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sabato 28 luglio 2018

Ode alla Val Vigezzo

Monti randagi e vagabonde cime,
oh di Tempeste antiche e aguzze vette…
oh còrrere mellifluo del Melèzzo,
oh del Toce le plàcide scogliere
e le cascate… oh Gridone… Gridone  
possente e ossuto sotto il cui ampio sguardo
delle tue pietre tanto mi disseto
e il lìmite rimiro che separa
le alpine nostre terre dalla Svìzzera,
quanto mi siete cari!
Vedèr, sentìr… tacèr per i sentieri,
e cògliere la beltà delle rocce
tutte! Ascoltàr che mùggono le mandrie,
e bere con lo sguardo un tozzo d’erba
tra’ i fiorellini del timo selvaggio!....
Comprèndere il Mistero di fiorita
Natura, e delle baite diroccate
il Tempo che è trascorso, e de’ i mirtilli
il gusto e il fàscino! Udìr le campane
delle chiesette!....
Ti chiamo Vita, oh montagna inumana
e possente e sublime! che mi doni
i tuoi occhi appena-appena liberati
dalle càndide nevi, e che mi guidi
verso i tuoi sguardi più profondi e quieti,
e verso le tue fauci più segrete…
e che di te mi chiudi gentilmente
l’orizzonte sognato oltre cui il Sogno,
appunto, regna… come regna in là
la Fantasia e l’ingordigia di altri e altri
Sogni… e che dunque mi ripeti all’eco
canti di Bardi e Valchirie stridenti…
canti tra’ i più sovrumani e furiosi…
canti che ora mi dìcono “Sei vivo!”…
oh terre alpine e belle!....
Oh terre alpine e belle! oh dolci terre,
dove le mie ombre si fòndono sempre
a quelle de’ i faggeti e de’ i castagni,
in ricòvero al Sole che ribolle
per le vie dell’Estate montanara,
donde anch’io, forse, divento una quercia…
una quercia vivente… una roccia…
oh terre! quanto mi piacete, oh soavi…
oh leggendarie insegne d’una quiete
perduta, e d’ogni regno e d’ogni ostello,
Miti leggiadri sotto i quài mi pàr
di Tell udire il corno che risprona
dal lìmite a’ la caccia, e a’ il cavalcàr
d’eroici palafreni or mossi a guerra…
oh terre! oh terre!....
Alzàr il volto, ed èrgersi a’ le valli,
e dominàr ciò che di più imo or v’è,
con uno sguardo, come fa un Titano…
tremàr, godèr de’ i bàratri profondi
e degli Òrridi trèmuli e funesti…
dormìr, posàr, per le pietre de’ i pàscoli,
e incontro còrrere a’ i fiori che vòlano…
oh quieti àttimi!....
Ti chiamo Sogno, oh Melèzzo gentile,
i cui vapori estivi mi rinfrèscano
nel meriggio… e chimera, oh Toce, e Musa,
oh Alpe… Alpe bella e lieta… Alpe serena
che in mill’anni così t’ha riscolpita
Iddio… Alpe vagabonda nel mio cuore,
e ne’ i ricordi… Alpe indimenticata,
stupenda… bella!
Com’è sì dolce divenìr viandante
per le vostre foreste… il piede a’ i sassi,
e il cuore al Cielo!




Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Sabato XXVIII del Mese di Luglio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

venerdì 30 dicembre 2016

Etroubles - Carme elegiaco di un Viaggio, ossia Dei Monti, della Giovinezza e dei Titani

