Nota iniziale d’autore: la presente
Opera poetica è un Poema romantico in forma di Ballata e diviso in parti,
ciascuna delle quali è introdotta da un breve racconto in Prosa. Questa
struttura si ispira alla celebre Ballata
del vecchio Marinaio dell’egregio S. T. Coleridge, da cui si distacca
invece per quanto riguarda il mero contenuto, lo stile e la storia narrata. La
vicenda si svolge in Piemonte agli inizi del XVI secolo.
Parte I - Il Viandante
Era
una melanconica notte d’autunno. Le tenebre notturne si distendevano per
l’immensità del cielo, e coprivano come le negre e meste vesti d’una vedova i
boschi irrequieti, le foreste assopite, i freschi ruscelli, i gelidi torrenti e
le impetuose e immobili forme dei monti e delle vette innevate. All’orizzonte
sempre più cupo, infatti, gli inquieti vigneti - che erano ormai mietuti
dall’inesorabilità della vendemmia - e le tante qualità delle montane piante,
delle felci e dei miserabili fiorellini continuavano a immergersi totalmente
nelle fauci di questa belva notturna, e lentamente in esse, come se fossero
stati davvero divorati, svanivano e per questo non lasciavano nemmeno una
pallida impronta di se medesmi nella più sottile e debole delle ombre. Del
resto, in questo preciso istante, non v’erano stelle nell’etere celeste, e tra
i nembi densi e tenebrosi non si poteva nemmanco scorgere che brillava la Luna , ora eternamente
assente, e ora appena scernibile in mezzo alle brume dell’atmosfera oscura. Ma
anche respirando affannosamente in un sonno autunnale più o meno confortevole,
e benché nelle loro imperscrutabili aspettative fossero ancora rigogliosi, i
desolati larici, le infreddolite querce, i robusti castagni, i nostalgici e
misteriosi frassini, i sacri salici coperti e invasi dal vischio, le alte e
imponenti betulle, i carpini e i ciliegi addormentati e le roveri - culle e
balie dei primi funghi - iniziavano inesorabilmente a perdere le proprie foglie
in un pianto forsennato di dolci e melanconiche tinte; e come le lagrime d’una
lagnanza sempiterna, non v’era un istante senza che questo accadesse. Però,
essendo stata ormai notte ed essendo stata quest’ultima assai cupa e lugubre,
nessun occhio né di uomo né di animale sarebbe riuscito a discernere questo
drammatico impoverimento delle fronde, le quali di lì a poco, questione di una
settimana o forse meno, sarebbero rimaste definitivamente spoglie nell’attesa
del prossimo inverno. Così, per la stessa ragione, anche le montagne che
circondavano quest’istrana pianura, e queste valli e i piccoli e grandi colli
restavano difficilmente scernibili a uno sguardo: ombre negre e funeree di
creste, di valichi e di vette da una parte, impronte di rocce e di pietre
sublimi dall’altra; e in ogni caso, tutto questo si confondeva nell’oscurità
della gelida e sepolcrale volta celeste.
Ormai,
in questi istanti, i santi Vespri erano da poco finiti; e in un villaggio
alpino circondato e lambito da imponenti monti, gli uomini e le donne stavano
uscendo dalla grezza chiesetta, e dopo essere usciti, o rimanevano lì, nella
povera e scarna piazza a parlare tra di loro dei propri mestieri, della
vendemmia degli impegni, della salute di questo e di quest’altro o davanti a
una rozza colonna d’alpestre pietra e sormontata da un’altrettanto misera croce
a borbottare ancora qualche preghiera, oppure dopo essersi dato l’ambito appuntamento
andavano verso la rustica taverna che avevano appena di fianco, oltre il
sentiero, dirimpetto al campanile, lungo a quel miserabile valico che un miglio
più in là li avrebbe condotti alle ossa degli avi, al cimitero. Ovviamente tra
costoro stavano anche i fanciullini che - non si potrà mai sapere fin a che
punto fosse stato ischerzo! - discorrevano terrorizzanti dei malvagi e spietati
spettri che - almeno così diceva una leggenda popolare - infestavano la vecchia
dimora del parroco; e in questo modo si burlavano tra di loro, e certamente non
senza aver infastidito o impressionato le pargoline. Così parlavano di quella
volta in cui i figliuoletti del fornaio, una volta intrufolati in questa casa,
rimasero spaventati dal fatto che dalle scale, appena davanti a costoro, e
benché le mura fossero ormai disabitate da anni, precipitò una falce proprio come
se fosse stata scagliata da qualcheduno; oppure delle terribili grida che
spesso si potevano sentire. Purtuttavia bastava loro un’occhiata delle madri o
una severa rampogna paterna che non dicevano più niente a riguardo.
Ma
lasciamo perdere questo. Ciò che accadde in questa notte nella taverna, sì, ciò
che dovette accadere in mezzo alle fioche candele e alle oleose lanterne di un
semplice albergo ricolmo di uomini ubriachi e di incalliti giuocatori d’azzardo
è molto più interessante di queste voci infantili e di questi individui che
discutevano della Vita, della fatica e della Morte. Infatti, quando ormai fuori
non v’era più nessuno e tutti gli abitanti del villaggio o erano tornati a casa
oppure erano andati appunto a bere e a tentare la sorte al giuoco, venne un
estraneo.
