Parte II - Il Lamento del Viandante
Così
il misero e povero viandante, sempre stando avvolto nel suo negro e folto
mantello, all’oste, all’ostessa e ai bevitori della taverna vanamente si
metteva a muovere le labbra, come se avesse voluto dire qualcosa e accontentare
gli avventori; ma non trovando nemmeno una parola che gli faceva d’uopo, come la Notte tra le lapidi di un
cimitero, taceva continuamente, e altrettanto perennemente volgeva qua e là, a
questo tavolo e a quest’altro, a questi giuocatori e a quest’altri ubriachi, le
sue occhiate, ora truci e infastidite, ora più placide e al tempo istesso
melanconiche. Purtroppo, però, se molti ormai lo stavano a ignorare e non si
curavano più di lui e della sua istrana presenza, altri proseguivano a
invitarlo a presentarsi e a discorrere di sé, delle sue pene e delle sue
peregrinazioni; e ogni volta che egli sembrava voler aprir bocca e poi rimaneva
in silenzio, costoro si mostravano alquanto infastiditi tanto che alla fine,
con gli sguardi rivolti unicamente a costui, avevano smesso di bere e di
giuocare. Qualcheduno, invece, era perfino preoccupato e temeva che in seguito
a questa crudele e molesta insistenza il misterioso ospite avesse potuto
brandire la spada e far qualche gesto di minaccia, se non propriamente
trucidare i seccatori; e così fingeva che nulla stesse accadendo e che non vi
fosse nessun forestiero, e che ogni cosa stesse procedendo normalmente, come
sempre. Per questo alcuni uomini preferirono volentieri continuare a discorrere
tra di loro, non senza addolcire l’ugola con un liquore e non senza aver
giuocato del danaro sulla Sorte; e in mezzo a costoro non mancava certamente
l’ischerno, o il sorriso avvelenato di un insano e folle sarcasmo, perché alla
fine quanti perdevano accusavano generalmente i vincitori di essere dei comuni
e sozzi bari, oppure di essere individui privi di pietà e di compassione.
Eppure,
in cuor suo, il viandante non era affatto eccessivamente infastidito dalle
richieste e dalle voci disordinate che s’alzavano dalle tavole della taverna,
né sentiva il dovere di offendersi e di metter mano alla spada per punire
alcuni tra gli avventori; e nemmeno avrebbe preferito che non gli fossero mai
state rivolte queste domande e queste richieste, poiché in fin dei conti n’era
abituato e per questo non era certamente la prima volta che ciò gli accadeva. Del
resto se da una parte egli in questi istanti indirizzava ovunque delle occhiate
terribili che potevano sembrare ricolme d’ira e di sprezzo, dall’altra parte
questi suoi occhi erano così fulminanti perché nel suo spirito sentiva dolore,
il senso di un patimento eterno che involontariamente veniva appena sfiorato,
ed essendo tale, gli era cagione di grande turbamento e di imbarazzo, proprio
come se si fosse trattato d’una ferita dolente che per ragioni diverse veniva
palpata, ora per essere medicata, ora per essere palesata. Questo povero uomo,
infatti, dal momento che cercava di dire qualcosa, aveva l’intimo desiderio di
condividere le orribili forme del suo Destino con quanti lo circondavano; e più
che per placare la sete dei curiosi, sentiva questo bisogno più per la sua
anima. Certo, forse la presenza davanti al suo sguardo di un vecchio e robusto
oste che, ritto in piedi e con le mani sui fianchi e il fiato liquoroso che
usciva perfin dalle narici, lo scrutava attentamente e immobile aspettandosi un
responso, l’ombra di un’ostessa che mentre dall’altra parte del bancone
scodellava la minestra e puliva i boccali lo fissava continuamente, e le
disordinate parole degli ubriachi, un po’ lo mettevano in soggezione,
probabilmente gli recavano fastidio. Ma alla fine egli provava anche non dico
piacere quanto piuttosto del semplice sollievo dal fatto che c’era qualcheduno
che voleva sentire da lui quello che aveva il desiderio di pronunciare. Così,
dopo lunghi e intensi istanti di silenzio, e dopo aver rovesciato del buon vino
in un bicchiere e averlo gustato lentamente, sorseggiandolo quasi nel tentativo
di conservarlo il più a lungo possibile, e poscia aver rivolto uno sguardo
ligio all’effigie della Madonna cui era stata aggiunta una striscia di tinta
rossa alla fronte, iniziò a rivelare il suo cuore, le sue peregrinazioni e i
suoi dolori; e molti lo stavano ad ascoltare, lì semplicemente divertiti, qui
perfin compassionevoli, e l’oste stesso, non avendo più molto da fare, prese
una sedia e si sedette vicino a lui, e tra una parola e l’altra gli versava il
buon e dolce nettare dei tralci. Allora e a questo punto, le lagnanze d’un
povero viandante iniziavano a ricoprire le irrispettose e violente bestemmie
dei giuocatori e, poiché stava davanti a una candela e l’acceso lume di questa
vi si rispecchiava, perfino l’immagine sacra pareva che non stesse più colando
sangue, bensì oro; e il misterioso uomo in tal guisa parlava:
«In
Notte atroce e fiera eternamente
a’
monti in ghiaccio salgo, e all’ermo alpino
ramingo
mi riposo e febbrilmente
tra
le nevi mi giacio in reo Destino.
