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giovedì 5 marzo 2015

La Ballata d'una Fanciulla di Maggio, ovvero Il Poeta e la Primavera

Nel meriggio d’un maggio aprìco e in fiore
febbrile i’ la sognava, e a un stel di rosa
sempre n’udivo una lagna amorosa
che qui mi concitava in vêr l’Amore.

Allora i’ vagolando al lieto rivo
nel dolce vento or scorsi ‘l suo sembiante,
giovin, eburneo e gentile e giulivo,
e candido di nembi e d’adamante;
e i’ mi giacqui, e perduto e mesto e ansante,
e ‘l cielo contemplavo e l’orizzonte,
e ‘l sudore scendea d’in sulla fronte,
e ‘l palpito gridava al petto e al core.

Queto sen stava d’un gelso l’umore,
e la viola bramata all’aura afosa
lentamente trascorse or silenziosa
che qui mi concitava in vêr l’Amore.

Nel campo i’ la mirava delle viole,
come un spettro - ‘l qual stava peregrìno -
e flebile cantava al mio Destino,
presso la destra i’ scorgea ‘l parasole.

Candidamente vesti avea di giglio,
e le gemme a’ capei e alle trecce brune,
e acquitrin mi rivolse ‘l giovin ciglio,
pupille di segrete e arcane lune;
presso le paglie de’i rami le crune
d’intessuti sorrisi e ‘l ciel lambiva,
e un sentir irredento or m’assaliva,
un senso d’in sul qual ancor mi duole.

Così nelle foreste e all’acque e a’ gole
camminando mi parve un cor divino,
e all’àlighe i’ la vidi e in sotto un pino,
presso la destra i’ scorgea ‘l parasole.

Quel zefiro che andò i’ nomavo Fato,
e la nube del cor si fece tosco,
un sogno nel cantar del fragil bosco
nembo di sensi e di speni e animato.

Pensai: che Iddio ascoltasse ‘l mio pregare,
che si stesse avverando un bel desìre,
acque inattese d’un serico mare,
sulle qual naufragare e in fin morire.
Oh queto rimembrar dell’avvenire!....
Dama de’i campi di nome Aloïse
fantasima si volse e mi sorrise,
e i’ spasimando a terra ero adagiato.

D’un borgo un po’ lontano ‘l ciel ambrato
un bronzo ne mostrava e un tetto fosco,
e i’ baciarla sognai nel fior d’un chiosco,
nembo di sensi e di speni animato.

Ella pe’i campi frattanto n’andava,
figlia del vento de’i vegli mulini,
Primavera di donna in falbi lini,
e un gelso ne raccolse, assaporava.

D’ebano ‘l crine splendea d’un cappello,
e un nastro in sulla fronte, e un vel trapunto,
e in mano ne trattenne un arboscello
d’un ciclamino or côlto e ora defunto;
e a lei qui i’ ne sognava esser congiunto,
passeggiar a braccetto e in pie canzoni,
sotto le nubi degli agil rondòni,
e inver costei fuggìa, e s’allontanava.

Era la figlia d’un Ciel senza nome,
del soffio de’i ciliegi e de’i carpini,
l’orfanella d’un verno - in mezzo a’ pini -
e un gelso ne raccolse, assaporava.

Alle ripe passava e al Sole in raggio,
cogliendo le ninfee del stagno mite,
e presso le riviere e un’aspra vite
quasi m’apparve trapunta in miraggio.

Allor i’ l’adorava, e in tanto Amore
di Poëta mi giacqui in sogno tetro.
Ma molto si tacea l’alma nel core,
la Poësia s’infranse in trèmul vetro;
e a membrar ne rivolgo a un tempo addietro,
quando l’amavo, e pur stetti lontano,
tempo nel quale sapevo un arcano:
dove trovarla nel cielo di maggio.

Così mi disparìa in sul bel foraggio,
e in sull’erbe gentili e pie e romìte;
dove le speni sen stavan contrite,
quasi m’apparve trapunta in miraggio.

Fuvvi una spene… soltanto un passante
capello di fanciulla in sogno arreso,
e ‘l Fato mi desiava or vilipeso,
eternamente i’ giaccio e in duolo e ansante.

Ma poiché i’ non amai quel fiore mio,
chè i’ non ne ricercavo ‘l molle volto,
la Tempesta or mi scaglia ‘l sommo Iddio
sapendo che quel fior non ho raccolto;
e forse mi sarà che i’ sarò assolto
quando ho trovato l’istessa pulzella,
la nobile favilla or d’una stella,
Sole che veste un gentil guardinfante.

Eppur mi si contende addolorante
ancor un sogno e queto e lieto e acceso,
un fior di giovinezza ormai già speso,
eternamente i’ giaccio e in duolo e ansante.

Timido i’ stetti da questa discosto,
e tremulo i’ restava alla campagna,
i nugoli lambendo d’aspra lagna,
nell’odore del dolce e amaro mosto;

né mai i’ la ricercai a’ Caffè e a’ cittade,
né febbrile i’ la volli ritrovare,
anzi i’ mi giacqui per queste contrade,
nell’incubo che fu annegante un mare,
e arduo mi venne alfin desiäre,
temprando Poësie a’ meste finestre,
i’ appassivo qual fior di pie ginestre
in un duol che mi giunse e insano e tosto.

Allor questo desìr mutava opposto,
incubo oscuro che ‘l ciglio mi bagna,
e all’ombreggiar dell’Alpe di Lamagna
non mi resta che ‘l fiel del dolce mosto;

e al recordo mi sosto,
e crollano nel petto l’ansie vene,
non ho più le possanze, e né la spene.   

Questa ballata si termina alfine,
d’ansie i dolori non hanno confine;
è la ballata d’un mesto amatore,
grido di pianto, d’eterno dolore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Mercoledì IV Marzo AD MMXV

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