A te, último dì di mio vïaggio,
che sotto il Sole splendi lungo i monti,
giovane e fresco più di alpine fonti,
che canti il madrigale della gioia
di mio perduto giugno, quando sbocci
sopra la mia cadente giovinezza
come una rosa immacolata che è
lieve e in fiamma, e all’alba, rossa, aulente,
profumata di cera d’Orïente,
a te, último dì di alpino Fato,
nel segreto del vespro in bruta ansia
con questa cetra di Sogni e ricordi,
sì, solamente a te io
canto. E il nulla che sta dinnanzi a me
non ti riporterà se non un’eco,
effige prepotente di una immane
montagna bella, e cara, con la pietra
millenaria e il cristal di neve, l’etra
che seppellisce sul nascere questo
insolito füoco, o vetta mia,
rimasta viva nella Pöesia.
Ricordi?.... Era il mezzodì, e le cime
da lontan brulicavano di ghiaccio,
il superno dominio dell’inverno,
indistruttibile, immortale, eterno;
e tu, o cima, eri lì, sopravvissuta
alla bufera omicida di tue
sorelle, le compagne dell’estate
nel roseto che andava solitario
a profumare questa valle intera
perché eri come una rosa di maggio,
tra i pascoli sereni e il bel foraggio.
E tacque il cuore, o Sole, ora perduto
che mi hai fatto gustar la gioventù,
quando io miravo la direzïone
sul San Bernardo d’antica legione,
Hannibal che passava infurïando
con gli elefanti, i mostri del deserto,
e l’imperiale titanico serto,
e re Carlo che scese per la guerra
rapendo a sé questa italica terra.
Sentii la marcia dei fieri oricalchi,
tra la fuga dei cuccioli e dei falchi,
battere i denti di prodi guerrieri
che dagli ermi dell’Africa giungevano
in Italia per essere qui vindici
oltre l’eternità dei monti stessi
delle subìte pene in cruda pugna.
E con te camminai sui loro passi,
sulle orme secolari fatte épica
d’Eroi e di cavalieri, presso le ombre
dei più remoti castelli di orgoglio,
laddove in altro tempo i miei compari
Trovatori cantavano di te,
vetta mia, o Sole, di mia giovinezza,
con l’arpa che tuttora il ciel carezza.
Ma mi mancava il lor coraggio. I prodi!
Ambir l’eterno di queste montagne…
pensier supremo, incolmabile brama!....
E con te proseguii su’ i biechi, órridi
speroni del Titano della Corsica,
il console perenne che ambì al trono,
e che Eüropa sfidò e ne infiammava.
E fu felice?.... Morì esilïato,
e tal son io da te, o monte perduto,
dove si accese l’ultima scintilla
di questa gioventù che si matura
e che decade nel tempo in cui è vano
gioir, amare, sentir i desii
del cuore che ormai pensa, attende e medita,
dove nient’altro che Arte è la mia Sorte,
e desiderio o Sogno è solo Morte.
Udii trillare i fucili del Destino,
e il mio cuor ne cadeva al suol, supino,
ferito in mezzo, per sempre. E ch’io feci?
Lo volli maledire… questo Fato
che scherzando e pungendo e bestemmiando
univa Sogni impossibili ai fiori,
e a’ stelle tutte, e mi fece incontrare
per un’ultima volta il guardo tuo,
cima di gioventù, o Sole, o montagna,
quand’io anche ti rimembro in mia campagna
da te lontano ormai perpetüamente,
laddove ogni tuo valico è assente,
anche se ti contemplo tanto sei
immensa, quando in melliflua giornata
vesti dovunque l’orizzonte etesio
delle tue rocce e del tuo ghiaccio cesio;
e il canto mi è di sfogo…. Sfogo. Grido!
Per dirti quanto a te ambivo e tacevo,
ascendere i tuoi sassi e regnar fiero
sopra le tue maree di nubi e nebbie,
più come un re di lupi che come uomo,
fondermi pazzamente in ogni atòmo
tuo, e come i prodi lasciar la mia traccia…
per far conoscere a Dio un sacrificio
sublime e mesto, temerario e improbo,
un olocausto che sen va ben oltre
le vittime di Hánnibal, di Carlo:
a te rinunzïare, o gioventù,
