Parte III - La Preghiera del Viandante
Ma
dinnanzi a queste frequenti preghiere e a queste moleste e nauseanti suppliche
che fiatavano sozze di vino dalle labbra di quei galantuomini, il viandante
fermò d’un tratto le sue parole e divenne novellamente taciturno; or forse
perché stava soltanto meditando su quanto v’era da raccontare, or forse perché
queste richieste erano dassenno assillanti e fonti di spiacere. Del resto
questi uomini che in una misera sera autunnale se ne stavano in una taverna a
bere dei liquori e a giuocare anche d’azzardo tra grida, ischerzi e bestemme,
indubbiamente volevano domandare e sapere quel che avesse portato il singolar
giovine a fuggire più per semplice curiosità che per compassione, proprio come
se fossero stati in piazza ad ascoltare le pettegole storielle delle comari; e
di questo l’ospite si era accorto e, come si può immaginare, non gli poteva
piacere. Ma le richieste in ogni caso non cessarono, e il sepolcrale silenzio
del viandante non fu affatto cagione di imbarazzo o perfino di terrore per
tutti quei curiosi che lo circondavano e che gli recavano noia senza nemmeno un
piccolo sentore di pietà; anzi, intorno a un tavolo, di fronte al bancone
dell’oste, ben quattro vegliardi ebbero l’incauta e malsana idea di proporre e
di fare un brindisi all’estraneo, e presi i loro boccali, bevvero come pazzi,
tant’è vero che una volta finito di tracannare, iniziarono a ridere e a
beffeggiarsi tra loro. Qualchedun altro, invece, aveva così lo sguardo affisso
a quest’ospite che ormai rosicchiava perfin l’ossa della coscia di selvaggina
che teneva tra le mani, ed era in questo senso più simile a un vecchio cane che
a un uomo.
«Ebbene?
Non parlate, oh uomo istraniero?»
or
domandò un vegliardo al giovin mesto,
e
‘l labbro suo pareva ansioso e fiero,
e
‘l detto incauto e insano e pur molesto;
e
l’oste sorridendo all’uom diceva:
«Or
bevete un bicchier chè ‘l vin rischiara,
e
poscia a noi narrate» e ne scorgeva
pe’i
tavoli i danari e l’empia zara,
e
la luce de’i ceri or fu più chiara,
e
‘l viandante sen stava or taciturno,
e
fuori si lagnò l’augel notturno,
ed
ei nemmen faceva un solo gesto.
«Or
muto sta qual tomba in cimitero!»
sclamò
beffardo un uom in cor funesto,
e
‘l labbro suo pareva ansioso e fiero,
e
‘l detto incauto e insano e pur molesto.
Né
per far narrare il terribile Fato valsero altre suppliche come questa, e
nemmanco il consiglio dell’oste fu seguito dal giovine, il quale al contrario
smise perfino di attingere dal bicchiere il buon e dolce nettare della vite;
anzi, pochi istanti dopo, abbassò pure il capo e affisse lo sguardo alle gambe
del tavolo intorno al quale si era seduto, e questo stesso sguardo appariva
mesto, perduto e addolorato, forse un po’ infastidito, e i suoi occhi stavano
per traboccare di lagrime, come se in realtà quest’ospite avesse avuto sulla
coscienza l’onere di una colpa inesorabile e inestinguibile e che ora, presto o
tardi, sarebbe dovuta per forza essere da lui ostentata. Del resto egli medesmo
accettò poc’anzi di descrivere e di riconoscere i dolori di quanti dovettero
seguire la sua stessa via, cioè la via dalle mille e mille e infinite vie, il
sentiero dell’eterno pellegrino, di colui che nemmeno poscia la Morte probabilmente avrebbe
avuto un riposo; e di ciò era appunto appagato, in quanto aveva condivisa la
sua irrequietezza attuale con qualchedun che lo stava ascoltando attentamente. Ma
ora gli veniva richiesto ben altro e forse ancor di più, cioè di dire quali ragioni
lo avessero condannato all’eterna fuga; ed egli tra l’altre cose non aveva
immaginato che ciò sarebbe potuto accadere, e incautamente parlò quando invece
avrebbe dovuto tacere, almeno per evitare la reazione di questa schiera di
curiosi. Così passarono altri istanti,
lunghi e intensi attimi di profondo silenzio e di continue suppliche; dopodiché
egli risollevò il capo e disse verso l’oste:
«Messere,
è dolce ‘l vin; ma ho freddo e voglio
un
caldo e blando intruglio al cor infìmo»,
e
l’ostessa sentendo e in fin da un soglio
venne
e una tazza porse, e un fior di timo.
Così
‘l viandante bevve - e ‘l fece a sorsi! -
e
quieto assaporava or la tisana,
e
al bicchiere ne dava or crudi morsi
per
cruda furia oppressa, e in ira arcana,
e
l’acqua ormai bevuta non fu vana,
ed
era appunto e dolce e quieta e blanda;
ma
ancor ne risonava una domanda,
pell’ospite
un furioso e vil Destino.
Allor
assaporando ‘l buon germoglio
il
giovin ne sclamò: «Di me ne rimo!»,
e
l’ostessa tornava al suo pio soglio,
in
man la vuota tazza, e un fior di timo.
