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domenica 19 giugno 2016

Storia dei Frammenti romantici di Quatre Bras

«E io per sempre tua!»….
Èrano i dolci sussurri che lì,
in sulla via del Tëàtro, si ùdivano,
lì, tra il passàr delle carrozze e di un
cocchio, e dei galantùomini e di dame,
mentre la Luna alluminava tetra
le vie e i pòrtici e i marmi di Parigi,
quando le ore venìvano battute
dagli stivali e dalle ronde incògnite.
«E io per sempre tua!»….
Così due ombre passeggiàvano inquiete,
quasi tenèndosi a braccetto, e strette
le destre in un abbraccio lieve, come
un soffio di invisìbile sciròcco,
guardàndosi leggere agli occhi mesti
che fuggendo cercàvansi gli ùn, con        
gli altri: un uomo e una donna, entrambi giòvini,
che tornàvano da un concerto, a marzo…
egli nervosamente alzando il volto,
di pochi detti, e tìmido nel dìr,
ella lì sorridendo allegramente
al nervosismo suo, e aggiustando casto
il suo merlato fazzoletto al seno.
«E io per sempre tua!»…
finché non risuonò un eterno addio.

«Ricòrdami, su’, nelle tue ansie lèttere,
pensa alla tua Marguerite; e poi scrìvile
una volta ogni mese! Sàmuel! Sàmuel!
Addio, per sempre!».
Èrano giunti a un molo sulla Senna,
ed ei piangeva, commosso e disfatto,
staccàndosi dal lieve abbraccio e andando
verso una cimba;
e per nascòndere il pianto non ebbe
l’ardimento di dàr un fresco bacio
alla fanciulla che lo vide allòr
svanìr tra le oidi, dove lo attendeva
un rematore. E per sempre ei scomparve.

Sàmuel John Tàylor, galantuomo inglese,
la aveva conosciuta a un ballo per
il ritornato Borbone, durante
un’ambasciata nel nome di re
Giorgio. Brindò per lei, danzò con lei…
si conòbbero, e tanto frequentàrono
per giorni e settimane i parchi, i balli,
i medèsmi concerti… insieme… e crebbe…
e crebbe in lòr l’Amore.
Ma ora che ne era?
Il Corso ritornava e baldo e infame,
e a nuove guerre già si preparava.
Sàmuel John Tàylor, galantuomo inglese,
fu ora arruolato come un colonnello
dei fùlgidi Dragoni d’Inghilterra,
e con la guerra pensò soffocàr
questo Amore impossibile.

Suonò la càrica, e i Dragoni urtarono
gli Ùssari delle scolte della Francia.
Sàmuel John vide che incontro un guerriero
gli veniva, e baldante galoppò
verso di questi, con folto cimiero;
e la sua spada al cielo scintillò,
e tra le pozze del tristo sentiero,
e ognuno dei due acciari si toccò
più di una volta, finché l’empia Sorte
non decretò per entrambi la Morte.

Cadeva il vèspero,
sui campi immani
stàvano inermi 
tanti cadàveri,
giovìni vani
pasto pe’ i vermi.
I morti urlàvano
muti tra il sangue,
e tra le bave,
e singhiozzàvano
dal labbro esangue
bestemmie ignave.

Con il cimiero a terra e lì slegato,
e con il ventre squarciato e trafitto
e con occhi più che mai disperati
morto giaceva Sàmuel.
Vicino a lui eternamente dormiva
l’Ùssaro disfidato.
Udèndolo gridàr Sàmuel gli tolse
l’elmo, e pria di morìr… oh crudèl Fato!
Marguerite! Marguerite! La sua
fanciulla amata!
Èbbero appena il tempo di abbracciàrsi,
e di scambiàrsi un bacio; per morìr
insieme… stretti, lì… avvinti e baciati,
dopo… èssersi strappata la Vita
per un Sogno di Amore. 


