Nella sera precoce e in pien Estate
un uom dal scarno viso e a un’alma vetta
lentamente saliva e a’ roccia gretta;
e seco e in man teneva un’arpa d’oro
che antica luccicava al cielo moro,
ed ei ne fu uno Scaldo, e un santo Vate.
Un dì a inquiete vette fu un Poëta,
e verso l’ime valli or pizzicava
l’arpa dorata e dolce, e cupo urlava
una nenia funerea e mesta e inquieta.
Allor pell’eco alpestre un tristo canto
spaziändo le nubi andava a’ monti,
e agli ermi rivi e a’ boschi, e in negro manto
in lagrime copriva e l’acque e i ponti,
e pelle rocce n’eran bei racconti
d’un’alma insana e folle in mesto core
e ansiosa si lagnava, e ambendo Amore,
or si gemeva ancora e senza pièta.
Or, però, si schiudeva in ciel la Notte ,
e ‘l pianto rispecchiava l’alba Luna -
nella piagnucolosa goccia bruna -
e al bronzo del villaggio e al campanile
e al latrato del lupo e del canile
le pietre ne tergeva e l’atre grotte.
Un dì a inquiete vette fu un Poëta,
e verso l’ime valli or pizzicava
l’arpa dorata e dolce, e cupo urlava
una nenia funerea e mesta e inquieta.
Ma nel cantar dolente or s’avvolgeva
d’indarne e fiere speni, e di Destino,
e di questo Fato al volto ei si gemeva,
e oppresso e in duolo fea un soffrente inchino;
onde in sul smorto fiore, e al rivo e al pino
e a quest’ombre melliflue e in sull’armento
le lagrimose gocce e ‘l suo tormento
colle crome contava e a’ corda lieta.
Alfin nella tristezza ‘l canto scese,
come a valle ‘l viandante a svelti passi,
e febbrilmente stava in torvi lassi,
e l’orizzonte oscuro e cieco e alpino
era una spira orrenda del Destino,
e fresco ‘l vento fu di freddo mese.
Un dì a inquiete vette fu un Poëta,
e verso l’ime valli or pizzicava
l’arpa dorata e dolce, e cupo urlava
una nenia funerea e mesta e inquieta.
Così l’arpista stava all’orbe cime,
come un pio trovatore in su gaia corte,
e ‘l labbro si gemé, e ne fu sublime
nel mantel vedovil d’un’aspra Sorte,
e del calle roccioso al truce forte
e a’ vicini villaggi urlava insano,
e pe’i monti sonava e molle e arcano
come nel sacro vespro la compieta.
Ed ei le selve scorse, e i rivi in gelo,
e sugli alpestri sassi un cimitero,
e ‘l suo sepolcro orrendo e crudo e nero,
e vide i muti tetti e le finestre
serrate e cieche e in requie, e le ginestre
dormir serene e fredde in sotto ‘l cielo.
Un dì a inquiete vette fu un Poëta,
e verso l’ime valli or pizzicava
l’arpa dorata e dolce, e cupo urlava
una nenia funerea e mesta e inquieta.
Allor quest’uomo al mar lontano e all’onde
gemendo lamentava infausta cura,
e d’Amore cantava all’iraconde
vette crudeli e tetre di Natura;
onde l’imago amata e attesa e pura
come in sogno gentil ancor gli apparve,
tra’l prisco sale e amaro e l’ansie larve,
come una visiöne inconsuëta.
Così in tra’i spirti arcani e vespertini
a quest’effigie in sogno or fece un salmo
e nel bosco piangeva e insonne e calmo,
e la neve alla Luna e all’albe e care
sue forme e dolci parve un caldo mare,
argenti di pianeti, e rei Destini!
Un dì un’arpa dorata e dolce urlava,
ed era nenia mesta e fiera e inquieta,
e in su’ una cima alpina in pianto stava -
e fors’anche morendo - un pio Poëta;
e ad amorosa meta
ei nell’ansia cantava - e strazio in core -
e indarno a Notte chiese e in sogno Amore!
Massimiliano Zaino di Lavezzaro
Domenica XXI Settembre AD MMXIV
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