D'in
sulla fresca e candida
brina
del gelido
e
cupo autunno e oscuro
e
d'in sul cielo
che
oltre 'l timido muro
m'è
forse un velo,
come
se fosse un incubo
che
giova all'anima
una
membranza antica
del
scorso maggio
ora
m'appar; la spica
bionda
e 'l foraggio.
Sogno:
quando le primule
stavan
aprendosi,
presso
le chete viole,
le
fulve rose,
quando
brillava 'l Sole,
e
a' selve ombrose
un
dì io n'andava in spasimi
dolci
e inviolabili,
e
a' campi vidi 'l corvo,
e
'l rosignuolo
molle
cantava e torvo
spiccando
'l volo.
Rimembro:
quando i frassini
frondosi giacquero
ivi,
vicino a' boschi,
quando
le lande
tra'
cespi e rovi or foschi
di
terree ghiande
febbrilmente
vestivansi,
e
d'in sull'alte roveri
strillava
un cinguettio
d'allegri
augelli,
lì,
come un tintinnio
sugli
arboscelli.
Sì,
'l sogno come un attimo
di
gaudio flebile,
d'insana
gioventù
forse
perduta,
e
che 'la fu;
e
'l core quivi stringesi
nel
sognar pallido
di
questa pia stagione
che
fu un portento
d'un'arpa
la canzone,
un
sol momento.
Come
n’accade al vivere
che
muor nel tumolo,
è
solo un’ansia fola
la
gioja allegra,
l’istante
in cui consòlasi
un’alma
negra
quale
la tomba cerula
d’un
veglio scheletro,
tra
‘l verme e ‘l suolo e l’ossa
in
novo verno
che
come in sulla fossa
sonno
fia eterno.
Rammento:
in ansia docile
a’
rivi placidi
in
vane speni i’ andava
vagando
intorno,
e
‘l spirto seguitava
nel
fresco giorno
a
lambire la candida
mano
dell’àliga,
del
stagno la ninfea,
l’immacolata
luce
d’un’alba Dea,
di
Musa amata,
e
‘l brando in trionfo n’ergere
a’
Fati incogniti,
chiamarmi
vincitore
d’empio
Destino,
un
segreto d’Amore
in
su’un carpino,
quando
i gelsi si nacquero
pe’i
cespi roridi
di
fiducioso pianto,
ed
io ‘l spremeva
nel
pio e mellifluo canto
che
si schiudeva.
Sogno:
‘l sereno glicine,
i
mughetti aridi,
le
margherite belle
e
gl’iris cheti,
nel
ciel brillar le stelle
co’
stral sì lieti,
pelle
campagne seriche
e
i campi tremuli
la
via del mio passeggio
nell’orizzonte,
e
ancor per questo ‘l veggio,
là,
verso un monte,
quando
a’ nembi brillavano
rosee
le nuvole
nel
tramonto gentile,
quando
le tinte
d’una
sera d’aprile
stavano
avvinte
in
fulvo abbraccio e in sanguine,
quando
la nobile
alba
ne stava certa
poscia
la Notte
che
dolce amava l’erta,
e
selve e grotte.
Ma
quivi in cor incognita
e
in muto spasimo
n’ho
pena indefinita,
nel
petto ansioso
un’orrida
ferita -
un
duol morboso -
che
tristo e crudo e in incubo
riede
quai pungoli,
come
un fior di betulla
un
fil d’Amore,
un’eterna
fanciulla,
sempre
dolore,
e
or gustando co’ lagrime
nel
verno orribile
tè
d’ispezie e di pepe,
ne
guardo altrove,
all’innevata
siepe,
a’
negre alcòve;
e
‘l sognar che sciudevasi
d’un
maggio torrido
in
questo mar m’è amaro
come
veleno
e
ormai di speni avaro
mi
punge in seno.
Tant’hai
sofferto, oh nobile
ignoto
spirito,
che
pur mia se’ la meta,
un
Sentimento
di
fiduciosa pièta
e
di sgomento…
e
tramonti nel cerulo
autunno
gelido
qual
sogno di poch’ore
ormai
svanito,
pallente
e mesto fiore
dell’Infinito!
E
io, oh terribile, oh incubo,
e
io un dì di cenere
nella
tomba del Fato
quasi
morendo
mestamente
t’ho amato,
e
‘l cielo orrendo
d’esto
dicembre tremulo,
autunno
pròdigo,
mi
strazia anco le vene
e
l’ansia pelle,
e
pur la cheta spene
ormai
si svelle.
Melanconicamente
tramonta
un sogno;
e
mi vergogno!
Massimiliano
Zaino di Lavezzaro
Martedì
II Dicembre AD MMXIV
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