ricordo di un dì di follia che fu.
E non provai nemmeno a rifermarti,
a richiamarti indietro, udii vergogna…
come fermar la roccia che è già immobile,
ma che sotto i miei piedi frana e grida?
O cima! e tacqui, tanto urlar sarìa
pur stato vano, scalar, farti mia,
ergermi al di là dei Cesari invitti,
e il Destin per cui nacqui ebbe il suo corso,
donde io stillo pur sempre un mio rimorso.
E fu il meriggio. E poi giunse la Notte.
Ricordo! I lumi del tramonto alpino
illuminavano i tuoi occhi di fiore,
il tuo crine di petali leggiadri,
il volto tuo scolpito da Natura
perfettamente, e il tacente roseto
di altre montagne fatte come rose,
dove l’unico fosti, un fior rimasto
tra l’argento di brine, e l’oro e il fasto
dei cristalli di neve e i ghiacci eterni,
e il labbro e l’occhio mio stavano inermi.
Vêr te guardavo, a’ una baïta antica,
dove il beffardo Córso ebbe il ricetto
per la Notte in cui fu a varcare l’Alpe
immane del San Bernardo, e dormì
ivi su’ un letto di paglia e di fango,
eloquente Anticristo nascituro
nell’etere montano ardito e oscuro.
Ma a che bisogna éssere Titani
e più malvagi se si vuol sfidar
il Destin tutt’intero, e le barriere
che questo Fato oppure Iddio ne pone?
A che ghermir con la possa, ora un nome,
ora la gloria, qua pianto e là Amore?
Ricchezza e allori? A che vano è il desio?....
Dimmi, o mia vetta, mio Sole, perché
chi osa, conquista e chi è umìle si acquieta
riconoscendo polvere i suoi Sogni,
null’altro che menzogna le chimere,
nient’altro che ombre i sensi delle sere?....
E nel tramonto piangeva il mio cuore,
segretamente, avvolto in questa cura,
sopra tue vette e la possente altura,
con te d’accanto, dovunque, al mio fianco,
soffïando come arpa di Óssiän
sugli spiriti di ogni invitta schiera,
cima di questa valle… dolce valle,
dove sognavo, mirarti là, all’arco
de’ i trïonfi di un Cesare, e là, al buio,
sotto l’immensa volta, posar mio
volto verso una tua pietra a’ tutt’ore,
e per un solo áttimo di ardore,
rapirti un soffio… un soffio a te soltanto
che il Sogno non può dir, nemmeno il canto,
un soffio del tuo vento prepotente;
e da lì contemplare quel Crepuscolo
che era selvaggio e anche incontaminato
con le sue rosee tinte tra le faüci
di tue montagne, vederlo in un quieto
abbraccio. E il Sogno fu. E venne la Notte.
Perché, o Dio, mai non posso ambir, sognare,
essere giovane, e felice e lieto,
e scalare la vetta che ammirai
oltre ogni umano senso dell’onore
e di ogni orgoglio; e dir «Ti prendo, oh vetta!»,
far vero il frutto del sonno irrequieto,
oltre ogni solitario istante mio?
Perché… perché mai, dimmelo, oh tu, Dio!....
Perché Tu ti diverti a porre a’ miei
passi da sempre impossibili monti,
per cui nemmen la Fede mi è d’aiuto
dov’io scalandoli altro non vo’, niente,
che raggiungere il tuo vasto infinito
e sublimarmi nel Sublime alpino?....
E taci… come hai taciuto allorché
Hannibal ne varcava l’Alpe in guerra,
e Carlo cinse la corona ambita,
e il folle volle il mondo nelle mani.
E taci… sempre, eternamente muto,
e so che esisti e che regni sul Fato.
Ma non capisco più questo silenzio
che per dolore mi par fatto assenzio.
E tu, mia vetta, non saprai mai… mai
qual furïosa battaglia ho nel cuor,
tra impavidi rimorsi e pianti osceni,
i Titani si sfidano tra’ Spiriti
di quest’Anima mia che sogna e spera,
mentre soggiunge sì svelta la sera.
E tutto fu sepolto dalla Notte…
mia gioventù, non resta che la Notte.
Ma è un regno troppo oscuro
per essere compreso.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Jacques-Louis David, Il Primo Console Napoleone varca le Alpi al Gran San Bernardo, Neo-Classicismo francese, 1801



