A un pallido ruscello e a un bosco e a un pesco
un colpo si lamenta, e cupo e fresco
pell’aëre sen va, e a’ nugoli arreca
orrore, e impreca;
e quest’eco che ‘l spinge in pianto implora
la pièta d’un fucil, e poi s’accora
che una vittima soffra in tanto duolo,
ferita al suolo.
Così qui vagolando a’ sassi impervi
e al fuggir concitato - al covo i cervi -
tra le nevi i’ ne veggo ‘l sangue terso,
e ‘l ghiaccio asperso,
e d’una lamentanza or disumana
mesto d’intorno ne sento l’arcana
voce che si prepara all’empia Morte,
estrema Sorte;
e al ciel m’è di saluto un vil vagìto
che al mattin che sen vien mi fa smarrito:
di perenne cacciar son morituro,
sperar m’è oscuro.
Una Pioggia
invernale
Tra la neve e ‘l ghiacciar e l’acqua mesta
la pioggia si discende e un bosco infesta,
e gelida ne terge ‘l ciel in brume,
e vola implume,
e tremula e sottil e pia s’appoggia
alle ripe e alle fonti e a un’orba roggia,
e in cantici di gelo or qui s’avventa,
e si lamenta;
e l’incubo del verno ne trascina,
e trista e zampillando s’incammina,
e qui avvolta in soffrente e negra ciarpa
par sòni un’arpa.
Allor qui i’ la contemplo, e l’aspersorio
suo par che benedica un venatorio
colpo che a un nembo si scorre fugace
come un rapace,
e docile ‘l suo canto mi sovviene,
un murmure pe’i tetti e pelle vene,
e quieta m’è codest’acqua invernale,
e scialba d’ale.
Il Sublime
dell’Alpi
Di lontano ne scorgo or l’albe cime,
possenti e portentose, e al ciel sublime
di pallido ghiacciar e tetra avvinta
di nevi pinta
una vetta si balza, ed è ‘l Cervino
e l’elvetico sta gentil cammino,
come una chioma or d’un Mostro che grida
e che disfida,
e sibben non ne vegga i’ l’empie gocce
che discendono fresche in sulle rocce,
i valichi innevati e co’ un sospiro
da un campo ammiro.
Così all’Alpe davante i’ son che Nulla,
fragile come un crine di betulla,
e quest’alti Giganti omai m’assalgono
e che ne valgono,
e all’orizzonte falbo e in negra pietra
scagliano una bufera, e fredda l’etra
in quest’ansia pianura or mi circonda,
ed è iraconda;
e forse le catene ne vince un reo:
vien Prometèo!
‘Ve l’elvetico monte or s’erge al cielo,
trucemente sommerso in fiero gelo,
palpitando si giunge una figura,
tremenda e oscura.
Bionda al destriero le redini tira,
vola pe’i nembi innevati e sospira,
prende l’acciaro temuto e dorato
e inneggia al Fato.
Truce pell’aure galoppa la Sorte ,
grida alle Norne che scelgan la Morte ,
trema ‘l cimiero pel vento che geme
e che la teme.
Ferrea l’ischiena, in sul seno l’usbergo,
scalza discende de’i Morti l’albergo,
gli occhi fatali si brillan smeraldi,
Musa de’i Scaldi.
Terge le Furie dell’aure iraconde,
miete del sangue versato qual onde,
sòna funerea l’eterno suo corno
che vola intorno.
Qui tra le nevi e la pallida calca
trista e perenne per sempre cavalca,
come uno spettro tra ‘l ghiaccio che gronda
in su’ una fronda.
Ora sen mòve del vento nel fischio,
beve la neve che cola dal vischio,
mira la pugna, de’i spenti la landa,
fa una ghirlanda.
Ma al core si lamenta, e silenziosa
priva ne fia di Vita, e d’una rosa,
un riparo non ha, non ha l’Amore,
sempre dolore!
Il Cipresso
funebre
Al pallido orizzonte un cimitero
mestamente s’estende, e al cielo nero
e putrido e selvaggio sta l’ossame
verde di rame,
e la neve si gronda a’ sepolcrali
marmi, e a’ sassi e a’ sepolcri, e pe’i spettrali
e tremuli sentieri or v’è un cipresso,
cupo e depresso,
e quivi se ne giace e ignudo e in doglie,
e alla terra sen stanno l’egre foglie,
e ‘l ghiaccio si discende al tetro fusto
ormai vetusto.
Ormai ne tien qual fronde i spettri avìti,
occhi mesti e infernali e rei e smarriti,
e in ghirlande si grida a’ rami forti,
forse già morti;
e trafitto dal ghiaccio e cupo e tetro
al suo fianco si sta un crudel ferètro,
e alle radiche s’erge un osso istrano,
forse una mano.
Pur nella Notte fredda e antica e bruna
le stelle non ne son, non son la Luna
tra’i ramoscelli scialbi i lumi freschi,
ma appesi i teschi;
e questa mesta pianta è sempre amara
come una bara.
Un Lupo
A’ pallidi carpin della foresta
e a’ lugubri cipressi un lupo infesta
l’erbe scialbe e i ruscelli, e nella Notte
le tetre grotte,
e a’ frassini si lagna e all’egra e mora
felce un misero cervo ormai divora,
e del sangue alla pozza oscura e rossa
ne lascia l’ossa;
e l’umore si ghiaccia, e al verno immane
perennemente in duolo or si permane,
e feroce qui s’erge un ululato,
sempre adirato.
Alfin all’argento della Luna,
e alla nivea e crudele e cupa cuna
questo lupo ne volge or l’occhio in suso,
e mostra ‘l muso:
e di nevi l’aspetto si biancheggia,
di tenebre l’orecchio e ‘l dente albeggia,
e colme di vigor, di fieli amari
sono le nari,
e vivido si gronda ‘l sangue al mento,
e ‘l pelo si commòve al freddo vento;
e quest’empio non è che ‘l reo Destino,
un assassino.
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Mercoledì XXI Gennaio AD MMXV
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