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Gioacchino Pagliei, Il Dragone Galante, Tardo-romanticismo italiano, Fine del Secolo XIX

Wollen, La Battaglia di Quatre Bras, Arte fiamminga, Secolo XIX



In Dì di Domenica XIX Giugno dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

giovedì 22 ottobre 2015

Frammenti romantici di Poesia sacra

Introduzione

In questa piccola raccolta ho cercato di ordinare alcune mie poesie da un carattere che, se da una parte non può dirsi propriamente religioso e sacro, dall’altra, è comunque spirituale. Da qui nasce il particolare ossimoro del titolo: Frammenti romantici di Poesia sacra, perché appunto di ossimoro si tratta e si deve trattare, laddove il rimando al Romanticismo, in particolar modo tedesco, contrasta con il richiamo al Sacro; anche se alla fine, è mio dovere affermare che in questo piccolo lavoro è stato mio volere cercare di completare ciò che è romantico con ciò che è religioso, e ho fatto questo seguendo il sentiero già percorso di quegli intellettuali romantici - primi tra tutti, Novalis - che nel XIX secolo non furono panteisti, e che sovente usarono una simbologia tratta dal mondo circostante della Natura non per elevare quest’ultima a Divinità vivente, ma per cogliere un rimando perenne a una Trascendenza che va oltre - e che sta oltre - tale Natura. Da qui viene il sottotitolo: Viaggio nell’Anima di un giovane Poeta che forse più contraddistingue questo libello. In ogni caso parlo di frammenti perché appunto di frammenti si tratta: sono poesie scritte liberamente, spesso azzardando forme non ancora interamente da me conosciute ed esplorate, composte dando libero sfogo a paure, a pensieri, a desideri, a inquietudini, alla fede e alla speranza; e sinceramente, non c’è nemmeno un filo conduttore visibile. Non c’è per questo l’intenzionalità di ottenere e di avere un’opera poetica lineare, unitaria, unita e unica; né l’intenzione di sviluppare maggiormente alcuni versi, alcuni spunti, in particolar modo quelli che rimandano alle leggende tedesche di Parsifal, di Tannhäuser, e di Lorelei, quelli che sembrano recuperare i temi della Notte e del Destino, così cari al Romanticismo universale; e indubbiamente non c’è nemmeno il proposito di offrire delle preghiere, delle formule liturgiche, delle lodi a Dio. In realtà, facendo le somme, questo è appunto un viaggio nella mia Anima, una frammentata e frammentaria confessione poetica, dove gli aspetti classici del Romanticismo appaiono, e se sembrano essere “già visti” ciò non significa, allora, che non sono da me sentiti, vissuti e fatti miei; si tratta di un frammentario e frammentato confronto con me stesso e con l’Altro, in particolar modo con quell’Altro che è Dio, dove con la fede e con la speranza emergono anche paure, timori, delusioni, attese, incubi e angosce; e dove perfino quei singolari personaggi che sono fiabeschi e mitologici come le Villi, le Ninfe, gli Spettri, il Graal non sono che proiezioni delle mie paure e delle mie certezze, delle mie frustrazioni e della mia quiete, del Male e del Bene che sono in me, nel mio cuore, e dove lo stordimento, le fatiche, le meraviglie e gli stupori da loro provocati sono un continuo rimando a Dio, all’Eterno, all’Infinito, alla Trascendenza, un’occasione di redenzione, di gioia e di bontà. Ed è appunto Dio che alla fine di ogni poesia ha l’ultima parola, anche solo quando si tratta di ricorrere a un simbolo. Infatti, questa piccola e modesta raccolta è ricca di simboli e di simbologie; e con il quasi perenne richiamo al sogno - laddove si noti che in molti casi il sogno è, contrariamente a quanto si possa pensare, più vero e più reale della realtà stessa, in quanto esso è una specie di anticamera della Trascendenza - denuncio che non c’è da parte mia nessun tentativo di cogliere Dio per mezzo della Ragione. La Trascendenza diventa allora una realtà suprema accessibile e perfino provabile e provata unicamente per mezzo del Sentimento, della Coscienza e dell’Anima.

