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martedì 9 settembre 2014

Il Gemito dello Spettro

A’ piè de’i calli oscuri e biechi e insani
e pelle fosche selve, e i fonti e quivi
‘ve sta ‘l sepolcro muto e in su’ de’ crani
e presso i rivi,

silente vagolando a’ tristi bivi
e alle rocce furiose e a’ cespi vani
e in sulle cime a’ ghiacci e bei e sorgivi
e ancor lontani

un’ombra tetra giace, e a’ fior montani
nell’autunno che viene e a’ freddi clivi
un cupo ciglio volge e ombrose mani
a’ cardi vivi.

Così e mentre nel ciel sen vien la Notte
scheletrica e consunta or s’incammina,
e invisibile e negra va alle grotte,

ed è meschina,
e gli sterpi calpesta, e a’ queste motte
la tomba infame e infranta la destina,

e scende da una china,
e in fiere bragi avvolta e al labbro pone
un urlo e folle e vil. Maledizione!

Allora a passi suoi or si gela ‘l Reno,
‘ve l’acque argentee al vespro son di Luna,
e della cerva in sonno l’orba cuna
a questo volo orrendo si tormenta,
e par che al spettro ‘l bosco un duol ne senta
nel lacerato cor, nel spento seno.

Tristo e muto e funereo, infatti, ei veste
quest’ossa sue spettral di folle pietra
e silenzioso invòca le tempeste,
e si penètra,

negro come la Morte in cui la tetra
forma altèra si dorme, e a’ foglie meste
e ne’i lunar cristalli ormai s’invetra,
e alle foreste,

e a’ faggi e a’ tigli emana un’ansia peste
e al frassino si lagna e a’ quercia tetra,
e l’orbe mani in doglie sònan leste
un’alba cetra.

Ma al valico germano un’eco al canto
dall’orizzonte vien di strazio avvolto,
e un dolore s’espande e iscoppia intanto

e insiste e molto;
e pell’Alpi sen va feroce un pianto
che pur un ghiaccio antico or brama sciolto,

e ‘l scheletrico volto
senza meta si pasce in cor di lagne,
un urlo tempestoso alle montagne!

Così del labbro ossuto e d’un fantasima
la fredda selva e cupa n’ode ‘l spiro,
tremendo grido e insano d’un vampiro,
e in riposo e in vergogna allor ne teme
le posse arcane e antiche, e imbianca e freme,
e come un lupo in fame, or grida e spasima.

Frattanto ‘l spettro incauto e su’ un sentiero
i rovi e i sterpi infrange e l’aspre ghiande,
or che in codeste fronde è ancor più nero
e pelle lande,

e a’ salci e agli orni intreccia le ghirlande
pella pietra tombale e ‘l cimitero,
‘ve si posa velato e in sulle brande
un corpo altèro,

e la Luna che brilla pargli un cero,
Notte… un’eterna Morte che s’espande,
e l’ansie croci sono e al monastero
indarne e blande;

e a’ piè la rosa muore, e insonne pende
dall’arboscello oscuro l’impiccato,
cadaverico e in vermi, e in requie attende

l’eterno Fato,
e febbrilmente l’alma al Cielo rende,
e ‘l spirto errante s’erge entusiasmato.

E ‘l bosco sta incantato,
e al lamento fatal d’un vano picchio
perfin le streghe vanno in sul crocicchio!

Ma l’ombra insana e folle in duolo grida
e disperatamente e cieca e in febbre
la tomba indarno brama, e in mezzo all’ebbre
maliarde altère e crude allor si pone,
e nel sabbath ne scorge un vil Demòne
e si trascina in danza infame e infìda.

Quand’era in Vita fu un gran cavaliere,
morì suicida e in doglie per Amore.
Nelle Notti si desta, e in queste sere
or perduto ‘l sepolcro n’ha dolore,
e in diaboliche e triste e crude schiere
ancor straziato giace ‘l lasso core,
eternamente spettro come l’etra
che lagne e pianti e strazi dà la cetra!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì IX Settembre MMXIV
 

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