In Dì di Giovedì XXIX, rivista in Dì di Venerdì XXX del Mese di Dicembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.

sabato 5 settembre 2015

L'ultima Ricordanza di Montagna

Dove fuggite, oh cime? Forse è l’ora,
non ti par, cuore? di dir l’addio al sogno?
e ai tuoi ricordi? E l’autunno divora
gli attimi estivi; e forse mi vergogno
di giacère stordito e visionario.
Fuggono i monti, e non posso far nulla,
e non è quercia l’ombra, né betulla;
e cos’è mai? È uno spettro funerario?
Salta, e saltella quest’ombra, e il suo nome
sarà Destino, un Mostro d’irte chiome.
Non so! Rimembro l’alpestre suo volto;
ma il sogno, il mio sognàr, ora è sepolto.

È il vaticinio d’un Poëta inquieto,
lo sai, cuor sibillino? E viene il senso
d’ignote cure; e l’autunnale feto
a nascere s’appresta dove immenso
è il mio morìr. E perché questo è eterno?
E che son se io non sogno? se non pianto?
E l’Alpe ignora quest’ultimo canto!
Ella… così innevata! e nel suo inverno!
Cinguetta il vespro del tordo emigrante,
e piange l’acqua del ruscèl infante;
e il tramonto che viene è oscuro, e inghiotte
le mie montagne, e le mie cime. È Notte!

E tu, alba Luna, vedi? E mi sopporti?
E inargenti le vette, oh tu! funesta
stilla d’un nembo. Ma i monti? son morti,
avvolti in màn di notturna Tempesta.
Cosa ho lasciato? E la mia giovinezza?
E i desidèri forse? e i miei usignoli
di montagna? e le viti e i vignaioli?
e mite il vento? e mattutina brezza?....
Un epitaffio lassù è stato inciso
sul petalo piccìn d’un fiordaliso:
la roccia ha preso i miei sogni e nel mare
li ha sotterrati delle sue aspre bare.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì IV Settembre AD MMXV

martedì 18 agosto 2015

In Ode d'una Rosa e d'un Cigno

Il lago palpita,
dal fresco lido
v’è la montagna.
E tu, e tu, oh càndido,
esci dal nido.
Che è questa lagna?

Cigno dei monti, perché piangi all'acque?
Forse è la rosa che scorgi e che grida,
e che appassisce, come un'altra giacque,
e un fiore della Morte in te s'annida.
Vedi? I suoi steli decadono, e lenti
ondeggiano sul lago; e va il tuo canto
a seguirli, e l’Ignoto asperge il pianto
di lunghi e incerti e intensi patimenti.
Ma non sai che defunti i canti, i tuoi,
i tuoi Destini, ahimè, saranno i suoi?
Non finìr di cantàr! La Sorte vede!
Se un cigno tace, sai tu che succede?

La rosa è l’ultima
del monte estivo.
Cantale un salmo!
Non sai che il petalo
sarà giulivo,
forse più calmo?

Ala di Luna, perché questa danza?
La rosa muore, e tramonta l’estate.
No! Non tacèr! Continua la romanza!
Sii tu del Fato il sempiterno Vate!....
Ma perché il fiore che annega s’avanza?
È il rosso sangue di sere dorate;
e nella Notte che viene s’ammanta.
Anima mesta, perché il cuor ti canta?

La Morte è in spasimo,
tinta di nero.
La senti, oh mesto?
Silenti i gemiti
del cimitero,
Fato funesto!

Rostro di nenie, non odi il silenzio?
È la valle d’intorno che guaïsce,
un labbro muto attoscato d’assenzio.
Vedi la rosa? Un’onda la ferisce,
e nel perenne flutto la trascina,
dove il lago in furòr la seppellisce.
Oh perché, oh cigno, ella non s’incammina
sotto le tue ali, cui l’acqua addestina?

Devi sol gèmere!
Oh falbe penne,
non v’agitate!
La Vita spasima,
volto perenne.
Perché lagnate?

Cigno in singhiozzi, perché piangi il fiore?
Non fu che vano, e vanamente langue.
Ma non era il tuo sogno? era l’Amore
che il tuo cuor lamentava in tanto sangue?
È morto! È morto! e il sognàr è finito,
e non ti resta che un canto d’eterno,
qui prolungato all’autunno e all’inverno;
e se vuoi, muori! E vedrai l’Infinito!
La rosa annega, e tramonta e scompare,
come fa il Sole al termine del mare.
Una speranza d’Amore è sepolta.
Tace il tuo labbro. La Morte! Ecco! Ascolta!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Martedì XVIII Agosto AD MMXV

domenica 16 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. Ode al Lamento d'un Contrabbandiere

Hai tu dell’oro, oh bandito irredento?
Senti! Va’ al monte e compra la tua Vita,
sì, lei che un dì hai perduta; e nel vento
ascolta! Suona il ciel d’un’eremita.
Oh piacèr del fugace contrabbando!
I boschi scruti, e hai timòr dei fucili,
ghigni vi sono più oscuri e più vili,
e il tetro sterpo può esserti nefando.
Orsù! Orsù! Bevi il liquòr della Luna,
sfida la Sorte, e la vana Fortuna!
Non senti che il pugnàl preme le spine?
È Notte tarda. Dov’è il tuo confine?