                                                                                                 Massimiliano Zaino



I. Idillio di una Notte

L’inverno incede, e urla agli ontàni ignudi,
e nel mio cuor qui alberga il cimitero
dei sogni miei; e tra le nevi e la nebbia,
e questi spettri di perpetua brina,
e tra le mie ansie e questi miei singhiozzi
e i tetri attimi, e su questa Natura
che a dormir seco invita, e a questi rami
scheletrici e difformi e che sussultano
a un vento eterno, dove vagabonda
Anima invèr son io, e all’annientamento
della Luna di argenti lungo i cippi
di queste tombe - esausta ombra di croci -
e nel suonar d’una campana funebre
che l’aëre ferisce e che va ai nembi,
e a queste pietre di sepolcri inermi -
mute labbra d’Iddio - e ai sepolcrali
marmi funesti, or m’è invitta la Notte;
e l’Infinito è un sogno del mio Dio.



II. La Notte di Parsifal

E nella Notte indago nei miei sogni,
chiedendo pane alla Luna; e io spasmando
amo bere il mesciuto e amaro miele
d’un vino di ansio sangue.

Vieni… vieni! tra le ali mie, e ai miei sguardi:
ti mostrerò un attimo dell’Eterno
cui vanamente aneli; è un sogno… è Dio.

Vieni… vieni! al mio cuore e a questo Calice:
ti svelerò la Notte e quel che è dietro,
un’alba dolce d’un perpetuo meriggio.

E così in questa Notte io sognerò
quel volto che nel giorno non ho scorto,
indarno qui cercando una preghiera;
e l’alba mi sveglierà nel ricordo
d’un Cielo che fu sogno.



III. L’Inquietudine d’un Inverno del Cuore

La neve - ‘l vedo - ora specchia la Luna,
e il suo gelido argento è sul mio cuore:
fa freddo; e intendo impallidir un fiore
nel sogno che si desta alla mia cuna.

Placidamente dorme la laguna,
dove un’eco risponde al mio dolore;
e tra il ghiaccio e le nevi e il lor grigiore
la Notte splende sempre e ancor più bruna.

E il senso dell’Inquieto s’incammina,
e mi cattura, e qui mi ammutolisce,
nell’orizzonte che è un singulto eterno;

e non è più la Vita mia di prima,
quando il vespro che vien m’intimorisce.
Ed è così che ora è giunto il mio inverno.



IV. Temporale d’Inverno

Un Temporale si appresta di neve,
nell’oscuro meriggio dell’Inverno,
dove un alce tramonta e a terra muore.

E io guardo questa Natura ferita,
e eternamente in sonno, e queste folgori
di nevosi cristalli che qui grondano.

Sembra sia sempre Notte… eterna Notte,
quando la Luna splende anche di giorno;
e la bufera seppellisce il cielo
oltre il quale - lo so - che sta un mistero:
il mattino di Dio.


V. Il Peccato

Ombre e Anime e dolenti Spirti, e rosse
paüre, e alla preghiera urla il peccato,
quando il mio cuore cade e non tramonta.

Pietà! Forse è una timida canzone,
e questi errori che il cielo erodono
or qui mi rimandano all’Infinito.

Anche il peccato è dunque una campana
che mesta suona a richiamar vêr Dio,
che ti fa amare le nubi degli Angioli.

Può essere che le tenebre qui esistano
per rispecchiare una Luna più eterna, e
nella Notte del Male va il crepuscolo
di Sàtana a risplendere all’aurora
di questa Eternità.



VI. L’Inverno

Si può soffrir nel ghiaccio tra le nevi,
tramontando nel verno come un alce,
qui, come i sogni miei, i pattinatori.

Si può dolèr tra i monti che si ghiacciano,
quando il cuor mi rimane solitario
lungo le nebbie che uccidono gli occhi.

