgori montane l’empie schiera,
tetra che tiene la roccia errabonda!

La Capanna

Un legno si lamenta e all’aër denso
miserrimo alle vette e al ciel s’estolle,
e di fiori n’inebria un alto colle
e del soäve umore dell’incenso.

Povero splende un gentil focolare,
la fiamma che ne scalda la tëjera,
e all’ara del Divino tutelare
ancor fia ‘l verno, e mai la Primavera;
e qui ne vive allegra un’ansia schiera
di miser contadini e di pastori,
e sol del tè e del miele i buon sapori
al desinare n’hanno e al gelo immenso.

Oh di monti innevati eterno ‘l senso!....
La capanna alle nevi e al Sol ribolle,
e i travi suoi sen vanno al cielo molle,
e del soäve umore dell’incenso.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì I Aprile AD MMXV

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