Ma
il viandante, che ormai aveva promesso di narrare di sé e del suo terrificante
Destino, una volta assaporata la tisana di timo alpestre restò ancora per un
istante in silenzio, forse per trovare coraggio, o forse e semplicemente per
gustare ancora un po’ l’acceso sapore che aveva in bocca. Alla fine con sguardo
ligio volse lo sguardo all’effigie della Madonna, e alla striscia di tinta
rossa che voleva rappresentare il sangue che colava da questa santa fronte,
probabilmente un simbolo di una tradizione popolare e religiosa che viveva da
quelle parti, ai piedi delle Alpi. Purtuttavia questo giovine si risparmiò di
chiederne spiegazioni, e a riguardo preferì vivere quello che gli sembrava un
mistero che mai doveva essergli svelato; anche se in realtà si ricordò che
quell’immagine era molto ricorrente in questi luoghi alpestri, che l’aveva
ammirata anche altrove.
«Quest’è
un’effigie pia» disse l’ostessa:
«Di
Re la vergin Madre» e ancor narrava:
«Un
giorno un campanar pria della Messa
e
all’alba la trovò che sanguinava;
e
l’intero villaggio ‘l vide, e un prete
questo
sangue cogliea co’i fazzoletti,
e
in fino al vespro - e senza e fame e sete! -
ei
lì ne benedìa con sacri detti»,
e
‘l viandante ascoltava, e fuor i tetti
da
un finestrel mirava e l’alba Luna,
e
l’immensa e feroce Notte bruna,
e
ascostamente in core or ne pregava.
Allora
l’oste disse: «E questa istessa
ne
fia l’effigie un dì che s’adorava,
e
sempre e all’alba e poi, e pria della Messa
Alla
fine, benché non lo avesse mai desiderato, il misero viandante dovette
ascoltare - e paradossalmente con interesse - questa ricordanza popolare, la
quale dagli sguardi di coloro che la narrarono non poteva far altro che
sembrare essere vera. Poco più in giù di questo villaggio (saranno almen
quattro miglia), ov’è ambientata la nostra storia, in una cittadella antica
avvenne questo miracolo; e a riguardo si narra tuttora che un giuocatore
d’azzardo, un’anima folle, rejetta e perduta, una Notte oscura, preso dalla
furia, scagliò una pietra contro quest’effigie, onde i Cieli affinché costui
avesse avuta la possibilità di convertirsi decisero di farla sanguinare
copiosamente. Orben, questo racconto fu minuziosamente esposto al viandante, il
quale avendone sentiti i dettagli affisse sempre più lo sguardo a questo sacro
affresco, e così facendo disse che prima di narrare del proprio Fato avrebbe
preferito dire una preghiera, ora per puro sentimento religioso, ora per avere
il coraggio di esporre la sua drammatica Vita; e poiché la proposta piacque,
egli e molti altri si alzarono dalle sedie, si volsero al dipinto e si
inginocchiarono umilmente, e più non interessava loro di quanti continuavano a
bere, giuocare e bestemmiare; e allora il giovine disse:
«Ave
Maria, che in Cielo e a’ nembi siedi,
e
che ‘l vento ne volgi a queste soglie,
a
Te umilmente proni ormai ci vedi
perdon
chiedendo al Ciel di nostre doglie».
«Oh
Vergine beäta, oh nostra meta»
in
devozion l’ostessa allor diceva:
«Oh
benedetta n’abbi un fior di pièta
per
questa stirpe incauta e folle d’Eva»;
e
l’oste istesso in ansia or ne gemeva:
«Eccelso
tra le donne è ‘l tuo bel nome,
e
santa, e bella e cesia or se’ tu come
in
quest’autunno a’ rami l’albe foglie».
«Ave
Maria, oh Regina delle Fedi»,
dicea
‘l viandante ancora: «Oh sacra Moglie,
a
Te umilmente proni ormai ci vedi
perdon
chiedendo al Ciel di nostre doglie».
«E
ne fia benedetto» un uomo or disse:
«del
seno tuo l’Agnèl, Cristo Gesù,
il
qual per noi alla Croce un dì s’affisse,
e
dianzi al guardo tuo morì, ed ei fu».
«Immacolato
frutto» urlò un vegliardo:
«dal
ventre tuo fioriva, e a noi Salute
eternamente
diede e all’uom beffardo,
e
al crudele e all’umìle e a’ stirpi mute»;
e
un altro disse ormai: «E queste perdute
perennemente
l’alme Ei ne salvava,
e
in Ciel e al tron dorato le portava
or
ov’è etterna[1] Vita e a’ nembi e in sù».
«E
benedetto un giorno Ei qui ne visse»
il
viandante diceva e vêr Lassù:
«il
qual per noi alla Croce un dì s’affisse,
e
dianzi al guardo tuo morì, ed ei fu.
Santa
Maria, d’Iddio la Madre
santa,
per
noi ne prega, oh dolce, e pe’i dolori»,
e
l’oste disse: «E a Te ciascun ne canta,
melanconico
mar di peccatori».
«In
lagrime Tu prega, e a Iddio riporta»
l’ostessa
ne dicea: «Questa lagnanza
che
dalle labbra nostre ormai s’è sorta[2],
e
che alle nubi in Cielo e a Te s’avanza;
e
pe’i pianti ne prega e la baldanza,
e
pell’alme represse e i spirti infermi,
e
pe’i sepolcri e l’ossa e gli empi vermi,
pe’i
miscredenti e gl’infedeli Mori.
Santa
Maria, d’Iddio la Madre
santa,
per
noi ne prega, oh dolce, e pe’i dolori»,
e
ognuno disse: «E a Te ciascun ne canta,
melanconico
mar di peccatori».
«Adesso
e poi nel dì di Morte nostra. Amen».
«Adesso
e poi nel dì di Morte nostra. Amen».
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