Non vedrò più e così quel che si cela:
la steppa interminata o il bruto monte,
se incontro vo’ io alla Fanciulla di Neve.

E l’inverno urlerà più burrascoso,
mi cullerà con la sua aspra bufera,
come una brezza tra il Demòne e Iddio.

Sogno, oh mio sogno, oh tu, no, non morire;
ma l’alba attendi della Primavera,
quando si scioglierà il ghiaccio sul muschio,
dove i tuoi pattini avranno danzato
il tintinnio del vento.



VII. Il Viandante: lo Spirito del Male

Arpa, dòmina l’onde! È Notte: grida!
Te lo dice lo Spirito del Reno,
Lorelei! Canta! Infuria gli Elementi!
E sia il Caos! E sia eterno orrore e fuoco!

Io son Viandante in questa sera eterna,
tra le infinite nevi, avvolto in nero
manto di lupo; qui, io, il Male di un cuore,
ansia ansimante di un’Anima ansiosa,
quando mi aggiro e non ho più una meta.
Arpa, dòmina l’onde! È Notte: grida!
Eterno orrore d’una sera eterna!
E con il mio ululato ho intimorito
l’eterno mio avversario. E muore Dio?



VIII. Idillio dell’Ombre del Sogno e del Desiderio

A quest’età non ho ancor colto i fiori
profumati del cuore di una donna,
né ho dominato i sogni suoi, i sospiri,
èsser ebbrezza del labbro suo muto;
né mai alle danze portai una fanciulla,
mascherata di pizzo di leöne,
al suon d’un mai trillato minuëtto, e
del cembalo che canta le gavotte.

Freddi i giovanili e sognanti ardori!

Né mai dei suoi capei ho ghermito l’ombra,
né gli accaldati baci e i suoi respiri,
perdutamente cantando al mio liuto,
qui, attendendo un responso… qui, dal Nulla;
e tutto fu Poësia, e fu canzone,
i Versi del Poëta scritti a getto,
ed… e ora io sogno; e piango. E vien la Notte.
E la nebbia m’è incubo e paüra,
e la mia giovinezza va e sfiorisce,
e non so come profuma il suo seno.
E in questa doglia e in questa mia sventura
fors’anche il sogno prima o poi svanisce,
‘ve non so amare. Ed è per questo che peno!
E Tu, fiammella del cuor, del cuor mio,
Tu perdonami… Tu aiutami, oh Dio!



IX. La Ballata dell’Allodola

E sento ancor l’allodola che canta,
qui, sull’ignudo ramo del mio cuore,
dove si annida il ripetuto sogno
della perduta estate. Oh ricordanze!
E il vespro è giunto, e tramontato è il Sole,
e mesto io attendo la ritardata alba,
mentre l’inverno là, fuori, è re e furia.

E sento ancor l’allodola che canta
alle infelici sponde d’un bel fiore -
una ninfea che ghiaccia su’ un laghetto -
mentre le secche foglie fanno danze;
e questo stagno è il mio sonno, ove viole
e rose sbocciano - invano - ansia falba,
mente l’inverno là, fuori, è re e furia.

E sento ancor l’allodola che canta,
sopra il mar delle cure mie e dei taciti
pensieri. E piange: il suo rostro è il mio liuto,
la sua compagna è la mia ignota sposa,
passero Trovatore, e alma irrequieta,
che non ha più un verone, né una corte,
mentre l’inverno là, fuori, è re e furia.

E sento ancor l’allodola che canta,
pe’ femminili cieli e dolci e placidi, e
ella a cantar prosegue, anche se muto
è ora il mio labbro: ei insonne si riposa,
non conoscendo gioia né avendo pièta,
stretto perennemente dalla Sorte,
mentre l’inverno là, fuori, è re e furia.

Canta, ahi tu! allodoletta, canta! Hai forse
da svelarmi il sognare mio venturo?
Canta, ahi tu! allodoletta, canta! Hai forse
un lume… una candela per l’oscuro
vespro? Oh allodola! Oh Dio!
Mentre l’inverno là, fuori, è re e furia.