Erano
le dieci, il campanile aveva appena annunziato l’ore. La porta della taverna,
di cui da fuori si potevano scorgere le fiocamente illuminate finestre e
qualche ombra che passava, beveva e puntava, a un tratto si spalancò e apparve
sulla soglia un uomo avvolto in un lungo, folto e nero mantello di pelli di
lupo. Il volto giovine ma altrettanto provato era in gran parte nascosto, alla
mano destra stringeva un bastone e dalla forma del manto, indubbiamente
quest’estraneo portava nascosta una spada al fianco.
Costui
s’avvicinava a pinta effigie
‘ve
la Vergine
stava, ‘l sangue in fronte,
e
mentre in ciel lagnava un’orba strige,
baciandola
pregava, e colmo d’onte.
Allor
silente e cupo or l’invocava,
e
pietade gemeva, e l’occhio in pianti
dinnanzi
a tanti lumi s’inquietava,
e sempre
ei stava avvolto in negri manti;
e
‘l labbro insonne urlava or muti canti,
e
tristo malediva un empio Fato,
e
or si giacque soffrente e inginocchiato,
e
di lagrime ‘l ciglio n’era un fonte.
Ma
presso le candele e fioche e grigie
or
l’oste ‘l scorse e chiese: «Da qual monte?»,
e
più funereo e mesto d’una strige,
ei
rispose: «Son uom; e colmo d’onte!»;
e
immantinente chiese e l’acqua e ‘l pane,
e
a un tavolo solingo andò e fuggiasco,
e
l’ostessa gli porse or carni insane
e
d’acque un sorso amaro, e un dolce fiasco.
Così
quest’uom arcano si pasceva,
e
la lena tornava, e ‘l miele e ‘l tino
brindando
e rallegrato al ciel ergeva,
e
al secco labbro pose un quieto vino;
e
allor dimenticava ‘l reo Destino,
e
un uom gli chiese: «E siete?» e ben si piacque,
ma
costui e tenebroso e ancor si tacque,
e
poscia in pianto disse: «Son fuggiasco!»;
e
di terre narrava e ognor lontane,
che
Bisanzio scorgeva e un monte basco,
e
in man portando e al labbro or carni insane
nella
coppa versava ‘l dolce fiasco.
«Ma,
messere, chi siete?» or chiese l’oste:
«Nobil
sembrate e saggio e un cavaliero!»,
e
quest’estraneo disse in doglie ascoste:
«Viandante
sono e tristo e in su’un sentiero»;
e
allor in pianto ei stette e in turbamento,
e
più non ne beveva, ed era ansioso,
e
irrequieto mirava ‘l pavimento,
e
‘l truce giuoco e insano e fragoroso,
e
‘l suo labbro sen stava silenzioso,
e
‘l guardo ne sembrava ormai perduto -
oh
se quest’oste avesse allor taciuto! -
e
un ghigno or n’appariva e tristo e fiero.
Così
ei ne disse cupo: «Io scorsi e coste,
e
monti antichi e informi e un ermo nero»
e
in taverna s’udivan doglie ascoste
d’un
viandante soffrente in su’un sentiero.
«Son
giovine e perduto» ei proseguiva:
«dal
Cielo io fui provato e maledetto,
e
‘l letto mio nell’antro or n’ho e alla riva,
mia
legge è ‘l tenebror, quiete ‘l sospetto».
L’ascoltavano
tristi i bevitori,
e
‘l guardavan con occhi sbigottiti,
e
brindavano lieti a’ suoi dolori,
e
nel giuoco e ne’ detti ognor smarriti.
Ma
al ghigno suo tremendo impalliditi
or
restavano e tosto e pien d’orrore,
ed
ei dolente e smorto in ansio core
abbandonar
voleva questo tetto.
Allor
s’alzava e lento, e l’assaliva
or
l’oste che gli disse in quieto aspetto:
«Restate
pure, o ignoto, che alla riva
andate
in tenebror, e in gran sospetto»;
e
dopo che ‘l viandante fu rimasto,
soävemente
ei aggiunse: «Orben, narrate:
‘ve
‘l passo vostro va? e al suolo nefasto
e
a quest’ignote terre or che cercate?»,
e
‘l viandante in rossore or volse ‘l viso,
e
prendendo dal fiasco ei bevve e insano,
e
di mestizia e arcana e folle intriso
d’ascoltarlo
ordinava in ansia mano,
e
nostalgico e mesto e da lontano
poscia
un sorso di dolci e buon liquori
mellifluo
ne cantava i suoi dolori
battendo
‘l piede a terra, ed era una Vate.
Così
dinnanzi al lauto e miser pasto
i
giuocator dicevan: «Su, parlate!»,
ed
ei taceva ancora e fu nefasto.
«E
a quest’ignote terre or che cercate?».
Massimiliano
Zaino di Lavezzaro
Domenica
XXVIII Settembre MMXIV
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