Taci! Nascondi il tuo sigaro. Senti?
V’è un frèmer di lanterne e di mastini.
Se muori, dimmi: cosa emani ai venti?
Sogni d’Amore, e angosce di Destini.
Ma qui i tuoi passi camminano lenti,
e riparo ti sono i neri pini.
Fermati! E pensa! Cos’hai nel tuo cuore?
Torna al paëse, ritorna al tuo Amore!

Zingara alpina la Notte t’avvince,
docile danza coi veli lunari,
e l’Alpe ha un occhio come d’una lince;
e ora sei un’ombra, sottìl più dei mari,
e al seno della roccia ti giaci al sicuro,
e invochi i Santi, quelli tutelari.
Così a un castagno nudo e tristo e impuro
la sera inghiotti, l’Infinito oscuro!

La ronda s’allontana. Non la intendi?
Varca il confine, e compi il tuo mestiere!
Ora tu compri, contratti e poi vendi,
e dei banditi tu sei il cavaliere.
Allor tu puoi tornàr alla tua donna;
ma attento, oh folle, oh tu, alle carabine.
Non sognàr già le guance femminine,
e la temente e spasimante gonna!
Hai comprato la Vita; e vuoi morire?
Scappa! Stai quieto! Ora è meglio fuggire!
E se il tuo cuore tormentando sogna,
sappi: t’aspetta o la forca o la gogna!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Domenica XVI Agosto AD MMXV
 

Romanticismo di Montagna. In Ode d'un Viandante alpestre

L’Alpe è una donna che fugge il Poëta,
lo sai, oh viandante, oh tu, che erri lontano?
Tra le nevi disciolte ella s’allieta;
ma no, non del tuo canto ansio e profano.
Canti alle pietre, e ti lamenti ai falchi,
e nel Nulla dei monti e delle sere
tacciono l’arpe e le fredde preghiere,
e cos’è mai? Ah! Nel ciel senti: oricalchi!
Pellegrina ombra! È venuta la Notte;
e chiedo: «Avrai tu rifugio alle grotte?».
La caccia muore, e l’orizzonte è cupo;
lento, lento cammina! V’è un dirupo.

L’Alpe tra i tuoni annuncia un Temporale,
lo vedi che sei in pasto ai lampi e al vento?
Cupa è la sera di gelida opàle,
e tu lo sai? Forse avrai un patimento,
gelerà il cuore in mezzo al maëstrale,
palpito indarno d’insàn Sentimento.
Viandante, forza, la Sorte disfida,
e non temèr quel che in costei s’annida!

Curvo come ombra di spettro sottile,
fermati e ascolta! È il tuo affanno in respiro,
e nulla più ti par quieto e gentile,
nemmèn la fonte col fresco suo spiro,
né il vecchio pane che addenti dal sacco,
né un vuoto sorso di vino, né il ghiro
che va a dormire, e l’impronta del tacco
ti fa paüra. Non fare il bivacco!

L’Alpe è una Luna, argento capriccioso,
l’hai scorta, allora? E il tuo peregrinare
mai finirà, e nel venìr silenzioso
dell’alba nuova, camminerai, e urlare
forse dovrai supplicando il Destino,
e il viaggio eterno ti vedrà più solo,
come d’inverno a un ramo un usignolo,
e tu, ami ancora questo sasso alpino?
Ami purtroppo! Una pietra che è niente,
un folle sogno, oh sonnecchiàr demente!
Ma per te l’Alpe è davvero una fanciulla.
Meriti forse morìr nel suo Nulla?

L’Alpe è un segreto che tieni nel cuore,
e perché non lo dici all’Infinito?
Il cielo tace, anche il lampo in furore,
dillo, oh viandante! Perché sei smarrito?
La valle intende questo tuo dolore,
e Dio ha orecchi e occhi nel suolo impietrito.
Grida alle stelle e al vespro oscuro e nero
l’Anima tua con il suo almo mistero!