E sento ancor l’allodola che canta;
e sei tu, oh sogno, sei tu, oh cuore mio?
Sei tu, speranza degli indefiniti
attimi d’una inattesa alba nuova?
Voce sei tu d’una fanciulla ignota
e senza nome che il Destin contende?

E sento ancor l’allodola che canta,
mentre l’inverno là, fuori, è re e furia…
mentre l’inverno là, fuori, è re e furia.
Oh allodola mia! Oh Dio!



X. Idillio di una Notte romantica

Notte romantica, e Notte d’affanno,
Tu, mio cuor, indagar vuoi i tuoi secreti
arcani, quando ulula il lupo impuro
di quel che tu nascondi: e è male, e duolo,
come il Tempo trapassa e svelto muore,
‘ve dai sepolcri le Villi risorgono,
in quest’aëre Spirti indomati,
e innominabili, e guerreschi e tetri,
che immane fanno la ridda del Sàbbath.

Notte romantica, e Notte d’affanno,
e tu chiedi e domandi i desidèri
funerei delle tombe ai freddi crani,
che eternamente nella Morte dormono,
ultimi monti dell’eterna Vita
cui il tuo Spirito anela vanamente,
verme perenne dei perduti istanti,
quando i fantasmi tremano in grigiore,
specchi in singhiozzi d’un senso di vuoto.

Notte romantica, e Notte d’affanno,
e Ninfe, e Satiri, e Valchirie e Gnomi,
su’ un sentiero di sogni inanimati
che dòminano i colli e le foreste,
e ire e inattese spemi, e Odio, e sentire
d’un cuor attonito e che sempre fugge
se stesso e l’ombra sua; quando tu vedi
i nudi Spettri, i seni della Luna
che gronda il latte d’un veleno argenteo,
assenzio infame che inghiotte nuove albe.

Notte romantica, e Notte d’affanno;
e tu senti suonar la tua campana
che ti richiama a volgere uno sguardo
oltre la tua Natura e oltre ogni limite,
passando per la sera - l’eccitato
eccidio delle stelle, e annientamento -
camminando a stenti, oltre ogni ardire,
questo tuo volto verso quel più arcano
attimo che ti parla del tuo Dio.
E la Notte tramonta, e va nell’alba!



XI. Idillio di una Steppa

Nuda è la steppa, e l’inverno la inghiotte;
e io rigirando seguo la via dei carri,
lungo le nevi dei miei esausti sogni,
dove l’Anima insorge all’alba nuova.

Nuda è la steppa, e l’inverno la inghiotte;
e io tremolando penso: che le tremule
fronde spogliate siano oscuri Spettri
di quello che d’arcano è in cuor dell’uomo.

Nuda è la steppa, e l’inverno la inghiotte;
eternamente sospir del mio spirito,
dove la Vita è un cristallo di neve,
che debole s’infrange al primo passo.

Tra i scialbi ghiacci un cavallo tintinna:
è la slitta che porta i poverelli
attimi delle lettere mai scritte.

Passa e corre, e poi passa ancora, e gela,
e alfìn svanisce in questo suo orizzonte,
dove il mio sogno ha un confine nel vuoto.

E il cristallo di neve m’è una Furia
che più non so sopportare e che sprezzo.
Solitario qui sono in solitaria
steppa che è nuda, e che inverno la inghiotte
senza sentir pietà.



XII. Il Corvo

E v’è un corvo che freme e va lontano,
e va dove le alte cime svaniscono,
là, nelle nebbie del perpetuo inverno.

Grida, canticchia, cinguetta; e io lo sento,
e non è il Mostro che sembra e che appare,
Titano invitto che inghiotte la Morte.

È un passero affamato e senza un nido,
eternamente pellegrin tra i ghiacci,
e piange forse perché chiede il pane
che nessuno gli dà; perché anche un corvo
ha il dover di sognare.



