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domenica 28 settembre 2014

La Ballata d'un Viandante vagante nell'Inquietudine (Parte I)

Nota iniziale d’autore: la presente Opera poetica è un Poema romantico in forma di Ballata e diviso in parti, ciascuna delle quali è introdotta da un breve racconto in Prosa. Questa struttura si ispira alla celebre Ballata del vecchio Marinaio dell’egregio S. T. Coleridge, da cui si distacca invece per quanto riguarda il mero contenuto, lo stile e la storia narrata. La vicenda si svolge in Piemonte agli inizi del XVI secolo.


Parte I - Il Viandante

Era una melanconica notte d’autunno. Le tenebre notturne si distendevano per l’immensità del cielo, e coprivano come le negre e meste vesti d’una vedova i boschi irrequieti, le foreste assopite, i freschi ruscelli, i gelidi torrenti e le impetuose e immobili forme dei monti e delle vette innevate. All’orizzonte sempre più cupo, infatti, gli inquieti vigneti - che erano ormai mietuti dall’inesorabilità della vendemmia - e le tante qualità delle montane piante, delle felci e dei miserabili fiorellini continuavano a immergersi totalmente nelle fauci di questa belva notturna, e lentamente in esse, come se fossero stati davvero divorati, svanivano e per questo non lasciavano nemmeno una pallida impronta di se medesmi nella più sottile e debole delle ombre. Del resto, in questo preciso istante, non v’erano stelle nell’etere celeste, e tra i nembi densi e tenebrosi non si poteva nemmanco scorgere che brillava la Luna, ora eternamente assente, e ora appena scernibile in mezzo alle brume dell’atmosfera oscura. Ma anche respirando affannosamente in un sonno autunnale più o meno confortevole, e benché nelle loro imperscrutabili aspettative fossero ancora rigogliosi, i desolati larici, le infreddolite querce, i robusti castagni, i nostalgici e misteriosi frassini, i sacri salici coperti e invasi dal vischio, le alte e imponenti betulle, i carpini e i ciliegi addormentati e le roveri - culle e balie dei primi funghi - iniziavano inesorabilmente a perdere le proprie foglie in un pianto forsennato di dolci e melanconiche tinte; e come le lagrime d’una lagnanza sempiterna, non v’era un istante senza che questo accadesse. Però, essendo stata ormai notte ed essendo stata quest’ultima assai cupa e lugubre, nessun occhio né di uomo né di animale sarebbe riuscito a discernere questo drammatico impoverimento delle fronde, le quali di lì a poco, questione di una settimana o forse meno, sarebbero rimaste definitivamente spoglie nell’attesa del prossimo inverno. Così, per la stessa ragione, anche le montagne che circondavano quest’istrana pianura, e queste valli e i piccoli e grandi colli restavano difficilmente scernibili a uno sguardo: ombre negre e funeree di creste, di valichi e di vette da una parte, impronte di rocce e di pietre sublimi dall’altra; e in ogni caso, tutto questo si confondeva nell’oscurità della gelida e sepolcrale volta celeste.
Ormai, in questi istanti, i santi Vespri erano da poco finiti; e in un villaggio alpino circondato e lambito da imponenti monti, gli uomini e le donne stavano uscendo dalla grezza chiesetta, e dopo essere usciti, o rimanevano lì, nella povera e scarna piazza a parlare tra di loro dei propri mestieri, della vendemmia degli impegni, della salute di questo e di quest’altro o davanti a una rozza colonna d’alpestre pietra e sormontata da un’altrettanto misera croce a borbottare ancora qualche preghiera, oppure dopo essersi dato l’ambito appuntamento andavano verso la rustica taverna che avevano appena di fianco, oltre il sentiero, dirimpetto al campanile, lungo a quel miserabile valico che un miglio più in là li avrebbe condotti alle ossa degli avi, al cimitero. Ovviamente tra costoro stavano anche i fanciullini che - non si potrà mai sapere fin a che punto fosse stato ischerzo! - discorrevano terrorizzanti dei malvagi e spietati spettri che - almeno così diceva una leggenda popolare - infestavano la vecchia dimora del parroco; e in questo modo si burlavano tra di loro, e certamente non senza aver infastidito o impressionato le pargoline. Così parlavano di quella volta in cui i figliuoletti del fornaio, una volta intrufolati in questa casa, rimasero spaventati dal fatto che dalle scale, appena davanti a costoro, e benché le mura fossero ormai disabitate da anni, precipitò una falce proprio come se fosse stata scagliata da qualcheduno; oppure delle terribili grida che spesso si potevano sentire. Purtuttavia bastava loro un’occhiata delle madri o una severa rampogna paterna che non dicevano più niente a riguardo.
Ma lasciamo perdere questo. Ciò che accadde in questa notte nella taverna, sì, ciò che dovette accadere in mezzo alle fioche candele e alle oleose lanterne di un semplice albergo ricolmo di uomini ubriachi e di incalliti giuocatori d’azzardo è molto più interessante di queste voci infantili e di questi individui che discutevano della Vita, della fatica e della Morte. Infatti, quando ormai fuori non v’era più nessuno e tutti gli abitanti del villaggio o erano tornati a casa oppure erano andati appunto a bere e a tentare la sorte al giuoco, venne un estraneo.
Erano le dieci, il campanile aveva appena annunziato l’ore. La porta della taverna, di cui da fuori si potevano scorgere le fiocamente illuminate finestre e qualche ombra che passava, beveva e puntava, a un tratto si spalancò e apparve sulla soglia un uomo avvolto in un lungo, folto e nero mantello di pelli di lupo. Il volto giovine ma altrettanto provato era in gran parte nascosto, alla mano destra stringeva un bastone e dalla forma del manto, indubbiamente quest’estraneo portava nascosta una spada al fianco.