Quel
che voi mi chiedete è ‘l mio lamento,
e
i calici vi colmo or di lagnanza,
e
in pianto e in strazio e in duolo ‘l turbamento
di
questo cor vi copre l’ansia stanza,
poiché
son io un viandante e una romanza
d’eterni
passi narro e di dolore,
e
assaporando piango ‘l buon liquore
che
dolcemente inebria ‘l vostro tino»;
e
l’oste ripeteva or fieramente
dinnanzi
al mesto guardo del meschino:
«Ramingo
si riposa e febbrilmente,
tra
le nevi si giace in reo Destino!».
Allor
gli chiese e sùbito ‘l viandante:
«Sapete
quale strazio io in cor nascondo?....
Qual
pena in me vi sia che vado errante?»,
ed
ei gli disse: «Ditelo, oh errabondo!».
«Lungi
dal suol natale or n’erro e volgo
non
so a qual porto insano né a qual terra,
e
fuggendo tremando e ognor accolgo
i
sassi come ‘l pan, i campi in guerra;
e
mai l’istesso covo mi rinserra,
e
all’empie pietre e a’ rivi ne discuto,
eternamente
cupo e qui perduto,
oltre
le cime istesse e in sfida al mondo;
e
all’alba al strale e dolce e rischiarante
or
senza meta m’alzo e fremebondo»;
e
l’oste ne tremava al spirto errante
che
andava mesto in gemiti, errabondo.
«Nel
bosco oscuro e insano e in tristo Fato
il
meriggio ne passo e inquieto e illuso,
e
verso ‘l vespro n’odo ‘l gran latrato
che
del lupo n’irrora ‘l fiero muso.
Mi
piovono le fronde e sterpi e foglie,
son
capestri furiosi al vento fresco,
m’attanagliano
crude, e io sono in doglie
senza
una dolce sedia, e senza un desco;
e
in sulle polvi inseguo ‘l piè fratesco
che
vanamente adduce a un monastero,
e
vagolo tra gli orni e ‘l cimitero,
e
‘l sepolcro crudele or m’è trasfuso»;
e
l’occhio suo sen stava addolorato,
e
mestamente pianse e volse in suso,
e
in quest’istante udiva ‘l gran latrato
che
del lupo irrorava ‘l fiero muso.
Allor
più cupamente or proseguiva:
«Da
mesi errante sono, e sempre in pianto
i
fiorellini mesti in sulla riva
con
quest’acque ne nutro, e all’arpa un canto
pizzicando
le corde io mòvo a’ venti,
un’eterna
preghiera innavverata,
e
insonne e in duolo e a passi e folli e lenti
sempre
la Notte passo
ottenebrata.
Così
m’è cupa pur la Luna
ambrata,
e
agli astri un grido svelgo e crudo e osceno,
e
le nubi notturne or son veleno,
e
‘l ciel m’avvolge in negro e freddo manto»;
e
l’oste udendo e quieto n’asseriva:
«Oh
quanto voi ne siete e in duolo e affranto;
e
i fiorellini mesti in sulla riva
di
lagrime ne coprite e in molle canto!».
«Vanamente
ne chiedo all’uomo ‘l pane,
e
amaro ‘l fonte stilla un sorso e poco,
e
sònano di Morte or le campane,
d’un
mentecatto ‘l rogo or s’erge e in foco;
e
‘l mio passar perenne non si svelle,
diseredato
un giorno e vil d’onore,
non
ho lucerna dolce che le stelle
nell’iracondo
mar d’un tenebrore,
e
fiero, eterno e folle m’è ‘l dolore,
e
ho perduto da tanto e in lagne adorno
perfin
la via vietata del ritorno,
e
‘l Sole in ciel che brilla or veggo fioco».
Allor
dicevan mesti: «Oh Sorti insane!»
color
che stavan presso ‘l lieto giuoco:
«E
sònano di Morte or le campane,
come
un rogo crudel vi brucia ‘l foco!».
Ma
a quest’istante l’oste in requie chiese:
«Perché
fuggite, o prode, e sempre errate?»;
ed
ei un’occhiata insana ancor gli tese,
e
un bevitor gli disse: «Orben, narrate!».
Così
‘l viandante ancor si tacque e stette
in
grave e reo silenzio, e ne tremava,
e
come un folle in cima ad alte vette
col
precipizio ai piedi or s’inquietava;
e
vanamente ovunque ne scrutava,
e
alfin chinava ‘l volto e si gemeva,
e
a fatica e meschino ne diceva
non
altro che parole or singhiozzate.
Ma
l’oste insano e ancora non s’arrese,
e
disse ancor le cose or domandate;
ed
ei un’occhiata insana ognor gli tese,
e
un giuocator gli disse: «Orben, narrate!».
Nessun commento:
Posta un commento