XIII. Ave Maria

L’inverno è giunto e s’appressa un nevischio,
e Tu, divinamente bella, e casta,
e pura, e eburnea, oh Tu, Santa Maria
con quest’ultimo canto dell’allodola
e col meriggio del precoce Sole
forse vieni così a rianimàr soffi…
aër di Vita in questi nostri cuori;
e mentre il vento ulula e fa il suo fischio,
e dove regna un ghiaccio iconoclasta,
allor percorri Tu la nostra via,
qui, come in Primavera - oh sì - un’allodola
il fresco bosco e il campo delle viole,
e consacrando i cieli, soffi… e soffi… e
soffi implorando, e mondando i dolori.
Ave Maria, ave, o tra le benedette
la donna eterna, che il Signor hai teco,
di grazia il volto femminino e lieve;
sii Tu, sii benedetta, e benedetto
al par di Te le carni del tuo seno,
Cristo Gesù! Santa Maria, oh Maria,
che sulle nevi regni delle vette,
‘ve l’orizzonte Iddio ivi porta seco,
guancia di porpora e di molle neve,
oh Tu, Tu, il crine più lieto ed eletto,
oh di bellezza il cuor che è quei più pieno,
Santa Maria, oh Tu, la Madre d’Iddio,
prega per noi che nel peccato ergiamo
l’insuperbita fronte… prega… prega
per noi… prega per noi! Finché non vien
l’ora tremenda della nostra Morte.



XIV. Le Rimembranze di Maria

Ricordi? Quando eri tu un fanciullino?
Nel mio cuor ti cullavo… e ti cullavo,
e Tu, forse, ridevi nel mio ventre,
Anima… Anima dolce, e Vita, e Dio;
e Tu… e Tu amavi il mio sospir materno,
e queste viscere, e il latte al mio seno,
quando risposi all’Angiolo tuo: «E sia!».
Dormi… dormi… riposa, bel bambino!
Rimembri? Era la nenia che cantavo
nella tacita Notte, a’ Luna, e mentre
solleticavi il labbro e il volto mio
con le manine. E era un Tempo d’Eterno
che lento… lento scorrea, e poi sereno. E
così la Vita nostra scorre via?
E da me, ahimè, e per sempre ti allontani?

E venne l’Angiolo e a me del Signor
portò l’Annunzio bello, e ti cullai
con lo Spirito Santo; e io, ancella tua,
dissi che amavo la tua Volontà,
e Tu venisti ad abitar tra noi,
dove v’è ora una croce.



XV. La Coscienza

E muto io siedo a rigirar i ferrei
nodi del mio rosario, e questi canti,
e queste lodi; e mi tormento, lì,
nel perenne silenzio di una steppa, ‘l
muto labbro d’Iddio; e qui, prego… e prego,
Anima disperata e inquieta sempre.
Mi son come ombre i chiostri, e intorno, i terrei
fantasmi dello Spirito, e i miei ansanti
lamenti; e invoco, e spero, e muore il dì,
quando la mia preghiera ora si inceppa,
per la paüra che Sàtana ha seco.
Misericordia!.... Pietà di me! E mentre
la cera si consuma, il cuore spera.
E muto io siedo a rigirar i ferrei
nodi del mio rosario: è una preghiera.



XVI. Un Sogno di Montagna

Sogna i tuoi monti lontani… lontani,
e le ansimate vette, oh cuor mio, e va’
dove un ruscello prepotente scende!

Sogna i sentieri montani, ove i pascoli
degli armenti germogliano, e le pietre
oranti delle pievi! E sogna… sogna

sempre! E scaldando il tuo inverno e il tuo vivere
in un sonno letargico e inumano,
vivi tu l’interminabile Notte
di quei sogni che mai e mai si potranno
avverare nel giorno!



XVII. Un Notturno

E attender la tua danza è lungo, oh Notte!
mentre contemplo il ventaglio dei sogni,
e le piegate gonne, e le tue dame.

