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giovedì 1 ottobre 2015

La Leggenda della Fanciulla di Neve

La Luna alla Karèlia si mostrava,
pallida come una pietra di talco, e
era l’autunno, e venne il freddo vento,
soffiando spesso i primi argenti in neve, e…
e intorno il mar dei Fìnnici gelava
lievemente agli scogli, e urlava il falco
dai monti oscuri, e l’ululato lento
dei lupi ardiva, e il vespro era greve
come una roccia di tomba appassita. E…
e oltre la Luna v’era l’orizzonte
illimitato che la steppa ardeva
nelle bufere sue e nell’Asia oscura,
e nel regno tartàrico. La Vita
fu fredda e cupa, e ghiacciava ogni fonte,
e neve eterna i licheni stringeva,
perenne Morte della sua Natura.
Soffiava il gelo dalla Svezia, e il cigno
selvatico ghermiva i ghiacci ai laghi, e…
e le campagne tacèvano, e ardevano
nei lignei templi le più sante icòne,
ove pregava il Penitente arcigno, e…
e i nudi campi erano e tristi e vaghi,
e tra le stoppie i corvi ne gemèvano,
truce e selvaggia e funerea canzone.
La slitta urlava le lettere ai tetti
della gleba dispersa e analfabeta,
dove i signori restàvan coperti
nei cappotti degli orsi, e lì, a dormire
nei comodi lenzuoli dei lor letti,
udendo il canto dell’Anacorèta; e…
e i venti andàvan terribili e incerti, e
le nevi i fanghi a baciàr e a coprire. E
lungi brillava Pietroburgo, e poco
però si scorse nell’immensa Notte,
se non i corni tra le nebbie ai porti, e…
e i fuocherelli dei suoi monasteri,
e questo lume era debole e fioco, e
fredde s’ergèvan le vicine grotte,
ed era un sogno, un sonno di cuor morti,
tra le leggende e i loro desidèri.
E un contadino arpeggiando cantava
una ballata e nel gelo tremava. E…
e diceva costui assente e infelice:
«Ho da narrare una storia d’un folle», e…
e non si fece implorare, e diceva:
«L’altra Notte l’ho vista, la mia bionda,
e mi apparve alla Luna - la Fenìce
del ciel notturno - presso il pìcciol colle,
e verso me veniva, e a me fremeva,
ombra di neve eterna e vagabonda. E
sembrava sale la neve plasmata,
argento niveo i capei irrigiditi,
e ghiaccio il collo, e il labbro, e il mento, e il seno,
e nuda parve nel vento furioso, e…
e la pupilla brillava dorata,
adamanti di pietre e stalagmìti, e…
e l’aria da lei mossa era oro e fieno,
e il corpo errava vagamente ombroso. E
dissi: - Chi sei? E perché t’aggiri ignuda? -. E
l’eco mi rispondeva; ed ella tacque. E
ancor: - Chi sei? Sei fanciulla o sei spettro? -.
E tacque, e s’appressava a me, e era bella.
Mi parve un sogno; ed ella stava muta,
e lievemente gocciolava d’acque
il giòvin ventre. Aveva in man lo scettro
ordìto d’un cristallo e d’una stella. E: -
Perché sei ignuda? Non hai tu vergogna? -.
Ed ella allor rispose: - Sai! Se vesto
mi sciolgo e non vivrò. Io sono di neve,
anche la seta più leggera è Morte.
Mortale, ascolta! Suono una zampogna
con le mie labbra, e il cuor m’è sempre mesto
perché non posso amare; e nulla è lieve,
e tutto intorno è soltanto la Sorte
al mio ghiacciàr tremendo. Se mi abbracci,
mi scioglierò per sempre. Fuggi! E viva
sarò ancòr nella Notte fino al giorno,
e all’alba esalerò l’Anima fresca -. E…
ed io allor estasiäto: - E mi discacci? -.
Ed ella corse, e giunse ad una riva.
Ma ormai le stavo d’accanto e d’intorno, e
era stupenda, e melliflua, e donnesca. E: -
Sono l’improba di Tuonèla: uccidi! -. E
e io le miravo le forme gelate,
e i capei cristallini, e gli occhi d’oro,
e il nudo seno di ghiaccio, e le gote,
e il freddo ventre e dicevo: - Sorridi! - e…
e le mani graziose, e le ghiacciate
iridi belle, e il suo mantello moro -
la Notte russa! - e le sembianze immote.
Sentivo Amore, o pietà; e l’abbracciai,
così forte che avevo gelo anch’io,
e l’abbraccio mio ai fianchi ora la strinse,
e nel mio fuoco d’Ignoto ei la avvolse. E…
e ora tremavo, e tanto singhiozzai, e…
e la baciavo! La baciavo! Oh Dio!.... E
l’impeto mio così costei ne avvinse, e…
e ella tra le mani mi si sciolse!
E adesso per costei non fò che un canto.
La trucidai! Eh! Non mi resta che il pianto!». E…
e lenta venne la giòvine ostessa,
e al visionario il tè ridente offriva, e…
e sguardi incauti d’Amor gli porgeva,
e lo scrutava con occhi beäti, e…
quasi gemendo, e or scontenta e dimessa
di casti sensi fatàl lo assaliva, e…
e ella placidamente gli chiedeva:
«Ancòr un di quei abbracci tanto amati!».
Era giovane, e tanto bella e bruna,
apparsa dalle stufe dell’allegra e
lignea capanna, e era dolce e gagliarda, e
disse parole incomprese da ognuno, e
la illuminava da un vetro la Luna, e…
e sembrò neve nella Notte negra,
e la guancia arrossata era maliarda,
l’occhio azzurrino, e il suo crine era bruno.
Il narratore la guardò, ancòr, molto, e…
e bevve il tè, e quasi sputando disse:
«E che mai importa? Tu sei un sogno. Muori!», e…
e ella aggiunse: «Ancòr l’abbraccio ameno!».
Egli era fermo, e la mirò nel volto,
e folle le sembrò, e in occhio l’affisse; e…
e ella ancora: «Non ricordi i dolori
che lamentavo? E il mio mellifluo seno?».
Egli sorrise, e per sogno la intese,
e la scansava: «Oh preda di follia!», e…
e gli sembrava un sogno, era un miraggio, e…
e alza il bicchiere, e brinda, e ride e beve;
e cupamente irridendo la offese, e
e incauto la mandò lontano e via.
Ma ella a quest’uomo illuso - o no! - selvaggio
ella disse: «Son la Fanciulla della Neve». E:
«E come è certo? Sei un sogno, chimera,
tu non esisti, se qui non ti penso.
La vera dama s’è sciolta al mio bacio, e
l’acqua sua mi divenne un pianto eterno.
La Fanciulla di Neve è morta ier sera,
nell’attimo spezzato, il sonno intenso. E…
e tu, fantasma, vedi che mi giacio
oppresso e triste. Perché questo scherno?». E…
ed ella allòr che per lui aveva Amore,
s’allontanava e gli gelava il cuore.
Ecco! Pei disillusi questa è pena:
avèr di ghiaccio il cuor, neve la vena!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Mercoledì XXX Settembre, Giovedì I Ottobre AD MMXV