Silenzio oscuro si regna d’intorno,
e stanco e smorto or continui pei monti,
e qui ti fermerà almen l’altro giorno?
Giaci affamato e scruti gli orizzonti,
come se in te qualcosa s’è perduto,
e a stento baci le pietre dei ponti.
Non sai cos’è, e il tuo labbro si fa muto,
e a terra cade e s’infrange il tuo liuto.

L’Alpe è il Destino che ti chiama ai lunghi
sentièr perenni d’un insàn dolère.
Mangerai sassi, discorrerai ai funghi,
vedrai i giorni morìr nell’orbe sere.
Viandante, è il Fato; e tu ancor lo sopporti?
La Vita ti abbandona, e non hai un fiore
sulla bara vivente, e tane e Amore,
vivi fuggendo, e vivi come i morti.
All’alba dice la fresca montagna
niente se non la tua tremula lagna.
Vivesti male, lo dice il tuo volto,
fuoco d’un’ombra nei sogni sepolto!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XV Agosto AD MMXV

venerdì 14 agosto 2015

Romanticismo di Montagna. La Ricordanza del Villaggio di Olgia

Cuore, ricordi le montagne e i rivi?
È venuto il tramonto, e s’è dispersa
l’ombra dei monti, e i ruscelli e i giulivi
sassi, e la chiesa dalle nubi tersa.
Vedi? Le cime svaniscono, e il Nulla
dei scialbi campi regna le radure,
e tu, tu stesso, in ineffabili cure
a un sogno piangi, e alla sera fanciulla.
Cuore, rimembri il Gridòne, il Titàno?
Tu non lo vedi, ma s’erge lontano!
È ricordanza di una quieta estate,
la folle lagna d’un misero Vate.

Cuore, rammenti i sentieri nei boschi?
Ivi scorgesti le chiese montane
della Svizzera, e i sassi ombrosi e foschi
che un dì il bandito percorreva; e tane
di tetre serpi e di povere prede,
lì, ove ammiravi splendere una Luna
che falba e in pianto vestì la laguna
dell’alte vette d’argento. E la fede,
cuore, ricordi? Diceva d’Iddio,
nell’Infinito che regnava; ed io
in te brindavo col sangue secreto.
Cuore, rimembri? Era gelido il greto.

Cuore, ricorda le selve e le spine,
dove hai sognato le Valchirie, e i lupi,
lì, sul sublime sguardo di ferine
aquile, e là dove udisti i dirupi
di Morte urlàr! E i torrenti alti e alpini,
i vàlichi scoscesi, e i freschi fonti,
rimembra, cuore! i serali orizzonti,
e i sempre oscuri e tàciti Destini!
Cuore, ricordi i fiori che da maggio
crescono quieti vicino al villaggio?
E le more gustate, e i rovi, e il vento,
rimembri, cuore, estatico il momento?

Cuore! Era sera e la Luna splendeva,
illuminava la valle d’intorno.
Pur sapevi che in ciel costei gemeva?
Visse la Notte, ma bramava il giorno!
Una Luna di marmo; e impietosito
muto la contemplavi, ansiosamente,
e cuore! Taci? Non era soffrente
nel ricercàr del Sole suo smarrito?
Eppur rimembri le festose Messe
dinnanzi all’Alpi dal Signor oppresse.
Cuore! Hai perduto questa Luna scialba,
e questi monti. Svegliati! chè è l’alba!

Cuore, rammenti di Olgia, la perduta?
Quando la dominavi in fin dall’alto!
E la tua valle in un campo si muta:
ve’!  la pianura, il grano e il riso e il malto.
Ma lassù, cuore, cos’hai abbandonato?
Cuore, rimembra le placide sere,
la dolce chiesa, i salmi e le preghiere.
Eppur non basta; s’infuria il tuo Fato!
Cuore, a quest’Alpe lasciasti un pensiero,
la fiamma che si spense sopra un cero.
Tu dimenticasti te stesso e il Signore!
Oh cuore, oh tu Alpe, oh singulto d’Amore!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Venerdì XIV Agosto AD MMXV