Costui s’avvicinava a pinta effigie
‘ve la Vergine stava, ‘l sangue in fronte,
e mentre in ciel lagnava un’orba strige,
baciandola pregava, e colmo d’onte.

Allor silente e cupo or l’invocava,
e pietade gemeva, e l’occhio in pianti
dinnanzi a tanti lumi s’inquietava,
e sempre ei stava avvolto in negri manti;
e ‘l labbro insonne urlava or muti canti,
e tristo malediva un empio Fato,
e or si giacque soffrente e inginocchiato,
e di lagrime ‘l ciglio n’era un fonte.

Ma presso le candele e fioche e grigie
or l’oste ‘l scorse e chiese: «Da qual monte?»,
e più funereo e mesto d’una strige,
ei rispose: «Son uom; e colmo d’onte!»;

e immantinente chiese e l’acqua e ‘l pane,
e a un tavolo solingo andò e fuggiasco,
e l’ostessa gli porse or carni insane
e d’acque un sorso amaro, e un dolce fiasco.

Così quest’uom arcano si pasceva,
e la lena tornava, e ‘l miele e ‘l tino
brindando e rallegrato al ciel ergeva,
e al secco labbro pose un quieto vino;
e allor dimenticava ‘l reo Destino,
e un uom gli chiese: «E siete?» e ben si piacque,
ma costui e tenebroso e ancor si tacque,
e poscia in pianto disse: «Son fuggiasco!»;

e di terre narrava e ognor lontane,
che Bisanzio scorgeva e un monte basco,
e in man portando e al labbro or carni insane
nella coppa versava ‘l dolce fiasco.

«Ma, messere, chi siete?» or chiese l’oste:
«Nobil sembrate e saggio e un cavaliero!»,
e quest’estraneo disse in doglie ascoste:
«Viandante sono e tristo e in su’un sentiero»;

e allor in pianto ei stette e in turbamento,
e più non ne beveva, ed era ansioso,
e irrequieto mirava ‘l pavimento,
e ‘l truce giuoco e insano e fragoroso,
e ‘l suo labbro sen stava silenzioso,
e ‘l guardo ne sembrava ormai perduto -
oh se quest’oste avesse allor taciuto! -
e un ghigno or n’appariva e tristo e fiero.

Così ei ne disse cupo: «Io scorsi e coste,
e monti antichi e informi e un ermo nero»
e in taverna s’udivan doglie ascoste
d’un viandante soffrente in su’un sentiero.

«Son giovine e perduto» ei proseguiva:
«dal Cielo io fui provato e maledetto,
e ‘l letto mio nell’antro or n’ho e alla riva,
mia legge è ‘l tenebror, quiete ‘l sospetto».

L’ascoltavano tristi i bevitori,
e ‘l guardavan con occhi sbigottiti,
e brindavano lieti a’ suoi dolori,
e nel giuoco e ne’ detti ognor smarriti.
Ma al ghigno suo tremendo impalliditi
or restavano e tosto e pien d’orrore,
ed ei dolente e smorto in ansio core
abbandonar voleva questo tetto.

Allor s’alzava e lento, e l’assaliva
or l’oste che gli disse in quieto aspetto:
«Restate pure, o ignoto, che alla riva
andate in tenebror, e in gran sospetto»;

e dopo che ‘l viandante fu rimasto,
soävemente ei aggiunse: «Orben, narrate:
‘ve ‘l passo vostro va? e al suolo nefasto
e a quest’ignote terre or che cercate?»,

e ‘l viandante in rossore or volse ‘l viso,
e prendendo dal fiasco ei bevve e insano,
e di mestizia e arcana e folle intriso
d’ascoltarlo ordinava in ansia mano,
e nostalgico e mesto e da lontano
poscia un sorso di dolci e buon liquori
mellifluo ne cantava i suoi dolori
battendo ‘l piede a terra, ed era una Vate.

Così dinnanzi al lauto e miser pasto
i giuocator dicevan: «Su, parlate!»,
ed ei taceva ancora e fu nefasto.
«E a quest’ignote terre or che cercate?».

Massimiliano Zaino di Lavezzaro


Domenica XXVIII Settembre MMXIV

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