Oh Dio!

E attender i tuoi inviti avversa il sonno,
dov’ella siede - la Vita - fremendo,
quando le barcarole ormai ritardano.

E può essere, anzi, lo è, un sognar inquieto,
costretto su due legni di un giaciglio:
il tramonto rubino della Luna,
senza più il Sole, e senza più nuova alba.

E diranno di me che un dì ho sognato,
che ho perduto tai istanti della Vita,
attendendo una danza nei miei sogni,
l’Amore nella Furia, Iddio, invisibile
di ogni mai udito vento.



XVIII. Tannhäuser

E il gregoriano canto incide l’aëre
che al pellegrin si lamenta; e or l’inverno
il lungo viaggio imperterrito segue,
dove va il penitente Cavaliere,
e ‘ve la neve grida a una purezza
d’ignoto cuore e indefinita cura,
come una Luna di argento nel cielo.
Egli ha il suo liuto, astro di Norimberga:
un secco legno di spogliato salice,
che più non è accordato e che languisce;
e ombre, e ansie, e litanie con questo ei suona,
vanamente implorando ed errabondo,
lungo un sentiero che nell’orizzonte,
e oltre quest’Alpi muore.

E andrò a Roma a pregar ai fregi santi
del tuo perdono, oh Dio; e ivi annienterò
queste Furie secrete del mio cuore,
di cenere vestendo e di vergogna,
qui, ‘ve il mio stemma è un nom diseredato.
Ma tu, che a Norimberga resti, o Vita,
mi vedrai ritornare; e con un labbro
al tuo labbro così ti bacerò,
con un bacio nel tuo bacio fatale,
e in un soffio che adduce a te la santa
Porta; e germoglierà il mio liuto ignudo.
E se io ti porterò il vento di Roma,
tu mi darai baciando invalicabile
alito eterno, e giorno intramontabile,
di una Notte di Dio.

E allora il Cavaliere avanza, e va…
e va lontano… lontano, oltre le vette,
dove in un sogno alberga il fior di un Calice.

Canta! Orsù, canta! Pellegrino canta!
Io sono il pane del sasso che mangi,
e io sono il vino del rovo che premi!

E nella Notte, lungo il salmodiante
Te Deum, e lungo il sognar inumano,
e a questi colli di neve vestiti,
e al sibilo del Tevere tuo immane,
urla l’Amen di Dio.



XIX. Giorno di Natale

E verrai a illuminare il cielo e l’alba,
e io sarò un occhio di candida neve,
e il tramonto sarà più dolce e eterno.

Udrai cantare il pastorello e il gregge,
e sentirò io l’usignuolo cantare,
e questa Notte svanirà nel Nulla.

Sarò la gioia di un giorno immutabile,
e il sogno eterno di un Sole perenne;
e tu sarai la mia alta Poësia,
mentre rinasco dal sonno mio insonne,
e ora ho sete di Dio.



XX. Un Penitente

E che dirò a quest’alito tuo? Dimmi!
Eternamente vo’ peregrinando,
tra l’aurora e il crepuscolo che scende,
avvolto tra le rune del Destino
in manto oscuro, io tremando e fremendo,
con un cuore febbricitante e esangue;
quando la Luna invoco a farmi specchio
dell’Anima segreta e in conosciuta,
e inorridendo per le sue menzogne,
frustrato io dai desidèri e dagli attimi
che passano impetuosi su una via.
E mi spaventa il pensar al tramonto,
interrogar la Notte, urlar, sognar,
e chiedermi se fia una novella alba,
e come essere possa, e nuova Vita,
se vedrò dileguarsi questa tenebra
di immane sangue, e come canti poi
l’allodola dell’Amore sognato.
E ho un senso arcano di aspro vuoto,
qui, nella paglia dell’arido Spirito;
e non trovo mai più un quieto detto

per dirti: ti amo, Dio!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Martedì XXIX Dicembre AD MMXV